Cinema... nel pallone
Cinema... nel pallone
“Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore
un
giocatore lo vedi dal coraggio
dall’altruismo
e dalla fantasia…”
FRANCESCO DE
GREGORI
“È
la dura legge del gol
fai
un gran bel gioco però
se
non hai difesa gli altri segnano
e
poi vincono
Loro
stanno chiusi ma
alla
prima opportunità
salgon
subito e la buttan dentro a noi
la
buttan dentro a noi...”
MAX PEZZALI
Iniziata,
come lo storico Watergate, con la scoperta di intercettazioni
telefoniche compromettenti, la bufera che una dozzina d’anni fa
investì il mondo del calcio finì per coinvolgere, giorno dopo
giorno, presidenti e dirigenti, allenatori e commissari tecnici,
arbitri e guardalinee, calciatori e perfino intere squadre,
moviolisti e giornalisti sportivi. Ed è curioso che tale bufera si
verificasse in concomitanza con l’uscita, sul grande schermo, di
una commedia calcistica a episodi prodotta da Paolo Virzì,
dall’ironico più che accorato titolo di 4-4-2 – Il gioco più
bello del mondo, e con la messa in onda televisiva della fiction
L’ultimo rigore. Venato d’ingenuo ottimismo tipicamente
populista, siglato da un happy end alquanto improbabile, date
le circostanze che seguirono di lì a non molto, lo sceneggiato
diretto da Sergio Martino vide la luce proprio nella settimana in cui
altarini e magagne uscivano allo scoperto toccando vertici tali da
destare, nell’osservatore più attento, qualche lecito sospetto,
oltretutto a pochissima distanza dall’inizio dei Mondiali di
Germania.
Se
lo sport nazionale per antonomasia sembrerebbe, adesso più che mai,
rappresentare il cosiddetto Belpaese nei suoi aspetti più
indecorosi, è anche vero che nella produzione cinematografica di
casa nostra il calcio non ha goduto di caratterizzazioni
particolarmente profonde, o comunque tali da vedersi riconosciute
peculiari qualità poetiche: quelle a cui il calcio, inteso come
gioco prima ancora che sport, avrebbe potuto facilmente rimandare se
opulenza, arroganza, violenza, sopraffazione e tanto altro non ne
avessero inquinato lo spirito. Il cinema italiano non ha quasi mai
mostrato nei confronti del calcio quel pathos,
quell’attenzione narrativa, in grado di metterne in risalto lo
spirito e la poesia, riscontrabili invece in molti esempi offerti
dalla cinematografia straniera (inglese perlopiù, ma anche
statunitense).
Includendo
anche passi falsi, da biografie romanzate i cui esiti sono
schiacciati dal peso delle ambizioni all’origine (Best di
Mary McGuckian, dedicato al mitico campione nordirlandese), o allegre
goliardie di difficile esportazione, non prive però di qualche
curioso inserto digitale (Shaolin Soccer
di Stephen Chow), il pallone non manca quasi mai di essere
rappresentato in tutta la propria agonistica poeticità: a ribadirlo
in modo anche più esplicito, basterebbero prodotti che sembrano
volersi collegare a tendenze culturali di qualche passato decennio
(il Free Cinema, per
dirne uno), ma dalle connotazioni ancora vivacemente attuali (si
pensi a My Name Is Joe di
Ken Loach), talvolta non esenti da spunti di documentarismo
(Hooligans di Philip
Davis) e talvolta legati a opere letterarie di recente successo (come
Febbre a 90° di David
Evans, da un romanzo di Nick Hornby).
Successivamente
il calcio è servito da sfondo per commedie garbate, anche se non
esenti da messaggi edificanti ed ecumenismi vari (Sognando
Beckham di Gurinder Chadha), ma
non si può trascurare come, in passato, questo sport fosse poco più
che un fattore secondario da cui partire per analisi psicologiche
verso chi il calcio lo fa, lo pratica, lo vive in prima persona, lo
sente come una seconda pelle. Spunti interpretabili, in un certo
senso, come un approfondimento sulla solitudine dell’atleta (Prima
del calcio di rigore di Wim
Wenders, il cui soggetto reca la firma di Peter Handke). Senza essere
obbligatoriamente mostrato, il calcio è presente anche in modo
velato, non visibile all’osservatore che però avverte, in esso, un
momento di temporanea serenità e distrazione per un paese in
macerie: se occorre affrontare il proprio sfacelo e il conseguente
riassestamento, non ci si lascia sfuggire però l’occasione di
vedere una partita diffusa da qualche schermo tivù nei paraggi (E
la vita continua di Abbas
Kiarostami). E la messa in onda di un match, a sua volta, può essere
occasione di fuga per un bambino da un carcere minorile, senza dare
nell’occhio (Salaam Bombay!
di Mira Nair).
