Japanese Beauty: MISHIMA – UNA VITA IN QUATTRO CAPITOLI
Japanese Beauty: Mishima – Una vita in quattro capitoli
WALTER PATER
Presentato
in versione restaurata alla XXXII edizione de “Il Cinema Ritrovato”
di Bologna, Mishima –
Una vita in quattro capitoli è
il quinto lavoro di Paul Schrader regista, il più complesso e
ambizioso, ma pure quello che inaugura la fase più personale della
sua carriera. Una personalità contraddittoria come quella di
Schrader, oscillante tra aspirazione mistica all’assoluto e il
confronto con le bassure della vita, ha in comune con lo scrittore
giapponese la compenetrazione tra vita e arte portata alle estreme
conseguenze, nonché il rifiuto, in odor di fascismo, della società
odierna. Mishima
è opera colma di suggestioni visive, dalla lunga preparazione e
dalla ancor più meditata gestazione, film – come alcuni han
scritto – pieno di cose bellissime e tuttavia non bello, ricco di
elementi immaginifici, spunti e riflessioni anche estreme
sull’estetica, sul mondo, sull’ideale di bellezza
e sul concetto di arte,
sull’essere artista e sul senso di ciò. Un tale lavoro, articolato
e denso, pittorico nella sua concezione scenografica quasi a tecnica
mista, affascinante e spiazzante, può apparire una sorta di
labirinto analitico, dalle molte possibili entrate e dai molteplici,
possibili e leciti percorsi interpretativi. Un’opera che motiva e
giustifica ben più di una modalità d’approccio: affrontabile
sotto parecchi versanti, Mishima
offre una vasta pluralità di itinerari iconografici e iconologici –
secondo che si preferisca indagare sugli esiti estetici o sulle
scelte che li ispirano – e materiale sufficiente a corroborarli
tutti. Si può navigare nell’universo-Mishima lungo molte rotte
dotate di senso, con la certezza di pervenire il più delle volte a
limitati orizzonti d’approdo, lacerti di un unicum
che sembrerebbe non lasciarsi contenere nella sua eccessività.
Dramatis
personae come quella affrontata da Schrader sembrano fatte per
rendere aspramente difficile ogni riduzione a categorie elementari, a
schemi in grado di contenerne la complessità di tensioni e
aspirazioni, scelte ed esiti, vita e opere. Figura letteraria,
storica, politica, culturale e di costume, paragonabile a quella di
D’Annunzio, Yukio Mishima è stato personaggio complesso per
eccellenza: scrittore grandemente prolifico, tra i primi del proprio
Paese a conoscere vasta notorietà in Occidente; il più tradotto
all’estero, il primo a veder pubblicata in vita un’edizione
nazionale dei propri lavori, e più volte candidato al Nobel;
personalità ambigua e ossessiva, sensuale e cerebrale, bisessuale
con preferenze omo, turbata da problematiche affettive irrisolte
quando non laceranti; esteta incapace di accettare il mondo se non
trasfigurandolo con l’atto creativo, intellettuale impegnato
nell’edificazione di un assoluto estetico incarnato in sé stesso.
Conservatore massimalista, antiprogressista reazionario, fautore
della divinità imperiale e della sacralità dinastica. Militarista e
superomista, finanziatore e organizzatore di un corpo
paracombattente, maestro d’armi, d’arti marziali e di pensiero.
Teorizzatore di una suprema idealità di coerenza, di un plausibile
supremo equilibrio tra arte e azione, da conseguire con
un’assoluta interpretazione del rigore e, se possibile, attraverso
la sua incarnazione. Al punto di giungere all’offerta spettacolare
e pubblica della propria morte, ritualizzandola e sacralizzandola in
un codice antico e accettato di gestualità nell’istante in cui la
offre in pasto ai media. In virtù di simili considerazioni, non è
difficile intuire le ragioni per cui l’arcana, dubbia figura di
Mishima accenda l’interesse di Schrader.
