Sapore di Vanzina

Sapore di Vanzina 


Spendere tempo e parole su un cineasta come Carlo Vanzina, scomparso la scorsa estate, implica ragionare su due fattori. Il primo e probabilmente il più importante riguarda il tentativo di rivalutazione a beneficio duna produzione che, da qualsiasi parte la si voglia esaminare, è una diretta conseguenza della commedia italiana: è cosa nota che Carlo e il fratello sceneggiatore Enrico, figli di Steno, vi compirono i primi passi al fianco di Monicelli, Risi, Sordi, cercando di ricalcarne le orme. Eppure – e qui sta il paletto – umori e malumori che di quella formula erano gli ingredienti-base svelavano la mendacità dun boom economico di volta in volta svergognato nei propri egoismi, meschinità e contraddizioni, fungendo da forte controindicazione. Effetti collaterali e assuefazioni di un Paese che, nella filmografia vanziniana, non solo non camuffava il proprio becerume, ma fieramente vi si riverberava: nella realtà l’egoismo interessato avrebbe già mietuto le prime vittime, il terrorismo preso lentamente piede, la televisione (coi suoi modelli e beniamini) assurta a voce patronale. Sarebbe nata quella “Milano da bere” che lavori come I fichissimi o Eccezzziunale... veramente sul versante comico, e Mystère o Sotto il vestito niente nel thriller softcore, avrebbe introdotto nel decennio Ottanta come la bandiera di un’Italia prossima alla frenesia: il terreno sarebbe stato quello più commerciabile del giovanilismo, dove la goliardia parolacciara compensava l’amara ilarità dei decenni passati, ma pure la grossolanità sana, popolaresca, raramente irritante di papà Stefano e dei colleghi. E l’erotismo patinato, innestato negli anfratti di quella società “bene” che, in apparenza bersaglio della denuncia, era l’immagine di fronte a cui inchinarsi, imbevuta di opulenza e arricchimento (ne sono testimonianza Via Montenapoleone, I miei primi quarant’anni e Miliardi).
Carlo Vanzina è mancato l’8 luglio e, in altri tempi, dedicargli spazio su una rivista di cinema o persino una monografia avrebbe innescato la rivoluzione. Ma pur sempre – ecco il secondo fattore – siamo nel Paese dove si passa da un estremo all’altro per non esser tacciati di provincialismo, e di un dissapore si fa strame a favore di esternazioni esageratamente morbide. Il web è comoda alcova di tutto questo a scapito d’una miopia che spinge un’emittente tv a trasmettere uno degli enumerabili Vacanze di Natale senza ricordare che solo il primo, datato 1983, recava la firma registica di Carlo. Un Paese infrollito dai miti del decennio Ottanta, la cui odierna realtà suona distante anni luce da quella fotografata dai Vanzina. Ciò non significa che la loro produzione abbia profetizzato una fetta di Storia recente o colto in anticipo alcuni catastrofici segnali (la sublimazione delle curve calcistiche, l’avvento dello yuppismo): la verità è che le conseguenze di quell’emisfero, nella propria ostentata turpitudine, si sono spinte oltre la propria originaria concezione di bruttezza, perfino nella politica. E fa specie ripescare in tale produzione un titolo come Tre colonne in cronaca, fantapolitica vicenda in cui Gian Maria Volonté, simbolo del cinema militante e impegnato, si cala nei panni di Scalfari e adotta metodi poco ortodossi per salvare “La Repubblica” dalla chiusura, voluta da un losco industriale lombardo verso cui il giornale non è tenero.
Per cui i fasti o nefasti degli junk movies (i film “usa e getta”, di lì a non molto ribattezzati “cinepanettoni”) cedono il posto a malinconici sorrisi, imponendo anche in quel caso, per quei prodotti, un sentimento di tenerezza. Come spiegare la rivalutazione dei corali Sapore di mare, con quell’epilogo pervaso di celeste nostalgia, o delle prime vacanze in trasferta americana o sulle nevi di Cortina? Né si può non restare perplessi di fronte alla trovata, sostanzialmente la medesima, di applicare a tutti i luoghi e tempi la banalità piccolo-borghese dell’Italietta berlusconizzata. E sarebbe un errore trascurare la presenza dei volti comici televisivi dell’epoca – l’Abatantuono “terrunciello” e l’ex Gatto Calà, prima della vera gallina dalle uova d’oro, la coppia Boldi-De Sica – messi lì a coprire carenza d’idee e ingenuità della formula, condimento per ogni giustiano stracult, mancando le quali il tentativo di riproporre lo schema, con un gusto e un pubblico mutati, non incontra identico successo (Eccezzziunale veramente – Capitolo secondo... me, Il ritorno del Monnezza, 2061 – Un anno eccezionale). Ed è da segnalare la recensione che Morando Morandini fece di Una vacanza bestiale, definito “bestiale” come il titolo.
Più che il tentativo d’insinuare il linguaggio Ottanta all’interno della commedia balneare, oggetto di ripescaggio per le estati cinematografiche del Duemila, o di riproporre le annate Cinquanta-Sessanta in tivù secondo i canoni dei Pane e amore, a indurre al sorriso è la sterminata gamma di generi, non sempre ripagati con la moneta delle commedie, che fa dei Vanzina versatili mestieranti. Non solo il film di denuncia, ma anche il musicarello (Figlio delle stelle, con Alan Sorrenti), la parodia (quel Ras del quartiere che “rileggeva” Schrader, Hill e Carpenter), il fotoromanzo (Amarsi un po’..., Piccolo grande amore), l’opera in costume (La partita), la commedia fiabesca (Il cielo in una stanza, South Kensington) o l’affresco corale (Il pranzo di famiglia). E se stringe il cuore pensare come si potesse fare incassi con un’antica Roma che pareva la Prima Repubblica, nel magno mare delle operazioni commerciali bastano l’ingenua riproposta dei soliti ignoti con la scalcinata banda de I mitici, o il garbato omaggio a babbo Steno col sequel di Febbre da cavallo, a dire d’una filmografia che non aveva bisogno di sognare la California, e intingersi di umorismo di grana grossa (e di nostalgia), per ostentare la propria origine. “È soltanto di fronte a quella volgarità – scrive Enrico Giacovelli – ai venditori di aspirapolvere approdati dalle stalle alle stelle, che si può nutrire qualche moto di popolaresca e antica simpatia per chi si accontentava delle stalle, a suon di rutti e scorregge, causando danni al gusto ma non al paese”. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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