Nel
versante della fantasy,
come mostra una scena del disneyano Pomi d’ottone e
manici di scopa di Robert
Stevenson, si può immaginare una partita di calcio giocata fra
animali a disegni animati (con un gorilla in porta) abbastanza
incuranti delle regole, e dunque capaci delle più eclatanti
scorrettezze, di cui l’arbitro (un umano in carne ed ossa) fa
ovviamente le spese. Ma l’aspetto agonistico del calcio giocato,
ostentato in una chiave ingenuamente ottimista e magari siglato da
lieti fini in cui la vittoria nasconde a fatica il senso di una
premiazione ch’è catartico riscatto, lascia anche alcune pagine
memorabili: chi non ricorda la rovesciata di Pelé, o i ralenti
sui calciatori Osvaldo Ardiles e Bobby Moore, in quello che resta
probabilmente il film più famoso sul calcio, Fuga per la
vittoria di John Huston? Qui,
un gesto atletico appare in tutta la propria poesia, come se ciascuna
azione dei giocatori di volta in volta inquadrati fosse il singolo
frammento d’una coreografia, ma i cui componenti sono atleti veri e
propri, nomi storici e gloriosi del calcio all’interno di una
mise-en-scène. Il
calcio, qui, è anche eclatante metafora di vita, praticato da uomini
capaci di azioni indimenticabili nella loro immediatezza, che di esso
serbano un’idea che – prima d’essere filosofia – è saggezza,
barriera contro un mondo sordido traversato da demagogie capaci di
annientare la dignità e il reale valore di questi uomini. La partita
è occasione di un riscatto, il recupero di un orgoglio, e la fuga il
premio. Una morale, questa, che sembra calzare a pennello a un mondo
del calcio – quello attuale – ridotto a un contesto di opulenta
quanto dubbia moralità.
Questa
lunga premessa per ribadire come il calcio in Italia, prim’ancora
che nelle sue organizzazioni, quasi mai abbia goduto di narrazioni
filmiche in grado di esplicare quanto accennato. Evento
nazionalpopolare per eccellenza, ci si è probabilmente accontentati
di viverlo sullo schermo, come nella realtà, sotto una luce
chiassosa e superficiale anche se, tutto sommato, genuina e vitale.
Ciò, ben prima che gli interessi economici di cui si diceva
finissero per soverchiare ogni altro aspetto, generando o
amplificando fenomeni collaterali inevitabilmente marchiati da
becerume e volgarità, destinati nel tempo a divenire autentiche
piaghe d’ogni celebrazione calcistica. Fenomeni generati da
ignoranza e bassure, da etiche sportive soffocate dal troppo denaro,
da narcisismo e avidità. Fenomeni amplificati dall’invadenza di
mass-media tesi a gonfiarne all’eccesso gli effetti di evento,
ingigantendoli in quelle che erano (e restano) le sue polveri
bagnate, per un pubblico di spettatori disposto sempre più a
sublimare lo sport nei suoi esiti anche più discutibili e di
consumo.
Col
senno di poi, non si possono non rimpiangere i tempi in cui il calcio
sul grande schermo, prima che sul piccolo, era superficiale sfondo
per canovacci comico-farseschi, per la maggior parte imperniati sulla
comicità di protagonisti mattatori e inclini al bozzettismo (I
due maghi del pallone di Mariano
Laurenti, con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia). Ma anche spunto per
mettere in scena i primi segnali di qualcosa di oscuro, per iniziare
a parlare di corruzione in ambito sportivo, sia pure buttandola sul
comico (Il presidente del Borgorosso Football Club
di Luigi Filippo D’Amico, con Alberto Sordi). Perlopiù, si è
preferito sfruttare il tema-calcio in una salsa sguaiatamente
ridanciana al centro di commediole teoricamente di costume, ma dalla
facciata decisamente greve e qualunquista, che in realtà si
accontentavano di essere poco più di barzellette filmate, irte di
luoghi comuni, benché talvolta ispirate a figure realmente esistite
di sportivi (L’arbitro,
dello stesso D’Amico, con Lando Buzzanca).