Con
estrema chiarezza, il ritratto che il regista fa di Mishima rivendica
la propria distanza da ogni seduzione tautologica: il cineasta
realizza il film concentrandone il virtuale hic et nunc in un
solo giorno della vita di Mishima (l’ultimo), riducendo il resto ad
affioramenti di memoria, a ricapitolazione di un’esistenza (la
propria) giunta al termine, a visione della Vita dal punto di vista
dell’incipiente Morte. Dalla copiosa bibliografia dell’autore
nipponico, Schrader sceglie soltanto tre titoli – non i più
seducenti in assoluto, ma i più funzionali al contesto – ad
affiancare la cronaca delle ultime ore e i flashback del passato con
la messinscena del virtuale (e plurale) alter ego letterario dello
scrittore, costituito da più personaggi mostrati in un ideale
continuum, come in un’evoluzione progressiva. Una scelta
compiuta a giustificazione e sostegno di un’ipotesi di ricerca: in
una scheda introduttiva al film, Franco La Polla sostiene “che
Mishima entra a buon diritto nel gruppo degli eroi schraderiani,
gente che si ritrova in un mondo a loro estraneo e che non intende
cedere davanti a una realtà che si oppone ai loro principi, al modo
in cui essi sentono di dover (o sono stati abituati a) vivere”.
Afferma, anzi, che il protagonista arriva non solo a iscriversi tra i
personaggi schraderiani tipici, ma a costituirsi con valenza eponima
quale il più forte e il più fragile di loro: in Mishima,
infatti, il tema principale è quello della sublimazione, la
purificazione morale prima che fisica di ogni figura, intesa come
maschera (dunque personaggio, o meglio dramatis persona), a
sua volta riconducibile all’impronta stilistica di Schrader. E il
rigore, l’assoluta adesione a categorie etiche superiori,
codice morale perenne, suprema giustificazione dell’esistenza, ne
costituisce l’altro fondamentale, ricorrente tema.
È
probabile che il principale motivo di fascinazione che il Giappone e
la sua cultura esercitano su Schrader sia legato al concetto di
rigore, tanto che La Polla rammenta “l’indiscutibile familiarità
del regista con quella cultura che probabilmente nessun altro regista
americano può vantare più di lui: non i pur straordinari Fuller e
Pollack, e naturalmente non le insopportabili romanticherie di
Sayonara, L’amore è una cosa meravigliosa,
eccetera”. Ed è superfluo ricapitolare la storia personale e
artistica di Schrader, dalle relazioni familiari a quelle
professionali, dalle esegesi dedicate a Ozu sino alla (prima)
sceneggiatura di Yakuza: è sufficiente osservare come in
Mishima il senso del dovere, la dedizione assoluta a un codice
accettato e condiviso, il rifiuto di ogni compromesso con sé stessi
– il rigore, insomma – delinei una delle fondamentali componenti
tematiche del film. In ogni caso, gli elementi su cui è costruita
l’idea del Giappone abbracciano un senso dell’onore imperniato su
un codice di condivisione assoluta (il pensiero unico) e
l’idealità connessa col senso del dovere, il concetto di “porta
stretta” e di “strada impervia” che assume il significato di
jinji, inteso come obbligazione, “peso più arduo da
sostenere” e di cui farsi carico: l’etica come imperativo
categorico che si fa nella sua trascendenza, l’azione che si fa
tanto più morale quanto più implica sacrificio.
