Scuola di vintage: The Predator
Noto perlopiù ai frequentatori del cinema artigianale, Fred Dekker è sceneggiatore e regista di un horror di culto – Dimensione
terrore,
del 1986 – e di uno sgangherato ma affettuoso carnevale teen
– Scuola
di mostri,
dell’87 – che rivisitava con divertito gusto cinefilo i
prediletti archetipi del genere orrifico. Shane Black, lui pure
sceneggiatore e qui regista, ha firmato i copioni di molti action
movies come
Arma
letale,
L’ultimo
boyscout e
Last
Action Hero,
raggiungendo la notorietà col terzo episodio della serie Iron
Man,
e più recentemente con The
Nice Guys,
riuscita variante del buddy-buddy
interpretata
dalla coppia Russell Crowe e Ryan Gosling. Lo stesso Black figurava
tra gli interpreti del primo capitolo di Predator,
quel Rick Hawkins ch’era
la prima vittima della mostruosa creatura. Non dovrebbe costituire
una sorpresa se i nomi di Dekker e di Black si siano riuniti per il
quarto episodio della serie, intitolato The
Predator,
per la gioia degli estimatori di quest’ultimo
e dei blockbuster
di
mero intrattenimento. Il fatto poi che l’ultima
regia di Dekker risalga a venticinque anni prima, con la conclusiva
puntata di Robocop,
imprime all’aggiornamento dell’alieno yautja
una
palpabile sensazione di ritorno agli anni Ottanta, con tutti i
fattori che nell’ambito
dello spettacolo d’evasione
costituiscono formula-standard. Si entra in una giungla sperduta e
subito arriva un’unità
militare in attacco, quasi che il film – più un reboot
che
un remake
– riprendesse
da dove quello di McTiernan s’era fermato. Di lì a poco, il corpo
della misteriosa creatura è condotto in laboratorio per essere
studiato dai servizi segreti, ma una cruenta colluttazione lo
impedisce; nel frattempo l’entrata in scena dei due protagonisti,
un cecchino e un’amazzonica dottoressa, prelude in più passaggi a
un’imminente collaborazione. A dar loro manforte, uno scalcinato
manipolo di ex soldati che, complice una finta rissa e in stile Il
fuggitivo,
fa deviare il furgone che dovrebbe condurli al manicomio militare: il
senso dell’avventura da telefilm li convince ad aiutare il cecchino
McKenna, benché l’interazione tra loro non lesini pesanti battute
e volgarità assortite (un “c..zo” ogni due secondi). Né manca
la doppia caccia – ai personaggi e alla creatura – per mano dei
servizi militari, destinata a sublimarsi in forzata coalizione prima
di una resa dei conti con qualche inevitabile vittima. Tutti fattori
disposti in sceneggiatura in modo disordinato, benché non
supponente, senza che Black & Dekker abbiano la pretesa di fare
del moralismo di fondo o di trovare nell’operazione qualche
allegoria politico-sociale, che nelle mani di un Carpenter avrebbe
avuto ben altra resa e ben altro impatto. Sfortunatamente, nei
centosette minuti di durata di The
Predator,
il gioco della rivisitazione Ottanta procede in modo stracco e, come
ha dimostrato Denis Villeneuve con Arrival
e
Blade
Runner 2049,
il rinverdimento della fantascienza non può arenarsi alle lodevoli
intenzioni: al pari dei Nexus anche i Predator si sono evoluti, ma
occorre osare di più e non sono sufficienti feticci del decennio in
questione (i cani alieni appaiono un riverbero di quelli
“fantasmatici” in Ghostbusters)
per saziare il palato dello spettatore predisposto. Lo testimonia
Ready
Player One di
Spielberg: il giocattolone può – anzi, deve – essere
interattivo, fendere l’immaginario virtuale, varcare le barriere
della cronistoria per stare al passo con l’odierno e il
postmoderno. Compreso l’enigmatico epilogo, spunto per un eventuale
nuovo anello di congiunzione, il resto è un déjà
vu avviluppato
su sé stesso da cui sprigiona, inevitabile, un senso di patetica
tenerezza che non risparmia neppure echi del citato Scuola
di mostri:
si pensi alla festa di Halloween, in occasione della quale la madre
chiede al figlio autistico quale maschera horror indossare, prima che
il bimbo si decida a indossare quella dell’alieno, recapitatagli
dal padre, coi suoi devastanti effetti. Ma pure l’elemento infanzia
– in cui è riposta, edificante, la speranza della salvezza – non
allontana un sentore d’obbligata rivisitazione, costituita da segni
e tracce disseminate che non camuffano né la travagliata produzione
né l’esito. Non resta che un nome, quello di Lawrence Gordon, che
intitola la scuola in cui il figlioletto di McKenna e i suoi compagni
bulletti sono iscritti: proprio il Larry Gordon produttore di quel
cinema di serie B ed action
cui
si deve il primo Predator.
Quella, sì, una gag cinematograficamente affettuosa.
Francesco
Saverio Marzaduri
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