Jerry Lewis, la possibilità di essere “anormale”
Jerry Lewis, la possibilità di essere anormale
Torna anzitutto alla mente, parlando di Jerry Lewis, l’agguerrita difesa che ne fece quaranta e passa anni fa una giovane e già autorevole firma della più schietta critica militante, tal Goffredo Fofi, in contrapposizione alla festosa accoglienza che all’astro nascente dell’umorismo ebraico-americano, Woody Allen, ne faceva il resto del mondo. Senza infingimenti esecrava il secondo – un “insopportabile coglione”, scriveva – ma lo storico direttore di “Ombre Rosse” fu il primo a spiegare ciò che negli anni seguenti sarebbe stato individuato come assioma dell’arte comica di Lewis. Non è necessario scomodare i francesi, all’epoca più predittivi e meno oziosi dei colleghi italiani: ci sta che i “Cahiers” abbiano compreso prima il fulcro di tale comicità, nel suo consistere semplicemente nell’inversione di quanto può apparire – ma solo apparire – normale.
Prima
che Lewis si misurasse con la regia (che conta una dozzina di
pellicole in tutto), facendosi supervisore tout
court dei propri
progetti, la maschera erede di Chaplin e di Stan Laurel che l’avrebbe
lanciato dalla seconda metà degli anni Quaranta in poi tracciava,
nel registro comico, uno sguardo aggiornato dei prototipi addirittura
ante litteram:
l’errore senza macchia in situazioni ogni volta inappropriate,
bigger than life come
una modernità già all’epoca invasiva e frenetica – e peggio per
chi non s’adatta, un dropout
puro di cuore resta un dropout.
Sicché la maschera lewisiana possiede tutto ciò che l’ordine
stabilito non gradisce ed emargina: il corpo dinoccolato, il candore
dietro una sghemba fisionomia, la voce stridula e biascicata (da noi
restituita dal timbro meno fedele ma efficace di Carlo Romano), i
gesti non coordinati e non conformi destinati a naufragare prima del
compimento. E anche se le meticolose, fondamentali esegesi di Giorgio
Cremonini nel suo Castoro, o di Toni D’Angela nel recente volume
Jerry Lewis o
l’impossibile, ne
esaminano la concreta plasticità in una sfera di “astratta”
normalità, l’espressione
“bastian contrario”, che racchiude il senso
d’ogni formula comica, aiuterebbe a capire meglio una compiutezza
artistica tanto asciutta e volutamente priva di sbavature da non
sapere, forse, di esser tanto in anticipo.
Perché
l’Ordine, o pseudo-tale, è un acquario schizofrenico ignaro di
esserlo e pronto all’imminente distruzione, come ostentano i
prodotti che vedono Jerry protagonista (i migliori dei quali, Dove
vai sono guai e Pazzi,
pupe e pillole, firmati
dal cartoonist Frank
Tashlin), per tacere di quelli in cui fa da sparring
al più piacente lover
Dean Martin, in un’epoca
prossima al consumismo “usa e getta” e futuro bersaglio di
critica e denudamento. Ma già il fatto di esser l’elemento di
contrasto del duo – e la vera stella – costituisce fattore di
denuncia rispetto al conformismo dilagante: Lewis avrebbe messo alla
berlina l’orridezza, tutta abiti sgargianti e pose da macho,
ne Le folli notti del
dottor Jerryll in cui lo
swinger Buddy
Love è l’allegorico, mostruoso double
face del candido,
sgraziato e impacciato professor Kelp. Il doppio
è d’altra parte uno
dei più collaudati marchingegni comici per riprodurre l’altro ch’è
in noi, attraverso varianti combinatorie al ballo di sua maestà
l’Assurdo, che nell’arte di Lewis si fa concezione teorica in
linea con l’aritmetica del buffonesco. Né Jerry ha fatto mistero
che uno dei suoi film preferiti sia l’inglese Incubi
notturni, che annovera
il celebre episodio del ventriloquo impossibilitato a liberarsi del
proprio fantoccio, con la personalità di quest’ultimo che gli si
sovrappone e lo spinge alla follia.
