Jeanne, gli occhi che (non) sorrisero
Jeanne, gli occhi che (non) sorrisero
FRANÇOIS
TRUFFAUT
La sensualità non è una semplice componente di Les amants, uno dei primi titoli della Nouvelle Vague, ma il suo elemento basilare: sicché, quando il film esce, si dubita che possa ottenere il visto censura oltre i confini francesi. Si tratta del secondo lavoro realizzato da Louis Malle con l’allora compagna Jeanne Moreau, nel ruolo di un’impenitente adultera. Ugualmente però, nell’immaginario collettivo, non ci si è ancora separati dal fotogramma d’apertura di Ascensore per il patibolo, prima collaborazione tra i due: un primissimo piano sugli occhi malinconici e sommessi della protagonista al telefono che, come ne La voce umana di Cocteau, immediatamente catturano lo spettatore imponendogli di seguire per un’ora e mezza una figura solitaria – lei pure fedifraga – mentre si aggira tetramente per le vie di Parigi in cerca dell’amante, sulle note da brivido di Miles Davis. La consacrazione di Jeanne Moreau sullo schermo arriva a trent’anni, lei che nel cinema ci recita già da dieci e all’attivo ha già una ventina di titoli: in Grisbi di Becker, ad esempio, è la ballerina cocainomane che rivela al losco Lino Ventura il piano del vecchio Jean Gabin per la rapina all’aeroporto. Ma è Malle a cucirle addosso quell’allure da donna di mondo sensuale, energica e indipendente, dal fascino sottilmente cerebrale, e una bellezza dai tratti insoliti e marcati capace di resistere sessant’anni. Fino alla solitaria dipartita nel proprio appartamento di Parigi, nel bel mezzo di un’estate torrida e in un panorama ove la trasgressione, quale sinonimo di radicale mutamento culturale, è un quid destinato a essere soffiato via. Strani casi offre la vita: Jeanne viene a mancare lo stesso giorno di luglio in cui dieci anni prima moriva Michelangelo Antonioni, che la diresse ne La notte nei panni di Lidia, moglie infelice dello scrittore Mastroianni. Pure, la Francia saluta per sempre una delle proprie indelebili icone lo stesso mese in cui l’Italia si congeda da Paolo Villaggio. Nomi che, accostati, sono quanto di più insolito si possa immaginare; senonché il Caso, accomunandone la scomparsa a breve distanza, ne intreccia le figure nel comune ricordo, così come nel ’92 entrambi ricevettero il Leone d’oro alla carriera.
Spiccata
antidiva per scelta, dall’incisività pari a quella di certe dive
del passato, la Moreau incarna un’immagine di sensualità
complementare alla bionda avvenenza di Brigitte Bardot dietro il cui
sex
appeal l’intero
mondo fila: il suo è sinonimo di una disinvoltura intellettuale,
esistenzialista e volitiva, dall’intelligenza acuta, profonda,
sempre anticonformista. Non è casuale che ambedue siano chiamate a
interpretare un’altra pellicola di Malle: lo spigliato Viva
Maria!,
che tuttavia non manca di qualche disappunto, malgrado il battage
pubblicitario
che ne accompagna la gestazione. A parte il citato Ascensore
per il patibolo,
risulta arduo però non coniugare quello sguardo inaccessibile, dalla
sensualità matura e diretta e dall’indefinibile sorriso, al
personaggio della libertina Catherine che Truffaut le regala in Jules
e Jim.
Amata da due uomini, che restano amici nel tempo nonostante il
triangolo, Catherine è una femme
fatale in
cui incanto e tenerezza sovrastano tutto ciò che in genere esibisce
il prototipo: a ricordarlo è il trattamento che infligge agli
spasimanti, accordando volubilmente i favori ora all’uno ora
all’altro, o escludendoli entrambi per un temporaneo capriccio.
Come le sue azioni, quali dirigere la vettura su cui condurrà Jim a
precipitare con lei nella Senna, senza rinunciare alla propria
sorridente nonchalance.
Catherine è l’incarnazione della misteriosa statua che ammalia i
due uomini, la “donna ideale” dietro la cui aria sbarazzina non
può che celarsi il presagio: il tourbillon
da
lei intonato alla chitarra in una celebre scena, che, come in ogni
vicenda di amore giovanile “maledetto”, prelude all’improvvisa
tragedia (non solo il suicidio, ma anche il rogo di vecchie missive
degli ex amanti, che annuncia l’autodistruzione). Il medesimo
tourbillon
lo
avrebbe cantato di nuovo, in compagnia di Vanessa Paradis, durante
una delle ultime apparizioni in pubblico: inno-poetica di una
bellezza segnata e ancora luminosa.
Un’icona
di “donna fatale” che funge da contraltare alla dark
lady Eva
nell’omonimo film di Losey, squillo d’alto bordo che fa perdere
la testa a uno scrittore sino a ridurlo a uno stato di subornazione.
L’esatto contrario della Christine de Il
treno di
John Frankenheimer, vedova in apparenza fredda e insofferente, prima
di appoggiare la causa e proteggere (e invaghirsi di) Burt
Lancaster.