In
un suo intervento Simona Argentieri osserva che, eccezion fatta per
la profonda conoscenza culturale che del Giappone può vantare il
regista, le maestranze giapponesi di cui si è circondato, l’origine
nipponica dei molti collaboratori di cui si è servito, la stessa
scelta di mantenere in lingua giapponese tutto il parlato (con la
riserva della voce over nei flashback), l’opera rimane
“sostanzialmente occidentale, e trasmette una sottile sensazione di
processo imitativo e di falso d’autore”. Anche se la personalità
stessa di Mishima, “disperatamente tesa a costruire un falso sé
grandioso e idealizzato”, sia pure per colmare la dolorosa
sensazione di un vuoto interiore, contribuisce ad alimentare le
percezioni di artificiosità, la Argentieri suggerisce che Schrader è
conscio di offrire una visione fittizia ad usum occidentale e
fa notare come il primo titolo dell’autore giapponese citato nel
film, Il tempio del padiglione d’oro, sembra scritto per
l’esportazione in Occidente, infarcito come sarebbe di spiegazioni
didascaliche e vistose esche interpretative psicologiche, legate in
ultima analisi alla cultura giapponese, con ciò accreditando il
cineasta di una selezione dei materiali fortemente soggettiva, dagli
esiti però non convincenti. Ma il Giappone di Schrader non è né
pretende di essere il Giappone oggettivo, bensì nulla più che
un’idea di Giappone:
il luogo dell’ordine assoluto tra le proprie componenti sociali,
nel quale il codice che regola quotidianità di comportamenti e
pluralità di aspirazioni è uno e uno solo, chiuso a possibilità di
compromessi e collettivamente condiviso – o dove la sua
condivisione sia possibile, al punto di battersi fino a morire per
testimoniarla. È il luogo ove la disciplina esteriore promana da
quella interiore e ne è diretta conseguenza, il luogo della
possibile trascendenza realizzata sulla terra, in questa dimensione e
non in altre, una civitate homini di agostiniana idealità
(non sgradita ai padri del pensiero protestante di cui Schrader si è
nutrito); è, in definitiva, il luogo geografico del rigore. In tale
contesto agisce il Mishima schraderiano, figura in cui tutto ciò
pare incarnarsi all’eccesso, ma che – nonostante lo scrupoloso
attenersi alla realtà storica su Mishima – è ancora una volta più
un’idea schraderiana sul personaggio che un tentativo di
restituirne l’esatta dimensione. La scelta di rappresentare, tra le
molte opere narrative dell’autore giapponese, le tre selezionate e
non altre più importanti, mostra quanto poco interessi a Schrader
confezionare un percorso turistico sul personaggio-Mishima, un
excursus didascalico a beneficio dei meno competenti o un
rendiconto storicizzato con pretese di oggettività.
Nel
proprio sovrapporsi alla biografia del loro autore, i titoli
selezionati suonano funzionali a uno dei percorsi oggettivi narrabili
sul personaggio, quello più di elevazione catartica, che parte da
un’infanzia in cui l’affettività è presenza morbosa (la nonna
iperprotettiva e assorbente) o assenza (fisica nella separazione,
morale nell’incapacità di ottenerne). Prosegue in un’adolescenza
che sembra fatta di amare scoperte, da quella dell’insincerità di
certe proprie tensioni massimaliste alla presa visione di
un’inaccettabile caduta (quella dell’ordine gerarchico e sociale
in cui si crede poter vivere per sempre e che si crede, anzi, possa
esistere sempre), e in una giovinezza già amareggiata dall’assenza
del piacere fisico o da una sua presenza tormentosa (e tormentata) al
limite della psicopatologia, sfasciata dalla percezione di un vuoto
insostenibile di valori. Quelli che poi, nella prima maturità,
sempre più s’identificano con i valori culturali tradizionali, di
cui Mishima teme con raccapriccio il progressivo abbandono e la
sempre più labile condivisione in un Giappone consumista e
materialista, sì da decidere di farsene carico e assumerli
superomisticamente in sé. Facendo proprie le posizioni più radicali
ed estreme, opponendo un rifiuto non solo individuale ma, nelle
intenzioni, antagonista e collettivo, in cui eroicamente immolarsi
portandone testimonianza.
L’ultimo
dei tre titoli selezionati e inseriti nel testo filmico, Cavalli
in fuga, è quello in cui l’autore giapponese meno si nasconde
dietro la maschera di un proprio alter ego letterario, e sembra anzi
volerlo interpretare tanto personalmente da prefigurare in modo quasi
esatto la propria fine: qui, in un Giappone sempre più
occidentalizzato, il protagonista identifica nello smarrimento dei
valori nazionali tradizionali il tradimento più grave che un popolo
possa subire, quello della sua storia e della sua cultura. Aderisce
quindi a una consorteria superomista, nascosta ed elitaria, dedita al
perfezionamento delle proprie capacità d’obbedienza, fedeltà,
purezza ideale, che va preparando l’eliminazione simultanea di
numerose personalità politiche e culturali, giudicate le dirette
responsabili della svendita ideologica in atto e dell’abbandono dei
più nobili e tradizionali valori, cui far seguire un altrettanto
clamoroso, catartico, rituale suicidio collettivo. Il protagonista si
riconosce a tal punto nel progetto che, quando esso viene scoperto e
il suo fallimento si prefigura inevitabile, decide di immolarsi con
un gesto che è il più irriducibile rifiuto e la più assoluta
testimonianza di fede.