Restano
però lontani i tempi in cui la gloriosa (e compianta) commedia
all’italiana riusciva a mostrare i mesti aspetti di un latente e
sprigionante fanatismo calcistico, al servizio non solo (e non tanto)
di pellicole incentrate sulla tematica in oggetto, ma persino di
minifilm: episodi che nel corso di pochi minuti, riuscivano a dire
ciò che i successivi scampoli tendevano a dilatare rompendone gli
effetti satirici: come non ricordare il tifo indiavolato, urlato a
squarciagola del baraccato Vittorio Gassman (che, per lo stadio,
dilapida il necessario per il sostentamento della famiglia)
nell’episodio Che vitaccia!,
tratto dal film I mostri
di Dino Risi? O i personaggi di Un giorno in pretura di
Steno, un pretore e un imputato che il giorno prima s’affrontano in
tribunale e il giorno dopo si ritrovano in curva, uno accanto
all’altro, a tifare come scalmanati?
Perfino
in una mitica commedia come Don Camillo,
di Julien Duvivier, il calcio funge da pretesto, in quanto occasione
tra altre di confronto ideologico e resa dei conti politica tra il
parroco e il sindaco comunista, al timone delle due rispettive
squadre. Aspetto, questo, ripreso assai maldestramente dall’omonimo
remake di cui Terence
Hill è interprete e regista, nel quale l’originario spirito che
animava i personaggi di Guareschi viene accantonato e, al suo posto,
si assiste alla nascita del futuro don Matteo, fiction televisiva
ante litteram condita,
qui, dalle solite gragnole di cazzotti. E tutto perde così tanta
attualità da mostrare l’invecchiamento di una maschera ormai non
più adeguata ai tempi, risolvendosi noiosamente (tanto più che la
partita si fa escamotage per
coinvolgere veri calciatori, sia pure in disarmo, nella parte di
giocatori da oratorio).
Durante
gli anni Ottanta, nel corso dei quali un’escalation
di violenze, guerre di mafia e delitti vari contribuirono, da un
lato, a mutare gli aspetti sociali e politici del Paese e,
dall’altro, a diffondere una sorta di assuefazione verso
l’illegalità, cui s’aggiunse la moltiplicazione di canali
televisivi commerciali con relativa offerta di programmi tendenti al
disimpegno, all’edonismo e all’ottimismo acritico, gli aspetti
farseschi e ingenui attraverso i quali veniva rappresentato il calcio
nei decenni precedenti, non solo non si fecero più seri ma
peggiorarono di qualità. A testimoniarlo, è una filza di prodotti
pensati (se così si può dire) seguendo logiche da piccolo schermo e
a cui nuove leve di comici televisivi di effimero successo prestano
volentieri la firma. Prodotti che sembrano pessima televisione e
invece anticipano l’odierna realtà: tematiche socio-culturali
scadono a caricatura di grana grossa, affondando nella banalità e
nel luogo comune, e l’unico spunto satirico si riduce,
nell’evidenza, alla parodia di figure calcistiche sulla cresta
dell’onda, impersonate da beniamini del pubblico tivù che
ripropongono la loro comicità macchiettistica senza nulla sforzarsi
di aggiungere. Gli
esempi sono innumerevoli, se si contano anche gli episodi: Il
diavolo e l’acquasanta di
Bruno Corbucci (con Tomas Milian post-Monnezza), Paulo
Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento di
Nando Cicero (con Pierino-Vitali in un duplice ruolo), Il
tifoso, l’arbitro e il calciatore di
Pier Francesco Pingitore (con Pippo Franco e il citato Vitali
protagonisti di due rispettivi episodi), Mezzo destro,
mezzo sinistro – 2 calciatori senza pallone di
Sergio Martino (con Gigi e Andrea), e i segmenti tratti dai film
Spogliamoci così senza pudor di
Martino (protagonista Enrico Montesano) e Testa o croce
di Nanni Loy (con Nino Manfredi).