Giacché,
come qualcuno giustamente ricorda, è ozioso e scontato scrivere di
un personaggio-simbolo quando viene a mancare, superfluo si fa il
rovistare nella produzione cinematografica e televisiva in cui il
volto di Jeanne Moreau ombreggia lo schermo, lungo praticamente
l’intera storia del cinema. Sterminato è l’elenco di titoli,
autori, interpreti, maestranze con cui l’attrice lavora, spesso in
più d’una circostanza. Talora anche solo prestando la voce, il
proprio suadente e inconfondibile timbro vocale reso rauco dal
tabagismo, sufficiente a contraddistinguerne il mito. Per tacere del
poliedrico contributo, eclettico ed instancabile, offerto come
regista di due film (doveva dirigerne un terzo, con Juliette Binoche
protagonista), documentari (l’ultimo dei quali incentrato su
Lillian Gish), produttrice e scrittrice. Pure in televisione è
chiamata a dirigere cinque episodi della serie E.R. – Medici in
prima linea, salvo poi abbandonare il set durante il primo giorno
di riprese. Infine, per due volte presidente di giuria a Cannes con
vent’anni di intervallo tra l’una e l’altra, senza dimenticare
l’aria di cinema respirata in privato come in pubblico, dal ménage
con Tony Richardson (che la scritturò per ... E il diavolo ha
riso e Il marinaio del “Gibilterra”), all’unione con
William Friedkin.
Jeanne
Moreau è tante donne, di quelle che incontri nella vita o che sogni
d’incontrare prima o poi. Quasi assenti i grandi personaggi che di
solito attizzano le dive, se si esclude qualche lodevole eccezione
(Margherita di Valois, Mata Hari, Sarah Bernhardt, Marguerite Duras),
e forse per tale motivo poco incensata in proporzione a bravura e
carisma, benché numerosi restino i riconoscimenti alla carriera.
Semplicistico e riduttivo chiedersi quale grande cineasta ne sappia
valorizzare al meglio talento e fascino. Molti suoi personaggi sono
una fucina d’ispirazione per successive attrici (“Ogni volta che
un attore recita, non si nasconde: si espone”, è un suo aforisma).
Alcuni titoli da lei interpretati hanno significative influenze sulle
generazioni di cineasti con cui in seguito Jeanne collabora, come in
un continuum o in un cerchio che tende alla chiusura. La
notte funge da modello d’ispirazione per Malle, Godard e
Wenders, che la dirige per due volte (in Al di là delle nuvole al
fianco dello stesso Antonioni). Ne Il passo sospeso della cicogna
di Angelopoulos, l’attrice torna a recitare insieme a
Mastroianni. E tra le prove “mature” degli anni Settanta, la
Florence di Mr. Klein (ancora Losey) e quell’amaro saluto al
cinema del passato ch’è Gli ultimi fuochi di Kazan. Nel
conclusivo Querelle de Brest, Fassbinder “costringe”
quella sfiorita bellezza a intonare la raggelante Each Man Kills
the Thing He Loves: parafrasando qualcuno, tutti abbiamo (ancora)
bisogno di quello sguardo. Tutti abbiamo bisogno d’amore. Poco
importa se ognuno di noi (poi) uccide (solo) ciò che ama.
E
ancora: Buñuel,
De Oliveira, Vadim, Gitai, Varda e Peter Brook, Martin Ritt, Bertrand
Blier, Peter Handke, Jean-Jacques Annaud, François Ozon. Ma non ci
si può congedare da Jeanne Moreau senza ricordare chi l’ha
definita “la più grande attrice del mondo”: il titano Welles,
probabilmente il più abile a diffonderne il magnetismo oltre i
confini nazionali. Che la impiega ne Il
processo,
offrendole il ruolo della conturbante vicina di casa del protagonista
Josef K., prima di farne una perfetta Doll Tearsheet in Falstaff
e,
in Storia
immortale,
“umiliarla” splendidamente nella pantomima di una vecchia
leggenda: figlia del socio in affari di Mr. Clay, morto suicida a
causa dell’insolvenza di un debito col mercante, Virginie Ducrot si
persuade che la mise-en-scène
porterà alla fine di quest’ultimo e, per le trecento ghinee
dell’antico debito, accetta di prestarsi a un ipnotico gioco di
specchi.
Come
non ricordarla, poi, nell’alter ego della celebre Catherine:
la vendicativa Julie Kohler de La sposa in nero, cui Truffaut
dà le sembianze di una figura all’apparenza imperturbabile, ma
invasata dal desiderio-missione di punire quanti, per stupida e
fatale leggerezza, procurarono la morte al marito il giorno delle
nozze. La brama di vendetta è più forte di qualunque cosa, anche
della morte (sebbene Julie conservi la propria etica, scagionando per
telefono un’innocente), finché la donna, consegnatasi alla
polizia, confessa i reati ma rifiuta di fornirne il movente, sapendo
che in carcere avrà la possibilità di uccidere l’ultimo
colpevole. Un archetipo che Tarantino avrebbe studiato e
deliberatamente saccheggiato per Kill Bill, i cui toni sono
però caratterizzati da una dose di violenza tanto esasperata quanto
lontana dal modello di riferimento.
“Due
cose non conoscono limiti,
la
femminilità e i modi di abusarne”, afferma sessantaduenne (e
ancora affascinante) mentre allo specchio applica il rossetto alla
futura killer Nikita-Anne Parillaud nella pellicola di Besson.
Proprio questo prototipo di donna emancipata e femminista,
spregiudicata e libertina, non comparabile ad alcun’altra, è la
caratteristica che del mito-Moreau ora si piange. Destinata a volar
via nel pieno di un’estate e di un panorama che sembrano trascurare
i simboli della cultura e del costume che furono, lo stesso giorno in
cui un altro poliedrico e intelligente artista ci lasciava, Sam
Shepard. Anch’egli, come Jeanne, emblema di un tempo
inesorabilmente lontano, di cui, sempre più orfani, non resta che
elaborare la memoria.
Francesco
Saverio Marzaduri
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