Oltre ogni ragionevole dubbio: la parola a Friedkin

Oltre ogni ragionevole dubbio: la parola a Friedkin  



Nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Mitica ormai, a un anno di distanza dalla scomparsa di William Friedkin, la famosa battuta di Vivere e morire a Los Angeles non solo costituisce un azzeccato epitaffio: suona quale sarcastica tromba del giudizio, in linea con la dottrina del regista-sceneggiatore nei confronti d’un emisfero umano inguaribilmente contraddittorio, solcato da una scia d’ambiguità sino all’ultimo decisa a rimanere tale. La sospensione si fa punto nevralgico, lungo una produzione prolifica eppure discontinua (e non sempre meritoriamente ripagata), quand’anche un epilogo sembrerebbe decidere il destino dei personaggi: è sufficiente uno spostamento di macchina verso un esterno piovoso, con un sinistro pick-up a sopraggiungere senza preavviso; o la dissolvenza incrociata su un torbido sguardo allo specchio con la baia newyorchese all’alba, accogliendo un transatlantico come nell’incipit, a chiudere il cerchio. Anche solo il rumore d’uno sparo fuoricampo, durante una turbinosa operazione di polizia: non occorre altro allo spettatore per farsi i propri conti. I nodi dell’assunto da entrambe le direzioni – suggerisce Friedkin – sono ormai sciolti nel modus operandi, facendo della prima il complementare (compromesso) tassello della seconda.
Nessun dubbio su questo: la grottesca realtà travalica la fantasia, facendosi chiosa appropriata d’una visione autoriale in linea coi suoi coerenti principi. E al dogma, va da sé, non sfugge nemmeno il comparto giudiziario, 
mise-en-scène d’impostazione classica per il grande schermo, il cui impianto inevitabilmente teatrale si riterrebbe più confacente per il piccolo. Nel segnalare che il cineasta di Chicago, negli anni della formazione, si fece le ossa per la televisione firmando episodi di serials e documentari, spesso tornandovi in seguito, giunge il tentativo – spontaneo – di contestualizzare il classico di Reginald Rose, La parola ai giurati, aggiornandolo dopo otto lustri e ribadendo una view volutamente incongrua. Spontaneo anche perché il canovaccio dell’aula di tribunale è luogo canonico che il ventisettenne Billy affronta, nel ’62, col documentaristico The People vs. Paul Crump, rilevante pamphlet tra i primi avversi alla pena capitale (qui la rapina sfociata in omicidio, ricostruita da un reporter, evidenzia come l’identificazione dell’uomo avvenga solo tramite la sua voce, nove anni prima della riabilitazione). Nelle psicologie di ciascun personaggio – d’alterno esito nella restituzione, pena il miscast – caratterizzazioni e tratti distintivi appaiono bilanciati dalle rispettive discrepanze somatiche, marcando più stretto nei profili del misantropo (un esagitato afroamericano) o del venditore, superficiale e indifferente alle decisioni d’adottare, smanioso di concludere e recarsi a una partita di baseball. Incluso il tema musicale di Kenyon Hopkins, riproposto tal quale, pressoché inalterati restano azione e dialoghi, con qualche modifica d’obbligo (il divieto di fumo nella stanza della giuria), laddove i mutamenti apportati, relativi al reddito e a figure contemporanee della cultura popolare, s’incentrano su battute riguardanti l’etnia ed occasionali imprecazioni.
Irripetibile però è l’America 
liberal fine Anni Cinquanta del prototipo, e a contrappuntare l’ineludibile gap provvede una contemporaneità in cui l’impostazione giuridica, fortemente debitrice di novelist del rango di Grisham o Turow, apparenta il risultato a un’onesta confezione di medio livello, attenta al rinverdimento del compito (il giudice in apertura è una donna, e, a cominciare dal presidente, quattro giurati sono di colore). A dire il vero Friedkin, che nel team reimpiega il sodale William Petersen, non si premura di eccedere nel riconoscibile guizzo autoriale, probabilmente timoroso di “tradire” l’originale con qualche colorita, tipica variante. Nondimeno, il clima metropolitano che ne permea il cinema precedente, tutta action e frenesia ogni volta incalzante, giustifica il quadro di crescente antagonismo, quando non d’accesa ostilità, adibito a scindere il blocco d’individuale legalità in due fazioni letteralmente spaccate dal pregiudizio, introiettando classi e ragioni sociali. Ma è poi l’antitetico sospetto secondo cui il senso del dovere, dietro ragionevoli dubbi, non sempre collima con quello di giustizia (talvolta non coincide affatto), e in ambo i casi non è detto si reputi etico. A dispetto del capolavoro di Lumet, si concede ampio margine alla coloritura degli scambi interlocutori, dispensando qualche novità sull’interazione a rischio d’una faticosa diluizione: ne consegue una dilatazione nei tempi rispetto all’originale (il prodotto dura quasi due ore), all’occorrenza esentando quell’asciuttezza ch’è il filo (del rasoio) della suspense. Provvede al resto lo stringato gioco di campi-controcampi sui volti dei personaggi, alternato all’opzione di inquadrature disarticolate (ad esempio dal basso all’alto) accompagnate da sinuosi movimenti di macchina. Fedele, altresì, l’opzione di spostare l’attenzione nella stanza da bagno (luogo di soste e civili accomodamenti) e, a fine dramma, nei corridoi del palazzo di giustizia.