Certo,
qualche volenterosa eco sull’attualità si avverte anche in essi,
sebbene faccia capolino negli ultimi istanti: in Bello mio,
bellezza mia di Sergio Corbucci,
il balordo protagonista (Giancarlo Giannini) riesce a sventare in
extremis un attentato
terroristico nel bel mezzo di una finale. E senza essere troppo
schizzinosi, le due operine appena un po’ meglio confezionate di
questa categoria, quelle che più hanno resistito alla prova del
tempo, rimangono Eccezzziunale… veramente di
Carlo Vanzina e L’allenatore nel pallone,
ancora diretto da Martino. Il primo, in particolare, non solo
riflette il fenomeno del calcio come fanatismo di un’Italietta
sottoproletaria e piccolo-borghese, cialtronesca e naïf, eppure
dotata d’una vitalità incosciente e genuina, ma crea anche un
nuovo tipo di linguaggio comico, fatto di icone, modi di dire,
battute e tormentoni entrati subito nell’immaginario, affidato alla
verve incontenibile di
un Diego Abatantuono prima maniera, moltiplicato per tre. Stessa
osservazione si può fare anche per il secondo, interpretato da Lino
Banfi (l’allenatore del titolo, il mitico Oronzo Canà), le cui
vicende di piccole e grandi soperchierie, di diffusa corruzione
dell’ambito gestionale calcistico, di squali e squaletti che vi
nuotano numerosi, paiono anticipare scandali successivi. È doveroso
osservare come nella maggior parte di questi film, l’invadenza del
piccolo schermo e la sottomissione ad esso, risulti sottolineata
dalla presenza, tra i volti noti di calciatori che interpretano sé
stessi, anche di autentici giornalisti televisivi. A distanza di
circa un ventennio, un certo modo di fare cinema popolare, come di
fare televisione, lascia ormai il tempo che trova: non basta più
rispolverare vecchie formule di successo e ripensarle a tavolino allo
scopo di ottenere i medesimi effetti. A dimostrarlo, il mezzo fiasco
del seguito di Eccezzziunale… veramente,
diretto ancora da Vanzina e con un invecchiato Abatantuono ancora nel
ruolo di mattatore.
Il
calcio resta al centro di parodie sbracate il cui successo è dovuto
al fatto che il loro umorismo, pur sempre di grana grossa, è
comunque più schietto. Lasciamo perdere se poi tali prodotti si
rivolgono a una fetta di spettatori ormai colonizzata dalla
televisione, che al cinema ci va unicamente per ridere e dimenticarsi
i guai. Ma l’immagine del Paese che ne esce, populista e furbastra,
piccolissimo-borghese e imbecerita, fa premio su un pubblico che non
nasconde ormai di riconoscercisi, dandogli nel contempo occasione di
ridere di sé, e per questo di considerarsi intelligente e spiritoso.
A questo tipo di pubblico si rivolgono prodotti come l’episodio del
film Fratelli d’Italia di
Vanzina (con Massimo Boldi milanista che si finge romanista per
salvare la pelle) e, sempre dello stesso, S.P.Q.R. – 2000
e ½ anni fa (qui è di scena
una partita tra milanisti e romanisti, in un’antica Roma che pare
la Prima Repubblica), o Tifosi di
Neri Parenti (nel cui cast, tra i volti noti, spicca anche l’ex
Pibe de Oro Maradona).
È
pur vero che qualche volenteroso sforzo si sarebbe potuto fare,
avendone la possibilità, senza per questo rendere più patetica una
sfera già di per sé a rischio a causa del profitto commerciale: a
provarlo sono opere quali Ultimo minuto di
Pupi Avati, Italia-Germania 4-3
di Andrea Barzini o L’estate di Bobby Charlton di
Massimo Guglielmi. Ma mentre il film di Avati racconta il mondo del
calcio di provincia con un certo disincanto, senza però rinunciare a
un happy end troppo
consolatorio e fiabesco per risultare convincente, gli altri due
echeggiano solo alcuni momenti o personaggi più significativi del
calcio per raccontare storie minimaliste (rimpatriate tra amici che
sanno di “grande freddo”, o itinerari on the road
che sono occasioni di confronto fra genitori e figli), ambientate in
determinati periodi storici del costume italiano.
Lo
sport come metafora di un atteggiamento psicologico che non rinuncia
a infantilismi, è lo spunto per Santa Maradona di
Marco Ponti, il cui titolo – oltre a essere un brano musicale del
complesso Mano Negra – simboleggia la mitizzazione di un’icona
pallonara, la sua trasformazione in divinità cui aggrapparsi nei
momenti difficili, alla quale non è possibile rinunciare per non
doversi ritrovare, privi di miti o idoli, disperatamente soli. Fermi
restando nel cinema italiano di più recente produzione, il destino
di uno scapestrato cantante (Toni Servillo) s’incrocia con quello –
parallelo e molto simile, data anche l’omonimia dei personaggi –
di uno stopper
sfortunato (Andrea Renzi) che sogna di diventare un allenatore,
concludendosi tragicamente, ne L’uomo in più.