Nondimeno,
ogni innesco ilare deve possedere quel quid
di fanciullesco e
innocente necessario al funzionamento: numerose le circostanze in cui
il balocco (e non allocco) Jerry, a chi gli dà dello scemo, risponde
lamentoso alla maniera di un bambino, senza per questo volersi
inimicare chi gli è “nemico”. E nel migliore tra i titoli del
sodalizio con Martin, Il
nipote picchiatello, un
goffo garzone di barbiere, per sfuggire a un gangster che per errore
gli ha nascosto in tasca un diamante rubato, si camuffa da ragazzino
e per tale si fa passare in un college femminile, dileggiando il vano
universo adulto (e anticipando L’idolo
delle donne, seconda
regia di Lewis e tra le migliori). In Sherlocko...
investigatore sciocco,
gustosa parodia dell’hard
boiled, il protagonista
gioca coi cliché del genere buttandosi nella ricerca di un ricco
rampollo, per poi scoprire di essere lui (e facendo, per dimostrarlo,
la barba al ritratto del nonno, ovviamente con le sue fattezze).
Spesso la formula conduce il corpo lunare di Jerry sul fertile
terreno del ludico, a rischio del saccarosio e della maniera:
scalcinato prestigiatore ne Il
ponticello sul fiume dei guai,
si ritrova a far da padre putativo a un orfanello giapponese cui
torna il buonumore, e ne Il
balio asciutto fa da
babysitter ai tre gemelli di un’amica di cui è da sempre
innamorato: in una scena, per non farsi riconoscere dal futuro
suocero completamente ubriaco, si esibisce in una funambolica serie
di personaggi mutando gamma, posa, travestimento.
Ma
è nell’esordio dietro la macchina da presa, Ragazzo
tuttofare, che il comico
per la prima volta mette in scena sé stesso e il proprio faceto
riverbero: il bellboy
del titolo originale, ribattezzato
Stanley in omaggio al modello artistico più venerato (e il tributo
continua con un sosia di Laurel con tanto di bombetta). La doppiezza
nell’opera lewisiana, però, non avrebbe il medesimo impatto senza
il pungente sguardo alle nevrosi collettive americane, con annessi
rovesci e si pensi (sempre ne Il
balio asciutto) alla
satira sul potere ipnotico della pubblicità ai danni d’una
vecchietta. La debordante schizofrenia di massa, nel senso fragoroso
del termine, è paradossalmente “sedata” da un’operazione quasi
muta, improponibile per i canoni in voga ai tempi, e se ne sarebbe
rammentato il Mel Brooks de L’ultima
follia, dove gestualità
e mimica, nei propri studiati disastri, vanificano l’apparente
normalità del quotidiano. Il meccanismo implica una mise-en-scène
che si regge su sé
stessa e sui classici complementi di comicità: il vuoto e il pieno,
lo spazio e il tempo, il molto e il poco, il possibile e
l’impossibile. E sempre è l’azione comica a scardinare il vero
ridicolo insito nell’altro,
che trova diverso
il presunto scemo e ci ride sopra
senza accorgersi della propria idiozia: come spiegare perché l’altro
in questione, una società troppo miope e frenetica, soltanto
nell’epilogo chiede al Nostro per quale ragione non pronunci mai
parola? E ne Il mattatore
di Hollywood, terza
regia di Jerry, non è forse un paradosso che la candida maschera,
relegata ai margini, dialoghi con un clown e uno struzzo, e
addirittura si lasci addormentare da due marionette?
Al
pari dell’emisfero adulto, Hollywood è fatta oggetto di
dissacrazione consentendo a Lewis, ben prima di Blake Edwards, di
smontarne il fatuo mito e preludere a quella lezione che avrebbe
trovato in Altman, nei Coen e soprattutto in Landis e Tarantino le
eponime firme del paradigma, ai confini tra demenzialità e demenza.
E già l’incipit de Il
mattatore, con la
presentazione degli studios
Paramutual, informa che niente di
ciò che sin lì si è creduto (di credere) è da prendere sul serio;
così, durante il ciak di una scena d’amore, due attori si
scambiano effusioni salvo, dietro le quinte, insultarsi e infamarsi a
vicenda. Anche qui Jerry è un onesto lavoratore, assunto dal
direttore come “spia” per individuare le cause di alcune folli
spese, e che muovendosi tra i set causa catastrofi a catena, tra le
quali l’esilarante doppiaggio di un film col proprio stridulo
timbro. Ma una fortuita circostanza, in seguito a uno dei suoi
innocenti disastri, lo trasforma in ciò che (non si) vorrebbe
diventare: una star, con tanto di nome sull’affiche
del film quale
protagonista (manco a dirlo, quello che s’è appena visto).
