Per favore, svegliatevi: BlacKkKlansman
Il segreto del cinema di Spike Lee – quando non insiste su ridondanze
che portano ad eccessivi didascalismi – risiede in due ingredienti.
Il primo va cercato nella memoria di un popolo ancora bisognoso di
urlare la propria lacerante ferita storica, il secondo in
un’evoluzione socio-culturale dall’instabile pensiero politico,
in cui il desiderio di mutamento (che dovrebbe serbare la necessità
d’una coscienza lucida) sembra non impedire il riaffacciarsi di
mentalità reazionarie e bigotte. La cosa giusta da fare by
any means necessary,
che da oltre trent’anni distingue la produzione del regista
afroamericano, quasi sempre si barcamena tra l’obbligo della
denuncia a squarciagola e l’ironica sfumatura con cui gridarla,
talora a scapito di quest’ultima. È proprio il tono sarcastico a
fare del lavoro di Lee un’opera di denuncia non superata, pronta
anzi a palesarne la politique
senz’alcuna paura di apparire di maniera, distante da confezioni ad
hoc fatte
di slanci polemici senza guizzi (l’ultimo Oliver Stone) o da
dissertazioni utili ma fastidiosamente non necessarie (Fahrenheit
11/9 di
Michael Moore). In BlacKkKlansman,
ventitreesimo lungometraggio del cineasta, tutto è giocato sulla
scommessa di ridestare le menti americane senza distoglierne la
coscienza dal palpabile senso di tensione dato dalla persistente
imminenza di esplosioni violente e tragedie sfiorate, da un
ribadimento della Storia atto a ricondurre lo sberleffo sul binario
del drammatico. E tuttavia – Spike Lee lo sa bene – la sola
possibilità di esorcizzare l’endorsement
trumpiano, la sua grottesca presenza, le calunnie, i malumori che
dividono le parti a costo di rivolte e vittime, sta nel riproporre la
Storia come invito, retrodatato, a intendere quel che va inteso. Lo
spettatore è avvisato: la volontà di bloccare l’origine dell’odio
(e all’uopo punirlo), anche solo contentandosi di superare una
battaglia nell’ampio raggio di un’invincibile guerra, è
plausibile inoltrandosi nel milieu
bigotto
e fanatico del Klan, mettendo da parte etnie e relativi risentimenti.
Nei suoi centotrentacinque minuti di durata, aleggia in
BlacKkKlansman
un’atmosfera vintage
dove
il climax
nixoniano è allegorico riverbero di quello attuale, che non
scalfisce la sulfurea volontà di sfottere il sistema a stelle e
strisce sin dalle origini del mito cinematografico: dal celebre
fotogramma di Via
col vento,
in cui Rossella O’Hara si confonde nella sterminata schiera di
feriti con la bandiera sudista a sventolare, si passa a un
caricaturale Alec Baldwin demagogo in bianco e nero, di fronte alle
cui retoriche ideologie non esenti da papere si scorge il desiderio
di castigare il fanatismo. “Il film è tratto da una fot…a storia
vera”, recita la didascalia nell’incipit, e il fil(m)ologo Lee ha
già incomodato Nascita
di una nazione
prima che il capolavoro di Griffith torni nella parole d’un vecchio
Harry Belafonte, testimone di un atroce episodio accaduto a un amico,
durante un meeting
universitario; se là il montaggio alternato esaltava il ceto WASP
come un popolo di eroi camuffati pronti al salvataggio dall’ombra
oscura, la stessa tecnica di montaggio, in questo caso, contrappone
le dolenti parole della guest
star
al rito d’iniziazione nel Klan di un detective ebreo infiltratosi
nella setta. La storia scritta col fulmine – parafrasando
l’aforisma del presidente Wilson – è screditata in tutta la
propria aura fallace da un corteo di fanatici rivoltosi che ancora
(si) esaltano (al)le immagini di Griffith, nell’istante in cui Lee
ne restituisce il lato di potenziali assassini quando il detective
Ron Stallworth, scambiato dai colleghi bianchi per stupratore, sventa
in
extremis un
attentato ai danni della presidentessa dell’unione studentesca
nera. Fuorviante è il parallelo del corteo del KkK con quello del
comizio sui diritti civili tenuto da Kwame Ture; fin troppo esplicita
la bilancia su cui pende l’ago del cineasta (di cui il protagonista
Ron, lui pure indotto a una presa di posizione, è l’alter
ego),
cui non sembrano importare le menzioni à
la Bogdanovich,
citato insieme a Cybill Shepherd. Restituita è l’America paranoica
degli anni Settanta (il fermo delle operazioni da parte del capo di
polizia, che, a missione conclusa, impone di distruggere i
documenti), colorita di tocchi nostalgici (la disco-music
e
la blaxploitation
negli incontri fra Ron e Patrice); a predominare è però quella
rivalsa che il cinema, una volta tanto, concretizza a favore dei
“fratelli”, denominati rospi
dai
bianchi laddove i neri chiamano porci
i piedipiatti. Solo una sciarada, addirittura uno scambio di ruoli,
voci ed etnie, rende ciò possibile affinché la corrispettiva
uniforme da fantasma sia derisa: Stallworth si presenta al telefono
come fanatico WASP, prima di convincere il collega ebreo Zimmerman a
infiltrarsi nel cantone e istruirlo sullo slang
tipico dei neri (purtroppo, va da sé, il doppiaggio azzera il
rispettivo gioco di voci in uno dei passaggi più irresistibili del
film); e che la celia assurga a incandescente arma per canzonare fino
all’ultimo il presidente del Klan David Duke, patetico nel
tentativo di scimmiottare i nemici, è evidente. Ma l’escamotage
della mascherata, che non risparmia qualche affiliato (gli agenti del
NORAD) né il rapporto tra Ron e Patrice (che non sa di uscire con un
“porco”) e sfiora l’ossimoro quando proprio il protagonista fa
da bodyguard
a
Duke, non cancella il clima di repressione esemplificato dalle
immagini documentaristiche in coda: alla marcia per i diritti civili
in Virginia segue l’ottuso discorso del vero Duke, la
contro-protesta dei bianchi prelude all’attacco in auto da parte di
James Alex Fields jr. e alle dichiarazioni di Trump dopo gli episodi.
Al solito polemico e provocatorio, lo stile coniuga primi piani
serrati a inquadrature distorte, in linea con l’incombente
soqquadro socio-politico, talora ricorrendo al mitico split
screen.
Così pure la pistola rivolta da Ron e Patrice all’obiettivo,
mentre il fondale dietro di loro si muove, è la riconoscibile firma
d’un autore conscio di non poter fermare lo spettro dell’odio,
infiammante in ogni senso, anche a prezzo inevitabile di innocenti
(la Heather Heyer che rimanda a Yusef Hawkins: altra vittima della
violenza bianca cui era dedicato Jungle
Fever).
Ben diversa dallo schermo, la realtà americana retrocede quanto la
sua bandiera, non bruciando più come in Malcolm
X ma rabbuiandosi poco a poco. In fondo, anche questa una vittoria. Con
ogni mezzo necessario.
Francesco Saverio Marzaduri
Commenti
Posta un commento