Difatti,
egli è uomo di fede, non di ragione, e le
elucubrazioni del pensiero logico calcolante non trovano in lui
alcuna cittadinanza. Il vero fallimento sta nel cedere al compromesso
con sé stessi, nel barattare le proprie convinzioni in cambio del
semplice trascorrere i giorni (giacché l’esistenza, una volta
abdicato alle proprie categorie morali, a ciò sembra ridursi); al
contrario, fallimento non è perdere la vita, e neppure lo è il
mancato raggiungimento di un fine se questo diventa occasione per
testimoniare la propria verità attraverso il martirio. La
salvezza, la giustificazione della propria essenza ed esistenza,
risiedono in un gesto generato da una scelta, un unico gesto figlio
di un’unica scelta: compiuto a prescindere dai suoi effettivi
esiti, il primo; compiuta a prescindere da quanti la tengano per
verità, la seconda. Mishima, che tanto qui investe di sé il proprio
simulacro da preconizzare il suo futuro e le modalità della sua
fine, giunge nel film di Schrader alle medesime conclusioni, tanto
più che il suo personaggio ne assume le connotazioni: fideista
antimaterialista e antirazionalista, percorre i territori del dubbio
con la bussola dell’obbedienza, della coerenza e di una fede nei
propri principi testimoniata dal martirio come assoluta. Il calice
amaro non viene respinto. La croce del supremo sacrificio, assunta a
carico. Non è prevista, e non v’è, diserzione.
Perciò,
risulta improprio definire fallimentare, come fa la
Argentieri, lo “sforzo doloroso (…) di Mishima stesso di
integrare, dentro e fuori di sé, arte e realtà, pensiero e azione,
corpo e mente, ‘penna e spada’.” Anche nella coscienza di un
tale personaggio, la scelta di una via corrisponde di per sé al
conseguimento della meta, ed è più giusto scorgervi – come Tullio
Kezich – “il senso di un rito simbolico ordito e consumato come
un sacrificio per un’idea più alta dell’esistenza umana”: idea
che nel rigore assoluto, nella non accettazione di compromessi al
ribasso né di alcuna possibile debolezza, identifica il segno della
grazia. Tra il calvinista-teologo-pastore mancato di Grand Rapids e
la pur tormentata, superomista, narcisista figura del giapponese,
sembra stabilirsi l’indizio forte di un’ineludibile congenialità:
la grazia consiste nel percorrere la via senza timori come in un
biblico Salmo, e prima ancora nel comprenderla. La via (Crucis)
equivale al jinji: è porta stretta, arduo sentiero, faticoso
impegno, peso, obbligazione, dovere, ma carpirla (e risolutamente
percorrerla) equivale di per sé alla giustificazione esistenziale,
dunque alla salvezza. Una via che conduce a una crescita interiore, e
dunque un percorso ascensionale: ciò che Schrader individua nella
biografia umana e letteraria dell’autore nipponico, lo è
dichiaratamente.
Volontà
attiva significa azione: ecco quindi l’aspirazione verso il totale
controllo di sé, le quotidiane e inflessibili cure del corpo, le
opere prodotte senza risparmio, di seguito e senza soste, mettendo
insieme una parola dopo l’altra e una consecutio dopo
l’altra. Ecco, insomma, la parola, che la vince sul mondo in
quanto lo sublima: fin quando scrittura e attività intellettuale non
sono più sufficienti a riempire un vuoto di valori vissuto come
svalutazione interiore; di qui, la scelta di porsi al servizio
dell’idea più alta dell’esistenza, e la conseguente necessità
di ridefinire margini e campi d’azione, di canonizzare etica ed
estetica in una più esatta armonia, di trovare un equilibrio tra
penna e spada. Mishima identifica tale equilibrio nell’atto
supremo: l’offerta della vita, il dono dell’intera propria
esistenza sull’altare di un principio tenuto per verità, nella
capacità di concepire un simile disegno ed eseguirlo, come un’opera
d’arte pensata e portata a compimento.