Continua il gioco dell’ossimoro e del comico eletto a matematica
filosofia, e già Hollywood
o morte! ne fornisce
conferma, ripensando alla cinefilia di chi è abile nel declamare al
contrario i cast dei suoi film preferiti. E in Jerry
8¾, mix dei citati
Ragazzo tuttofare e
Il mattatore di
Hollywood, il
velleitario mondo della televisione, in apparenza risate e vanità, è
fatto a brandelli dal candido à
la Voltaire,
permettendosi persino di schernire la permalosa regina del gossip
Hedda Hopper, sbellicandosi davanti
a uno dei suoi famigerati cappellini. Qui, come in altri lavori,
Lewis gioca con la destrutturazione della celluloide chiamando alcuni
noti volti (tra cui un Peter Lorre all’ultima apparizione), molti
nella parte di sé stessi: se ne Il
mattatore a un certo
punto fa capolino la famiglia di Bonanza,
in Jerry 8¾
il Nostro gioca a rifare George
Raft emulandone insieme le pose allo specchio, dopo averlo
simpaticamente parodiato ne L’idolo
delle donne. E
nell’irrisolto Controfigura
per un delitto, in cui
dirige gli amici Peter Lawford e Sammy Davis jr. (che anticipano la
coppia del televisivo Attenti
a quei due), l’autore
chiama Peter Cushing e Christopher Lee a riproporre in cameo
i loro noti personaggi.
Il
luogo canonico del doppio è occasione per una moltiplicazione di
travestimenti e pantomime, che in Tre
sul divano è
travolgente soluzione per le pazienti della fidanzata psicanalista,
accomunate da un’idiosincrasia per il maschio. Ne I
sette magnifici Jerry nessuno
degli zii d’una trovatella è scelto da quest’ultima come padre
adottivo: solo il fedele chauffeur,
camuffato dallo zio clown che ne rifiutava la parentela, ottiene
l’adozione della bimba conferendo umanità al solo personaggio di
Lewis davvero spregevole del film (ovvero alla sua effigie). E nel
meno riuscito Scusi dov’è
il fronte? un patriottico
milionario, organizzato un esercito privato per sconfiggere il Führer
– esercito diretto come una troupe cinematografica, secondo
l’incessante interscambio
realtà-finzione – favorisce l’avanzata
alleata sdoppiandosi nei panni d’un generale nazista che in più
occasioni si ritrova davanti. Evidente l’impiego della collaudata
formula à la
Chaplin, memore anche di Keaton
nella trattazione bellica in salsa rosa. Ma è con Il
ciarlatano che il topos
della doppiezza, ostentato dallo
scambio di persona, acquista una (dis)articolazione narrativa
volutamente dilatata, senza fretta alcuna di giungere alla soluzione
comica. Come se l’autore, conscio di essere oggetto di culto dai
fautori della Nouvelle Vague, ne restituisse politique
e cifra stilistica con un apologo
confezionato secondo i crismi, scardinati e destrutturati, dei
thriller francesi, con quel quid
di bizzarro a far la differenza.
L’esito è concepito dal fattore-sorpresa dell’altro
da sé: se ne Le
folli notti del dottor Jerryll l’apparizione
di Buddy Love si annuncia sui volti attoniti dei passanti, qui la
presenza di un tranquillo impiegato, somigliante a un feroce gangster
presumibilmente morto, determina nei cattivoni di turno conseguenze
di volta in volta scompiscianti. E anche qui l’ossimoro sta nella
protervia della società, che si crede al di sopra d’ogni sospetto,
rivolgendosi al mite protagonista in modo ignominioso, salvo
trattarlo con indulgenza quand’è costretto a ricorrere al
travestimento per sfuggire al nemico. Si accondiscende col fittizio
che si vorrebbe essere, e non si è perché mitizzato, e al solito il
camuffamento è il più che valido escamotage
per (far) ridere di noi; non si è
altrettanto disposti con chi è al naturale, senza aspirare ad essere
e senza volere, perché consolidato a una più quieta esistenza (la
stessa che il protagonista non riesce a conseguire).