Quanto d’attiguo allo spunto di partenza esorta il 
reboot da Rose, ventisei anni dopo si ripete, eccellente, con un’ulteriore trasposizione: scegliendolo a mo’ di testamento artistico, che riesce a completare poco prima della morte, un Friedkin minato dalla malattia riesuma L’ammutinamento del Caine concentrandone assunto e sviluppi – dietro i resoconti dei testimoni di volta in volta chiamati a deporre – nella stanza della Corte Marziale indicata dal sottotitolo. Dell’omonimo lavoro a firma Herman Wouk, premiato col Pulitzer, esiste una moltitudine di varianti (è sufficiente rammentare quelle dirette dai rispettivi Franklin J. Schaffner e Robert Altman). Tuttavia l’indimenticabile autore de L’esorcista medita da tempo l’idea di trarne una propria versione, intenzionato – per sua stessa ammissione – a creare una situazione tesa e concitata. Ed ecco che la sottile e ineluttabilmente ambigua barriera di demarcazione giusto/sbagliato – ossia l’eterno divario tra il Bene e il Male – esplica la morale su un “mondo contraffatto” in modo didascalico, senza esser molesta. A testimoniare come il Caine di Friedkin, tra l’altro, segni un estremo ritorno al passato venato di nostalgia, e al contempo un regolamento di conti con l’esistenza, essendo il marchio d’una mitica casa di produzione: quella Republic Pictures (rivitalizzata dalla Paramount) che, durante la Hollywood del biennio Quaranta-Cinquanta, produsse alcuni Ford memorabili. E in una messinscena ridotta all’osso nella quale un montaggio serrato incalza protagonisti e comprimari, gesti e atteggiamenti, in un profluvio di primi e primissimi piani a favore d’una tensione dal ritmo più accentuato, si ritrova il sano spirito liberal degli psicodrammi nati con la radio, cui il formato televisivo avrebbe trasmesso equa dimensione facendone eponimo stilema.
Senonché la reminiscenza, annoverando l’ovvio paragone col classico di Edward Dmytryk, cede il passo all’alveo costituzionale/istituzionale in cui l’America regola, critica e in fondo assolve sé stessa senza riconoscere colpe né vergogne, errori o responsabilità. Va da sé come dietro il paravento d’una struttura 
kammerspiel, concentrata interamente su interni, il courtroom non ritragga la requisitoria nei confronti dell’ignominioso paradigma trumpiano fra vincenti e perdenti, squadernando il dialettico bisticcio dell’agone democratico affinché la verità venga a galla, e lo j’accuse, perlomeno nella finzione, una volta tanto consenta di far “giustizia per tutti”. Il contraltare civile de La parola ai giurati, sui numerosi banchi del tribunale militare, assume la reale cadenza (se non l’estremo squillo di rivolta) d’una marcia a favore dell’equità razionale: lecito e illecito sono sguardi di un’identica moneta, ove l’abuso d’autorità, in virtù del primo, talora impone la trasgressione a regole (secondo codice) d’onore. E non è un caso che tra i due titoli qui presi in esame, faccia capolino un lungometraggio per il grande schermo – Regole d’onore, per l’appunto – teso a conferire l’equo ridimensionamento a entrambi i prospetti, tra le quali s’insinua, a mo’ di diabolico zampino, l’ambiguità. Bene lo sanno i colonnelli Hodges e Childers, nei riluttanti ruoli di difensore e accusato. E così il capitano di corvetta Queeg impersonato da Kiefer Sutherland, che non fa rimpiangere il ricordo di Bogart (e delle biglie che le mani armeggiano compulsive), è gradualmente smascherato in una nevrosi contenuta a fatica, pronta a esplodere da un istante all’altro, senza più soluzione di continuità da ambedue le parti.
Dove però la mano registica di Friedkin sancisce la definitiva 
politique, è nel conclusivo discorso, pseudo-cerimonioso, per bocca del tenente Greenwald (Jason Clarke), antagonista suo malgrado chiamato a difendere il comandante in seconda, reo d’aver accantonato il capitano. Un’autentica alzata di calice contro l’ipocrisia e l’opportunismo di chi, tra vigliacchi e delatori, non mostra la vera faccia ma la veste dell’inganno, distruggendo chi opera e/o si prodiga, a volte strumentalmente, non per migliorare sé stessi quanto peggiorare gli altri. Una missione anch’essa – in negativo – facilmente riconducibile a quel sistema produttivo dietro le cui oscure trame, talenti un tempo alle stelle si ritrovano progressivamente osteggiate, esiliate, messe da parte. E costringendo uno di essi, quel Friedkin, all’ultima stoccata in finale di partita. L’inatteso dito medio, come in Killer Joe, ancorché esente da colpi bassi. Un calice di champagne in faccia, seguito da un immediato stacco. Poco più d’un secondo adibito a piccola, potente ripicca. A ribadire un mondo basta la parola – anzi, un fotogramma. Basta rivincere: alla salute!

Francesco Saverio Marzaduri 

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