Nell’opera d’esordio di Paolo Sorrentino, tra l’altro, la
vicenda del calciatore sembra echeggiare quella del povero Agostino
Di Bartolomei.
C’è
stato chi, come Ricky Tognazzi, ha preferito gettare uno sguardo
verso la nicchia dei tifosi, guardando al calcio con un occhio
rivolto agli ultrà del
film omonimo, realizzato in un clima in cui ferve lo stile
fintorealista più urlato ed esagitato. In realtà i pretesti
sociologici e documentaristici sono momentaneamente accarezzati,
salvo essere abbandonati subito dopo per una storia di gelosia,
ripicche e vendette di un gruppo di giovani coatti allo sbando. Pur
sempre avvertibile, tuttavia, è la voglia di un rinnovamento e di un
effettivo clima di novità nell’analisi di un Paese costretto ad
ammettere i cambiamenti di mode, gusti e tendenze generazionali nel
frattempo avvenute.
A
conti fatti, si può ben dire che il calcio, all’interno della
produzione cinematografica italiana, è di casa altrove,
rintracciabile semmai in piccoli episodi, talora banali e talaltra
carichi di sarcastica ferocia: eppure meritevoli di qualche
notazione, addirittura non privi di connotazioni poetiche, senza
bisogno di affrontare esplicitamente la materia per far satira
grossolana o facile umorismo. C’è ancora chi guarda una partita di
calcio tra le mura domestiche, magari strepitando come allo stadio
quando la squadra del cuore segna, come fanno Renato Pozzetto e Aldo
Maccione in Fico d’India di
Steno. Ma c’è anche chi opta per vederla senza che vi siano
scocciatori a interferire o perfino ad essere presenti in salotto: in
Un borghese piccolo piccolo di
Mario Monicelli, il padre Alberto Sordi e il figlio Vincenzo Crocitti
zittiscono la povera madre di famiglia Shelley Winters, impedendole
anche di accendere un lume che fa riflesso. C’è chi la partita la
guarda da solo, sublimandola con il medesimo atteggiamento
qualunquista e arrogante di quanti, del calcio, fanno un’ideale
valvola di sfogo per le proprie frustrazioni (come mostra Io
so che tu sai che io so,
interpretato e diretto da Sordi).
Nell’ambito
della commedia italiana anni Ottanta, c’è chi, come il Massimo
Troisi di Scusate il ritardo,
preferisce ascoltare per radio i risultati della partita che vede il
Napoli in campo, sperando di nascondere la propria timidezza alla
fidanzata, Giuliana De Sio, subito dopo averci fatto all’amore.
Chi, come l’emigrato pugliese (Carlo Verdone) di Bianco,
rosso e Verdone, non nasconde
sentimenti di orgoglio verso la propria squadra (la Juventus, in
questo caso), ha il suo bravo mito in Franco Causio e non pensa due
volte ad acquistare un pupazzo-mascotte in un autogrill. Prima di
calciare il pallone un po’ troppo oltre durante un’improvvisata
partita con alcuni compaesani, e faticare sino a notte fonda a
rilanciarla dall’altra parte dell’autostrada. In tema di
emigrati, poi, c’è chi, come il Nino Manfredi di Pane e
cioccolata di Franco Brusati, si
fa passare da nordico per trovare più facilmente lavoro: ma quando
dallo schermo televisivo di un bar in Svizzera vede segnare l’Italia,
non sta nella pelle dall’esultanza e finisce pestato.
