Questione di sguardi

Questione di sguardi 


L’occhio moltiplicatore del cinema, dichiara il titolo. Più semplicemente, come da nomenclatura cinefila, politique des auteurs. Non sarebbe corretto, tuttavia, ridurre il volume di Danilo Amione, edito da Mimesis, ad ulteriore catalogo di sguardi sul mondo, prospettive, visioni registiche tese a identificare lo stile d’un cineasta o il fil rouge che ne attraversa l’eventuale filmografia. Chiamato a scriverne la prefazione, lo storico Dario Tomasi ne individua il segno. E il testo, da par suo un manuale analitico, si propone quale sguardo a 360° a più voci, sezioni o direzioni: dagli immancabili primordi transitando per gli sperimentalismi in embrione, sino alle evoluzioni tecnico-teoriche del mezzo filmico, alla concezione di obiettivo in quanto famigerato strumento di propaganda, e ineludibile demiurgico restitutore di tragiche verità. È facile intuire che l’effettivo elemento con cui, eponimo, s’identifica una data filmografia (l’umana tragicommedia secondo Wilder, l’epica di Ford e via discorrendo) si stempera man mano in qualcosa di più sottile, non limitandosi all’idea di cinema, assorbita da Truffaut, quale riverbero dell’esistenza. 
Autori, film, temi – recita il sottotitolo – si fanno unicum meno banalmente passivo, consentendo di rintracciare denominatori comuni nelle tante voci intersecate, quand’anche di fronte a produzioni (apparentemente) agli antipodi. Specialmente nella seconda parte, Amione si concentra con maggior insistenza su cineasti (dal Pasolini documentarista alle ultime produzioni di Bellocchio e Polański) riveduti e riletti come ramificazioni d’un pensiero, un analogo sentire dinanzi a cui antitesi e dualismi – non ultimo verità-finzione – si sciolgono con inappuntabile schiettezza rientrando nella disamina d’una realtà, e del suo rovescio, ch’è nell’ordine delle cose. Così pure lo spaziare dagli States all’Iran via Europa, senza soluzione di continuità, le conseguenti operazioni analitiche degli autori selezionati (servite da un vaglio tecnico ispirato a una sintesi asciutta), si ritrovano abbattuti nelle coordinate temporali, con un Prima e un Dopo la cui disparità resta in minima traccia avvertibile: quasi fosse il Destino, complice l’artificio della magia cinematografica, a far di Zurlini il prosecutore del Rossellini introspettivo, o in Leone il rappresentante della mitopoiesi fordiana che in Eastwood riscontra l’icona testamentaria. Il che non minimizza fugaci scorci (Bergman o Lelouch, il Pietrangeli di Io la conoscevo bene e perfino i Ciprì-Maresco de Lo zio di Brooklyn) in linea con uno spirito di lucidità unilaterale: la stessa, appassionata, che consente alla firma del volume di convergere verso un senso estatico del fotogramma percepito in quella veste di Perfezione (con la “p” maiuscola) di schraderiana trascendenza, dirottato nella quintessenza del Sacro (“Cinema puro, che va oltre sé stesso. Tecnica che diventa Morale”, riferito alla Giovanna D’Arco di Dreyer, “Immagine che si trasforma in Poesia. Storia che lascia il passo all’Assoluto”). 
Amione porta avanti l’assioma di Deleuze secondo cui l’immagine – un ápeiron rispetto alla sostanza – implica un’interazione costante con l’osservatore: una modulazione, eterna e incessante, d’un Tutto che muta indefinitamente. Dunque non può mancare la visione intellettuale del genio kubrickiano verso l’Infinito e oltre, duplice sogno dietro occhi spalancati chiusi, custodita scrupolosamente come l’effigie del Sacro che, discrepanze permettendo, apparenta il giansenista Bresson al cattolico Olmi. La celluloide è una continua rivisitazione. Ed è curioso che il libro esca qualche mese prima del recente lungometraggio di Kaurismäki, la cui patina della parabola sentimentale, permeata di semplicità dietro una fredda scorza di superficie, svela ben presto un campionario d’amore verso la Settima Arte, offerto dalla moltitudine di citazioni e manifesti all’esterno d’una galeotta sala d’essai. Quanto il cinema abbia contato nelle singole vite, e tuttora conti nonostante la perseverante apatia, si stempera nelle pagine conclusive, a rischio dissipazione, nell’interpretazione d’uno spot televisivo: dietro la trovata, il fine pubblicitario cannibalizza il significato di un’immagine in cui tutto rapidamente si consuma, azzera e consegna a una memoria irrimediabilmente consumista. E il regno della Merce oltrepassa quella dimensione di sacralità che (Bazin insegna) include l’ultimo atto, annullato nella reiterazione. “Bandire l’arte è bandire la creatività, e non poter essere creativi o non poter ammirare la creatività è il primo passo per ridurre l’uomo”: l’arcaicità cede il passo allo spettrale, la perdita d’identità e radici vanifica la naturalezza. Qualcosa che i grandi nomi della Settima Arte, guardando avanti, avevano carpito. Come il suo smarrimento senza avvenire.

Francesco Saverio Marzaduri 

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