Presentato
in versione restaurata alla XXXII edizione de “Il Cinema Ritrovato”
di Bologna, Mishima – Una vita in quattro capitoli è il
quinto lavoro di Paul Schrader regista, il più complesso e
ambizioso, ma pure quello che inaugura la fase più personale della
sua carriera. Una personalità contraddittoria come quella di
Schrader, oscillante tra aspirazione mistica all’assoluto e il
confronto con le bassure della vita, ha in comune con lo scrittore
giapponese la compenetrazione tra vita e arte portata alle estreme
conseguenze, nonché il rifiuto, in odor di fascismo, della società
odierna. Mishima è opera colma di suggestioni visive, dalla
lunga preparazione e dalla ancor più meditata gestazione, film –
come alcuni han scritto – pieno di cose bellissime e tuttavia non
bello, ricco di elementi immaginifici, spunti e riflessioni anche
estreme sull’estetica, sul mondo, sull’ideale di bellezza e
sul concetto di arte, sull’essere artista e sul senso di
ciò. Un tale lavoro, articolato e denso, pittorico nella sua
concezione scenografica quasi a tecnica mista, affascinante e
spiazzante, può apparire una sorta di labirinto analitico, dalle
molte possibili entrate e dai molteplici, possibili e leciti percorsi
interpretativi. Un’opera che motiva e giustifica ben più di una
modalità d’approccio: affrontabile sotto parecchi versanti,
Mishima offre una vasta pluralità di itinerari iconografici e
iconologici – secondo che si preferisca indagare sugli esiti
estetici o sulle scelte che li ispirano – e materiale sufficiente a
corroborarli tutti. Si può navigare nell’universo-Mishima lungo
molte rotte dotate di senso, con la certezza di pervenire il più
delle volte a limitati orizzonti d’approdo, lacerti di un unicum
che sembrerebbe non lasciarsi contenere nella sua eccessività.
Dramatis
personae come quella affrontata da Schrader sembrano fatte per
rendere aspramente difficile ogni riduzione a categorie elementari, a
schemi in grado di contenerne la complessità di tensioni e
aspirazioni, scelte ed esiti, vita e opere. Figura letteraria,
storica, politica, culturale e di costume, paragonabile a quella di
D’Annunzio, Yukio Mishima è stato personaggio complesso per
eccellenza: scrittore grandemente prolifico, tra i primi del proprio
Paese a conoscere vasta notorietà in Occidente; il più tradotto
all’estero, il primo a veder pubblicata in vita un’edizione
nazionale dei propri lavori, e più volte candidato al Nobel;
personalità ambigua e ossessiva, sensuale e cerebrale, bisessuale
con preferenze omo, turbata da problematiche affettive irrisolte
quando non laceranti; esteta incapace di accettare il mondo se non
trasfigurandolo con l’atto creativo, intellettuale impegnato
nell’edificazione di un assoluto estetico incarnato in sé stesso.
Conservatore massimalista, antiprogressista reazionario, fautore
della divinità imperiale e della sacralità dinastica. Militarista e
superomista, finanziatore e organizzatore di un corpo
paracombattente, maestro d’armi, d’arti marziali e di pensiero.
Teorizzatore di una suprema idealità di coerenza, di un plausibile
supremo equilibrio tra arte e azione, da conseguire con
un’assoluta interpretazione del rigore e, se possibile, attraverso
la sua incarnazione. Al punto di giungere all’offerta spettacolare
e pubblica della propria morte, ritualizzandola e sacralizzandola in
un codice antico e accettato di gestualità nell’istante in cui la
offre in pasto ai media. In virtù di simili considerazioni, non è
difficile intuire le ragioni per cui l’arcana, dubbia figura di
Mishima accenda l’interesse di Schrader.
