Vendetta (fin troppo) privata: DOGMAN

Vendetta (fin troppo) privata: Dogman 


Tralasciamo il caso della Magliana, perlomeno nei termini di ricostruzione filologica che sono la prassi del film-inchiesta. Tralasciamo il polverone sollevato dai familiari di chi vi era coinvolto, i quali, ritenendosi strumentalizzate vittime di una spettacolarizzazione del fattaccio, ne hanno vanamente tentato il boicottaggio. E tralasciamo infine come l’inaspettato successo del film, e la conseguente riesumazione del caso, abbiano fatto da cornice ai molti premi ricevuti, tra i quali il Palmarès a Marcello Fonte nel ruolo del Canaro. Ciò che anzitutto s’impone allo spettatore è il desolante scenario che Matteo Garrone, giunto con Dogman alla sua nona fatica, offre di una Roma periferica assai poco solare, quasi sempre livida e patinata di luci lugubri (la fotografia è dell’ottimo Nicolaj Brüel), in sintonia col modesto negozio di toelettatura per cani del protagonista. E il fatto che alcuni personaggi del film, in primis la scomoda figura del Canaro, rechino i medesimi nomi anagrafici dei loro interpreti già da sé basterebbe a capire come l’obiettivo di Garrone sia un altro: quel ristretto circondario capitolino (nella realtà Villaggio Coppola, frazione di Castel Volturno) è il solo possibile per un legame esistenziale altrettanto ambiguo e prevaricante, che inevitabilmente sconfina in tragedia. Sicché l’autore de L’imbalsamatore aggiunge un ulteriore tassello, dove la citata location è sfondo d’un Paese e d’una realtà di sconfortante bruttura. Dogman è un apologo sulla sopraffazione, dove i margini della Capitale sono spogli di qualsiasi vivido barlume, inscindibile da luoghi e volti scalfiti da grigiore e miseria morale. Ancora una volta la lezione pasoliniana lascia il segno, attraverso una pulizia figurativa che trasforma una località in cosa diversa, impressa com’è sui corpi di Marcello e del compare, l’aguzzino-vittima Simone; così come della madre di questi, del commissario di polizia, dei vicini che prendono le distanze dal protagonista, quando questi sceglie di non denunciare chi lo usa e scontare la pena. Si tratta di un raggio d’azione ristretto e via via più concavo: le premure di Marcello verso i cani, come si coglie nella sequenza introduttiva, sono simili alle affettività verso Alida, la figlioletta (il cui rapporto continua anche dopo la prigionia), i compari, lo stesso Simone. È quando la sovrastante presenza di quest’ultimo restringe brutalmente il campo, conducendo Marcello nell’identico luogo che apre il film, che la barriera di affetti e “amicizie” si riduce a due figure: nella bottega si consuma una vendetta morale cui fa seguito un omicidio, prima che entrambi i personaggi, a ruoli ribaltati, vengano estradati in un esterno ove ogni altra presenza è di secondo piano, priva di qualsivoglia suono e ascolto. Due demarcati confini: nella fosca vicenda della Magliana, Garrone stende una patina di dolorosa umanità, ricavando dallo sguardo contrito di Marcello la premonizione d’una vendetta ineluttabile e inutile, destinata a un’emarginazione incolmabile. Nel proprio (esplicito) paradigma di cane mangia cane, anziché un eroe, la realtà fa del Canaro una vittima senza nome, uscita da un film di Larraín dove i vinti spazzano i vincitori. E a ben vedere, le gabbie affastellate nel negozio di Marcello delineano dall’inizio alla fine un freddo emisfero dal quale proteggersi; barriera difensiva è pure la bottega dentro cui l’uomo si trincera: un’isola come quella che visita con Alida e nelle cui acque s’immerge. E nel momento in cui Simone abbatte la parete in cartongesso che separa il negozio dall’isolato nucleo dell’amico, la nicchia di Marcello “accoglie” la presenza intrusiva facendone un unico blocco. C’è chi ha parlato di Dogman come di un camuffato western, e in effetti la periferia è milieu per un indiretto funzionante O.K. Corral, ove la posta in gioco è la riappropriazione d’uno spazio e d’una dignità ormai inafferrabili. Ma è, soprattutto, un film in cui l’orrore scaturisce dalle riposte pieghe dell’umana miseria: Marcello ama la figlia, e ama i cani (ne salva uno da morte per congelamento, in seguito a un colpo del compare), e non dismette il proprio amorevole atteggiamento neppur quando, in un raggelante mix d’inquietudine e compassione, chiude la vittima nella gabbia in cui verrà seviziata. 

Francesco Saverio Marzaduri

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