Te la do io l’America: FAHRENHEIT 11/9

Te la do io lAmerica: Fahrenheit 11/9 


“Spero non giri mai un film su di me” 
DONALD J. TRUMP 

Due anni appena del mandato di Trump sono bastati al cinema a stelle e strisce per offrire una prima valutazione su fasti (pochi) e nefasti del 45° presidente degli Stati Uniti, e sulle conseguenze del suo operato. Tanto l’afroamericano Spike Lee, in BlacKkKlansman, opta per l’invettiva in chiave di allegoria storica, quanto il sessantaquattrenne Michael Moore resta fedele al proprio paradigma: un’inchiesta giornalistica narrata in prima persona, a base di testimonianze e interviste, condita di feroce sarcasmo secondo l’usuale piglio. Inevitabile che anche il liberal Moore tenti a suo modo di ridestare la coscienza collettiva, come altrettanto inevitabile, a mo’ di paradosso, che il titolo del suo decimo lavoro, Fahrenheit 11/9, sia una variante del j’accuse all’amministrazione Bush di quattordici anni prima, che fruttò il palmarès all’autore. In poco più di due orette, Moore sembra volerci dire come basti invertire l’ordine di qualche cifra senza troppo modificare l’esito: l’America rimane irredimibile bersaglio di un’utopia – la democrazia, in termini di cambiamento – priva del coraggio di osare fino in fondo. Sicché, come illustra il prologo ancor prima degli opening credits, chi era dato per spacciato nel confronto con la democratica Hillary Clinton, in men che non si dica si ritrova a tripudiare in mezzo alla folla che l’ha votato, sui cui volti scorrono lacrime amare anziché sorrisi. “Era tutto solo un sogno?”, si domanda un perplesso Moore, mentre scorrono i fotogrammi d’una folla di elettori intenta a stappare lo champagne ancor prima del risultato (“Sembrava la sfilata della vergogna”), sagacemente commentato da Ridi, Pagliaccio. E Moore medesimo, incomodato dalla televisiva Fox News per aver fatto il suo nome durante lo scrutinio, constata basito l’immagine del tronfio vincitore sull’Empire State Building. Putin e James Comey – continua il film maker – non sono che una palese scusante. L’ipotesi, anzi, è che la candidatura di Trump fosse nata solo per ripicca, avendo scoperto che la NBC retribuiva Gwen Stefani più di lui, e, dietro lauto compenso per le comparse, il Nostro mirasse a dimostrarsi anchorman altrettanto valido. Ciò che la tivù non gli permise, licenziandolo a causa dei suoi epiteti xenofobi, ne decretò il consenso nazional-popolare presso il Sud e la conseguente illuminazione della candidatura. A dar la spinta fu, d’altronde, il piccolo schermo, che ne fece la gallina dalle uova d’oro favorendogli la gratuita messa in onda e i graduali diktat, complice la simpatia di alcuni dirigenti sessisti (da Moore etichettati come sexual predator, di cui sciorina i “capi d’accusa” intenti a incalzare pesantemente la Clinton). E il cineasta ricorda un confronto col futuro presidente tenutosi nel ’98, ospiti del salotto di Roseanne Barr, prima del quale Trump mise le mani avanti affinché al primo fosse negato il contraddittorio. A fare il resto, l’antica amicizia col Rick Snyder governatore del Michigan, ex amministratore delegato di “computer schifosi” e responsabile d’uno sfruttamento idrico presso lo Huron a vantaggio suo e di potenti sostenitori. La causa dell’acquedotto, adibito a spostare l’approvvigionamento del lago sulle acque inquinate del fiume Flint, fu la morte per legionella di numerose persone e irreversibili danni per l’alto tasso di piombo presente – e, com’è ovvio, ci si adoperò per seppellire le prove del misfatto. Noto è lo schema di Moore: una serie di supposizioni non casuali che approdano a una fondata teoria, qui come altrove non sempre condivisibile; nondimeno, la carica eversiva risiede in alcune sulfuree trovate a favore di quell’idea di etica che gli States, sedicenti disposti al mutamento, riescono giusto a nominare: dopo le dolenti dichiarazioni degli abitanti di Flint – una prigione, a detta del cineasta, per i quali è impossibile evadere – ecco il Nostro intento a eseguire un arresto in flagranza di reato (con tanto di manette), sfumato il quale invia una cisterna con le acque della citata città per annaffiare la villa di Snyder. Ma l’articolata polemica sembra non far sconti a nessuno, a cominciare dalla fascia democratica, che non annovera soltanto i sondaggi elettorali truccati a favore della Clinton: la perdita di un’identità, dovuta alla paranoia di mostrarsi troppo liberal, induce Obama in persona a un gesto di compromesso (il bagnarsi le labbra con un bicchiere d’acqua spacciato per avvelenato) che, non potendo essere interpretato come un siparietto, suscita lo sdegno della folla quanto il suo prender soldi dalla Goldman Sachs. La zavorra è tanta, l’azzardo lo è di più; l’invito a prender posizione deve fare i conti con la contraddittorietà d’uno sguardo (e un Paese) in cui la decisione, da qualunque parte si prenda, è scomoda. Chi conosce il lavoro di Moore, sa di confrontarsi con un ambiguo paradigma che opta per gli usuali colpi cerchiobottisti a spettatori già certi della propria ideologia, e non esente da una debordante voglia di mettere in fila chi la pensa come lui – il che costituisce frequente motivo di critica al suo lavoro. È nel materiale trattato nella seconda metà di Fahrenheit 11/9 che si ritrova la firma di Bowling a Columbine e di Sicko: gli scioperi conclamati dagli insegnanti del West Virginia, che l’accesso alla polizza sanitaria obbliga all’uso di un’applicazione che ne conta i quotidiani passi, o la protesta di alcuni studenti contro la politica delle armi facili dopo la sparatoria di Parkland, in Florida. Dove la dissertazione rischia il qualunquismo, e pure il non necessario, è nel facile accostamento tra il mostro storico Hitler e l’odierno male mediatico, o in un’altra bandiera che s’infiamma. Ciò non sottrae il risultato al già cospicuo novero di radiografie su un’America schiacciata dalle proprie contraddizioni (la complicità con la Cina e la Russia), incapace di riconoscere colpe e individuare colpevoli. Le incalcolabili bugie del presidente la vincono, anche se sono bugie. Degli odiati filmati di educazione civica sul concetto di democrazia, ora più che mai si sente la mancanza. Perfino la deplorevole, volgare figura di un agitatore – spettro del protagonista di uno scomodo film di Corman, L’odio esplode a Dallas, troppo in anticipo sui tempi per essere compreso – assurge a neo-eroe. Il conclusivo appello sull’invito a reagire (“L’America che volevamo salvare è l’America che non abbiamo mai avuto”), col fake di un Trump scortato dall’FBI in manette, è amara ucronia. Che un finto attacco missilistico alle Hawaii divulgato dai social network, l’ennesima sparatoria in una scuola e le lacrime di una giovane studentessa, argutamente siglano. Quasi che la voce di Moore e del suo possibile seguito fronteggiasse una sparizione in odor di censura. 

Francesco Saverio Marzaduri

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