Con
estrema chiarezza, il ritratto che il regista fa di Mishima rivendica
la propria distanza da ogni seduzione tautologica: il cineasta
realizza il film concentrandone il virtuale hic et nunc in un
solo giorno della vita di Mishima (l’ultimo), riducendo il resto ad
affioramenti di memoria, a ricapitolazione di un’esistenza (la
propria) giunta al termine, a visione della Vita dal punto di vista
dell’incipiente Morte. Dalla copiosa bibliografia dell’autore
nipponico, Schrader sceglie soltanto tre titoli – non i più
seducenti in assoluto, ma i più funzionali al contesto – ad
affiancare la cronaca delle ultime ore e i flashback del passato con
la messinscena del virtuale (e plurale) alter ego letterario dello
scrittore, costituito da più personaggi mostrati in un ideale
continuum, come in un’evoluzione progressiva. Una scelta
compiuta a giustificazione e sostegno di un’ipotesi di ricerca: in
una scheda introduttiva al film, Franco La Polla sostiene “che
Mishima entra a buon diritto nel gruppo degli eroi schraderiani,
gente che si ritrova in un mondo a loro estraneo e che non intende
cedere davanti a una realtà che si oppone ai loro principi, al modo
in cui essi sentono di dover (o sono stati abituati a) vivere”.
Afferma, anzi, che il protagonista arriva non solo a iscriversi tra i
personaggi schraderiani tipici, ma a costituirsi con valenza eponima
quale il più forte e il più fragile di loro: in Mishima,
infatti, il tema principale è quello della sublimazione, la
purificazione morale prima che fisica di ogni figura, intesa come
maschera (dunque personaggio, o meglio dramatis persona), a
sua volta riconducibile all’impronta stilistica di Schrader. E il
rigore, l’assoluta adesione a categorie etiche superiori,
codice morale perenne, suprema giustificazione dell’esistenza, ne
costituisce l’altro fondamentale, ricorrente tema.
È
probabile che il principale motivo di fascinazione che il Giappone e
la sua cultura esercitano su Schrader sia legato al concetto di
rigore, tanto che La Polla rammenta “l’indiscutibile familiarità
del regista con quella cultura che probabilmente nessun altro regista
americano può vantare più di lui: non i pur straordinari Fuller e
Pollack, e naturalmente non le insopportabili romanticherie di
Sayonara, L’amore è una cosa meravigliosa,
eccetera”. Ed è superfluo ricapitolare la storia personale e
artistica di Schrader, dalle relazioni familiari a quelle
professionali, dalle esegesi dedicate a Ozu sino alla (prima)
sceneggiatura di Yakuza: è sufficiente osservare come in
Mishima il senso del dovere, la dedizione assoluta a un codice
accettato e condiviso, il rifiuto di ogni compromesso con sé stessi
– il rigore, insomma – delinei una delle fondamentali componenti
tematiche del film. In ogni caso, gli elementi su cui è costruita
l’idea del Giappone abbracciano un senso dell’onore imperniato su
un codice di condivisione assoluta (il pensiero unico) e
l’idealità connessa col senso del dovere, il concetto di “porta
stretta” e di “strada impervia” che assume il significato di
jinji, inteso come obbligazione, “peso più arduo da
sostenere” e di cui farsi carico: l’etica come imperativo
categorico che si fa nella sua trascendenza, l’azione che si fa
tanto più morale quanto più implica sacrificio.