Chi
come il ragioniere più iellato della storia, Fantozzi ovviamente,
quando non si ritrova a giocare in disastrose partite aziendali tra
sassi e pozzanghere, a malincuore deve rinunciare a vedere la
nazionale italiana in cambio di stucchevoli proiezioni d’essai (e
qualcuno le studia tutte per ascoltare la partita senza dar
nell’occhio, perfino nascondendo la radio in bocca), mentre
l’intero paese è collegato televisivamente. Ma quando può vederla
in tranquillità, non sembra curarsi molto – anzi, affatto – di
altre vicissitudini: sia che la moglie lo informi della propria cotta
per il panettiere sotto casa, o che lo avvisi dell’imminente
anniversario di matrimonio, o che il parentado abbia deciso di
traslocare a casa sua. In un episodio della serie, poi, i subdoli
colleghi di Fantozzi giocano una partita di calcio sui tetti della
Megaditta, lasciando che il povero protagonista – ricoprendo tutte
le funzioni degli assenteisti – simuli un’attività frenetica per
non destare sospetti. In un altro episodio, Fantozzi in persona
marina l’ufficio per recarsi allo stadio, finendo coinvolto in una
gigantesca rissa contro una colonia di tifosi scozzesi, al termine
della quale è scambiato per il principale agitatore; in un altro
ancora, il nostro prende lezioni d’inciviltà da un orrido
hooligan. E
all’ennesima occasione a disposizione per guardare la partita a
casa, è richiamato nell’Aldilà da dov’era stato cacciato per
esaurimento di posti disponibili.
C’è
chi gioca allegramente a pallone durante la sosta di qualche
picaresco itinerario, come fanno alcuni amici con dei magrebini in
Marrakech Express di
Gabriele Salvatores, o – in una scena di Mediterraneo,
dello stesso regista – su qualche sperduta isola greca, se
l’improvviso atterraggio di un velivolo sul campo non interrompesse
il match impedendo il calcio di rigore che poteva determinare la
vittoria. Al regista napoletano di adozione milanese, Aldo, Giovanni
e Giacomo dedicano una dichiarata citazione nel loro Tre
uomini e una gamba, dal trio
comico diretto in collaborazione con Massimo Venier: benché la
partita con alcuni extracomunitari volga a favore di questi ultimi,
che come premio si portano via la gamba di legno che i protagonisti
stanno recapitando, irresistibile è l’episodio al ralenti
in cui Aldo sbuca a sorpresa
dalla sabbia per prendere il pallone di testa.
La
partita di calcio, in quanto fattore incluso a margine, apre
Liquirizia di
Salvatore Samperi e vede contendersi due scuole, una di liceali e
l’altra di ragionieri (nel corso del film, tese a fronteggiarsi
anche sul palcoscenico per una recita), al suono del rock di Ricky
Gianco in stile anni Sessanta. Pure girata al ralenti
sui titoli di testa, in un campo da calcio irto di pozze fangose
decisamente memore di Fantozzi,
la partita presenta effetti comico-devastanti e tocca il goliardico
nelle azioni di un inetto portiere (un giovane Christian De Sica) che
non riesce mai a prendere palla.
Un’altra
partita, anch’essa inclusa sui titoli di testa e giocata da alcuni
assicuratori, inaugura una commedia diretta da Lucio Pellegrini, E
allora mambo!. Due fratelli
ereditieri accecati dall’odio, tra un dispetto e un’artigliata,
sembrano riappacificarsi per un istante facendo qualche tiro a
pallone, nel sottofinale di Caino e Caino di
Alessandro Benvenuti: salvo poi riprendere a darsele e finire di
strigliarsi a vicenda in manicomio. C’è chi qualche calcio alla
palla, in Buone notizie (o
La personalità della vittima)
di Elio Petri, lo tira per ingannare il tempo, sia pure in un
giardino straripante di sacchi d’immondizia, aspettando che il
presunto attentato in un’azienda televisiva sia sventato. In Da
grande di Franco Amurri,
un’azione calcistica simulata in modo fanciullesco, la compie un
bambino che, ritrovatosi di colpo nel corpo del quarantenne Renato
Pozzetto, non muta comportamento e abitudini. Una rovesciata, prima
della partenza, la compie il padre naturale di un bambino quando
questi gli calcia il pallone per salutarlo, gesto di un affetto
vitale e imperituro, nell’epilogo di Tutta colpa del
Paradiso di Francesco Nuti.
C’è
chi, rimasto da solo, ritrovandosi il pallone come unica compagnia
tra le mura di casa, gioca ed esulta per conto proprio come se stesse
disputando una partita vera, nell’amaro finale di Viaggi
di nozze di Verdone. Sempre
solitario tra le pareti di camera propria, c’è chi gioca a
calcetto usando un tappetino di moquette verde a mo’ d’improvvisato
campetto, in Sogni d’oro di
Nanni Moretti. In molte pellicole di cui è regista e interprete,
Moretti è al centro di fugaci segmenti che lo mostrano con la palla,
vuoi in compagnia di alcuni studenti cui involontariamente distrugge
la traversa (Bianca),
vuoi tra sé e sé in un campo desolato colmo di erbacce (Isole,
episodio tratto dal film Caro diario).