Se
la presenza di un insolito narratore (in giacca, cravatta, bermuda e
pinne) ulteriormente ribadisce l’artificio dell’assunto, dramma e
terrore, strettamente connaturati al pagliaccesco, sono a un passo. E
s’è lecito ridere per esorcizzare l’imminente tragedia, non si
può ridere di essa. Seguendo il citato Scusi,
dov’è il fronte?, il
misterioso The Day the
Clown Cried – uno tra
i più celebri casi d’inedito “disperso”, dovuto a polemiche su
premesse e contenuti disagevoli per l’epoca – insegna che anche
una maschera è capace di osare spingendosi oltre le sfumature fin lì
consentite, preludendo al Benigni de La
vita è bella nella
trattazione di analoghi temi. Sebbene il film, dalla tormentatissima
lavorazione, non vide mai la luce (Lewis medesimo, non amando che se
ne parlasse in sua presenza, fece di tutto per non divulgarne la
distribuzione), il corpo comico, qui poco ilare e assai spregevole,
opta per uno sdoppiamento a favore di bambini internati con lui in un
lager. Se inizialmente il personaggio, che torna a farsi apprezzare
dopo il declino, svolge la mansione per una possibile concessione di
libertà pattuita col nemico, la risata non sostituisce la tragedia e
l’opportunismo fa i conti col rimorso. Intrattenutili sul treno per
Auschwitz, il clown accompagna i bambini alle “docce”: entratovi
lui stesso, cerca di farli ridere un’ultima volta prima di morire
gassato con loro. Persino negli ultimi film da lui diretti,
Bentornato, Picchiatello
e Qua
la mano Picchiatello,
Jerry ripropone un paradigma conforme alla propria politique,
con l’ormai azzerato desiderio di (voler) ridere in una società
sopraffatta dal consumismo: mutati sono i registri (come testimoniano
i prodotti datati in cui la maschera lewisiana non è sfruttata al
suo meglio), che ormai impongono una comicità più intellettuale
contrapposta a una più goliardica. Non c’è posto per i pagliacci
e in Bentornato,
Picchiatello, infatti,
un altro clown disoccupato si ritrova a cambiare lavoro e identità
(nei panni di un disc jockey sogna d’imitare John Travolta),
incappando nei soliti disastri fino ad accettare un incarico da
postino: ma il nuovo stile di vita lo spaventa sino a fargli decidere
di consegnare la posta nei suoi abiti da pagliaccio, e ciò gli
spalanca le porte dell’Accademia dei Clowns. In Qua
la mano Picchiatello, un
complessato narra in flashback la propria sventurata vicenda allo
psicanalista, condita di fallimentari tentativi di suicidio. Con la
ribaltata ancorché ovvia conclusione che se il protagonista
guarisce, è il dottore a impazzire.
Lontani
anni luce i tempi in cui, per sfuggire alla pazza folla, era
sufficiente colmare il vuoto di uno spazio smisuratamente grande col
proprio minuscolo corpo mimando gli strumenti di un’orchestra
inesistente; muovere una bocca da cui uscivano note musicali, quando
non dirigere un vero coro; o dattilografare su una macchina da
scrivere invisibile (da cui, però, usciva un foglio stampato). E, a
mo’ di misogina vendetta, sabotare una diretta televisiva in un
college femminile. Sfumati i trascorsi dell’Assurdo in cui una
lumaca sorpassava un imbranato infermiere imprigionato in una camicia
di forza, sfumati gli inseguimenti da cartoon
con
le falciatrici telecomandate. Superati i giochi metatestuali in cui
uno scambio di sottotitoli, in americano e in giapponese, non
consentiva a due personaggi di dialogare e comprendersi. Indotta a
fronteggiare un clima in cui il concetto di comicità risulta
drasticamente cambiato, e basta un’apparizione per raggiungere il
notorio quarto d’ora di celebrità, la maschera lewisiana tocca
l’apice del tragico insito in essa con l’interpretazione di Jerry
Langford in Re
per una notte di
Scorsese. Uno showman
vicino
al declino, che sul palco fa e rifà ogni volta uno spettacolo uguale
a sé stesso, e nei fuori onda è accompagnato da una palpabile vena
di mestizia: la medesima di chi sa che lo show
business non
è più quello da un pezzo, e cavalcando l’incomprensibilità e
ingestibilità dei nuovi tempi genera sedicenti comici, mostruosi la
loro parte. Trentaquattro anni dopo quel ruolo, se ne ritrova eco
nell’intervista di sette minuti rilasciata da un novantenne Lewis
agli schermi tv: nella sua abitazione di ricordi, un divo prossimo
alla scomparsa, visibilmente infastidito, risponde alle domande
dell’interlocutore con una serie di “Why?” e di “No”,
addirittura scimmiottandolo. Forse, solo un’interpretazione. Eppure
le sfumature che si colgono sono la riprova d’una comicità,
un’arte, un universo inesorabilmente sfumati. Citando il Soriano di
un celebre omaggio al mito di Laurel e Hardy, e a quella
comicità
da cui anche Jerry discendeva,
triste,
solitario y final.
Francesco Saverio Marzaduri
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