In
un suo intervento Simona Argentieri osserva che, eccezion fatta per
la profonda conoscenza culturale che del Giappone può vantare il
regista, le maestranze giapponesi di cui si è circondato, l’origine
nipponica dei molti collaboratori di cui si è servito, la stessa
scelta di mantenere in lingua giapponese tutto il parlato (con la
riserva della voce over nei flashback), l’opera rimane
“sostanzialmente occidentale, e trasmette una sottile sensazione di
processo imitativo e di falso d’autore”. Anche se la personalità
stessa di Mishima, “disperatamente tesa a costruire un falso sé
grandioso e idealizzato”, sia pure per colmare la dolorosa
sensazione di un vuoto interiore, contribuisce ad alimentare le
percezioni di artificiosità, la Argentieri suggerisce che Schrader è
conscio di offrire una visione fittizia ad usum occidentale e
fa notare come il primo titolo dell’autore giapponese citato nel
film, Il tempio del padiglione d’oro, sembra scritto per
l’esportazione in Occidente, infarcito come sarebbe di spiegazioni
didascaliche e vistose esche interpretative psicologiche, legate in
ultima analisi alla cultura giapponese, con ciò accreditando il
cineasta di una selezione dei materiali fortemente soggettiva, dagli
esiti però non convincenti. Ma il Giappone di Schrader non è né
pretende di essere il Giappone oggettivo, bensì nulla più che
un’idea di Giappone:
il luogo dell’ordine assoluto tra le proprie componenti sociali,
nel quale il codice che regola quotidianità di comportamenti e
pluralità di aspirazioni è uno e uno solo, chiuso a possibilità di
compromessi e collettivamente condiviso – o dove la sua
condivisione sia possibile, al punto di battersi fino a morire per
testimoniarla. È il luogo ove la disciplina esteriore promana da
quella interiore e ne è diretta conseguenza, il luogo della
possibile trascendenza realizzata sulla terra, in questa dimensione e
non in altre, una civitate homini di agostiniana idealità
(non sgradita ai padri del pensiero protestante di cui Schrader si è
nutrito); è, in definitiva, il luogo geografico del rigore. In tale
contesto agisce il Mishima schraderiano, figura in cui tutto ciò
pare incarnarsi all’eccesso, ma che – nonostante lo scrupoloso
attenersi alla realtà storica su Mishima – è ancora una volta più
un’idea schraderiana sul personaggio che un tentativo di
restituirne l’esatta dimensione. La scelta di rappresentare, tra le
molte opere narrative dell’autore giapponese, le tre selezionate e
non altre più importanti, mostra quanto poco interessi a Schrader
confezionare un percorso turistico sul personaggio-Mishima, un
excursus didascalico a beneficio dei meno competenti o un
rendiconto storicizzato con pretese di oggettività.
Nel
proprio sovrapporsi alla biografia del loro autore, i titoli
selezionati suonano funzionali a uno dei percorsi oggettivi narrabili
sul personaggio, quello più di elevazione catartica, che parte da
un’infanzia in cui l’affettività è presenza morbosa (la nonna
iperprotettiva e assorbente) o assenza (fisica nella separazione,
morale nell’incapacità di ottenerne). Prosegue in un’adolescenza
che sembra fatta di amare scoperte, da quella dell’insincerità di
certe proprie tensioni massimaliste alla presa visione di
un’inaccettabile caduta (quella dell’ordine gerarchico e sociale
in cui si crede poter vivere per sempre e che si crede, anzi, possa
esistere sempre), e in una giovinezza già amareggiata dall’assenza
del piacere fisico o da una sua presenza tormentosa (e tormentata) al
limite della psicopatologia, sfasciata dalla percezione di un vuoto
insostenibile di valori. Quelli che poi, nella prima maturità,
sempre più s’identificano con i valori culturali tradizionali, di
cui Mishima teme con raccapriccio il progressivo abbandono e la
sempre più labile condivisione in un Giappone consumista e
materialista, sì da decidere di farsene carico e assumerli
superomisticamente in sé. Facendo proprie le posizioni più radicali
ed estreme, opponendo un rifiuto non solo individuale ma, nelle
intenzioni, antagonista e collettivo, in cui eroicamente immolarsi
portandone testimonianza.
L’ultimo
dei tre titoli selezionati e inseriti nel testo filmico, Cavalli
in fuga, è quello in cui l’autore giapponese meno si nasconde
dietro la maschera di un proprio alter ego letterario, e sembra anzi
volerlo interpretare tanto personalmente da prefigurare in modo quasi
esatto la propria fine: qui, in un Giappone sempre più
occidentalizzato, il protagonista identifica nello smarrimento dei
valori nazionali tradizionali il tradimento più grave che un popolo
possa subire, quello della sua storia e della sua cultura. Aderisce
quindi a una consorteria superomista, nascosta ed elitaria, dedita al
perfezionamento delle proprie capacità d’obbedienza, fedeltà,
purezza ideale, che va preparando l’eliminazione simultanea di
numerose personalità politiche e culturali, giudicate le dirette
responsabili della svendita ideologica in atto e dell’abbandono dei
più nobili e tradizionali valori, cui far seguire un altrettanto
clamoroso, catartico, rituale suicidio collettivo. Il protagonista si
riconosce a tal punto nel progetto che, quando esso viene scoperto e
il suo fallimento si prefigura inevitabile, decide di immolarsi con
un gesto che è il più irriducibile rifiuto e la più assoluta
testimonianza di fede.