E ne La stanza del figlio,
il protagonista impartisce qualche lezione di tattica calcistica al
proprio ragazzo.1 Ancora,
ne La Messa è finita,
sacerdote presso la parrocchia di una borgata di Roma, don Giulio
(sempre Moretti) gioca a palla con alcuni bambini, come già don
Salvatore (Alberto Sordi) in Anastasia mio fratello
di Steno e, prima di loro, don Pietro (Aldo Fabrizi) in una scena di
Roma città aperta di
Rossellini. In una scena, però, don Giulio intravede nel calcetto
una scappatoia per sfuggire alle convinzioni (troppo) religiose di un
suo vecchio compagno di militanza.
In un episodio di Tre
tigri contro tre tigri di Sergio
Corbucci e Steno, anche Pozzetto, parroco carente di fedeli in un
paesino della Lombardia, si consola giocando a calcio con alcuni
chierichetti, che però sbagliano la mira e gli spediscono il pallone
in faccia. Come in faccia, pur involontariamente, il pallone a
Pozzetto lo tira la moglie Ornella Muti in Nessuno è
perfetto di Pasquale Festa
Campanile: il motivo dell’incredibile forza della donna è presto
spiegato, essendo questa un transessuale dal passato di paracadutista
tedesco di cui il marito è inizialmente all’oscuro.
Il
calcio, infine, torna ad essere fattore marginale per commedie
corali, come Camerieri
di Leone Pompucci: qui, gli inservienti del titolo contano sul
risultato di una schedina con la cui fortuna poter ricomperare e
rimettere a nuovo il fatiscente ristorante per il quale prestano
servizio. Senonché, un improvviso black out
interrompe l’ascolto della partita diffuso da una radiolina... Ma
il calcio è anche contemplazione, sogno inteso come utopia,
desiderio di evasione in quanto riscatto, possibilità di crescita,
ingresso verso la maturità, speranza: questo, il senso delle parole
(“C’è anche il campo di pallone all’istituto. Ti prendono
subito a giocare…”) che concludono Il ladro di bambini
di Gianni Amelio, pronunciate
dalla piccola Rosetta (Valentina Scalici) al fratellino Luciano
(Giuseppe Ieracitano), sul ciglio del marciapiede, all’alba, prima
di essere accompagnati in un istituto di Civitavecchia. Il calcio
come recupero e reinserimento, il gioco come ideale scambio di
partecipazione e confronto, possibilità di ricominciare dopo una
serie di circostanze drammatiche, seppur esperienze che ugualmente
aiutano a diventare grandi. Nello stesso film, infatti, c’è anche
un breve scambio di opinioni tra Luciano e un carabiniere
dall’atteggiamento scettico, circa le proprie rispettive squadre
del cuore.
In
conclusione, a parte le farse ridanciane e qualche rarissimo spunto
d’autore, quando non funge da sfondo pretestuoso o da indicatore di
vicende, il calcio non ha ancora ufficialmente goduto di
un’attenzione particolare sul grande schermo. Eppure, esattamente
come nel calcio giocato nel corso degli incontri sportivi, lungi da
qualunque sordida macchinazione o conflitto d’interessi, da
qualsiasi reazione teppistica volta a inquinarne lo spirito,
basterebbe qualche raro momento come quelli succitati a spiegare
quanto il pallone – inteso prima di tutto come gioco – conti
nelle nostre vite prima ancora che nel nostro costume, volenti o
nolenti. Basta molto poco per tornare a vedere in esso un momento di
spensieratezza e serenità. Basta volerlo.
Francesco
Saverio Marzaduri
1 Nella
miniserie di spot antiberlusconiani L’unico
paese al mondo, prodotta
dall’autorattore romano, un segmento adotta il calcio quale
sarcastica allegoria su un certo populismo demagogico. L’episodio
mostra una lunga steadycam
della m.d.p. nell’atto di condurre l’osservatore lungo i corridoi
di uno stadio, e si conclude su uno schermo televisivo posto a
centrocampo. Nel momento in cui l’apparecchio si accende sul
Cavaliere intento a declamare un messaggio di propaganda, un pallone
balza da fuoricampo e interrompe il televisore, che scoppia
nell’esultanza di una folla invisibile di tifosi.
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