Difatti,
egli è uomo di fede, non di ragione, e le
elucubrazioni del pensiero logico calcolante non trovano in lui
alcuna cittadinanza. Il vero fallimento sta nel cedere al compromesso
con sé stessi, nel barattare le proprie convinzioni in cambio del
semplice trascorrere i giorni (giacché l’esistenza, una volta
abdicato alle proprie categorie morali, a ciò sembra ridursi); al
contrario, fallimento non è perdere la vita, e neppure lo è il
mancato raggiungimento di un fine se questo diventa occasione per
testimoniare la propria verità attraverso il martirio. La
salvezza, la giustificazione della propria essenza ed esistenza,
risiedono in un gesto generato da una scelta, un unico gesto figlio
di un’unica scelta: compiuto a prescindere dai suoi effettivi
esiti, il primo; compiuta a prescindere da quanti la tengano per
verità, la seconda. Mishima, che tanto qui investe di sé il proprio
simulacro da preconizzare il suo futuro e le modalità della sua
fine, giunge nel film di Schrader alle medesime conclusioni, tanto
più che il suo personaggio ne assume le connotazioni: fideista
antimaterialista e antirazionalista, percorre i territori del dubbio
con la bussola dell’obbedienza, della coerenza e di una fede nei
propri principi testimoniata dal martirio come assoluta. Il calice
amaro non viene respinto. La croce del supremo sacrificio, assunta a
carico. Non è prevista, e non v’è, diserzione.
Perciò,
risulta improprio definire fallimentare, come fa la
Argentieri, lo “sforzo doloroso (…) di Mishima stesso di
integrare, dentro e fuori di sé, arte e realtà, pensiero e azione,
corpo e mente, ‘penna e spada’.” Anche nella coscienza di un
tale personaggio, la scelta di una via corrisponde di per sé al
conseguimento della meta, ed è più giusto scorgervi – come Tullio
Kezich – “il senso di un rito simbolico ordito e consumato come
un sacrificio per un’idea più alta dell’esistenza umana”: idea
che nel rigore assoluto, nella non accettazione di compromessi al
ribasso né di alcuna possibile debolezza, identifica il segno della
grazia. Tra il calvinista-teologo-pastore mancato di Grand Rapids e
la pur tormentata, superomista, narcisista figura del giapponese,
sembra stabilirsi l’indizio forte di un’ineludibile congenialità:
la grazia consiste nel percorrere la via senza timori come in un
biblico Salmo, e prima ancora nel comprenderla. La via (Crucis)
equivale al jinji: è porta stretta, arduo sentiero, faticoso
impegno, peso, obbligazione, dovere, ma carpirla (e risolutamente
percorrerla) equivale di per sé alla giustificazione esistenziale,
dunque alla salvezza. Una via che conduce a una crescita interiore, e
dunque un percorso ascensionale: ciò che Schrader individua nella
biografia umana e letteraria dell’autore nipponico, lo è
dichiaratamente.
Volontà
attiva significa azione: ecco quindi l’aspirazione verso il totale
controllo di sé, le quotidiane e inflessibili cure del corpo, le
opere prodotte senza risparmio, di seguito e senza soste, mettendo
insieme una parola dopo l’altra e una consecutio
dopo l’altra. Ecco, insomma, la parola,
che la vince sul mondo in quanto lo sublima: fin quando scrittura e
attività intellettuale non sono più sufficienti a riempire un vuoto
di valori vissuto come svalutazione interiore; di qui, la scelta di
porsi al servizio dell’idea più alta dell’esistenza, e la
conseguente necessità di ridefinire margini e campi d’azione, di
canonizzare etica ed estetica in una più esatta armonia, di trovare
un equilibrio tra
penna e spada. Mishima identifica tale equilibrio nell’atto
supremo: l’offerta della vita, il dono dell’intera propria
esistenza sull’altare di un principio tenuto per verità, nella
capacità di concepire un simile disegno ed eseguirlo, come un’opera
d’arte pensata e portata a compimento.
Francesco Saverio Marzaduri
Commenti
Posta un commento