Il fuorilegge tardivo: Old Man & the Gun
In tema di rapinatori stagionati ci si ricorderà di un film di Martin Brest, Vivere
alla grande,
in cui tre anziani pensionati, in un impeto di senile vitalità,
assalivano mitra in pugno una banca, a mo’ di beffardo riscatto per
una vita interamente vissuta nel grigiore. Nel quarto lungometraggio
di David Lowery, Old
Man & the Gun – pure
sceneggiato dall’autore su ispirazione dell’omonimo articolo di
David Grann – non ci si sofferma tanto sulla figura realmente
esistita di Forrest Tucker, artista dell’evasione, fuggito per sua
stessa ammissione 18 volte con successo e 12 senza, quanto nel dare
al ritratto di un malvivente connotazioni e ambientazioni da cinema
romantico e nostalgicamente fuori moda: la rancida realtà
dell’epilogo acquista così fiabesco sapore, accentuato da ironiche
didascalie, e il sorriso esorcizza il resto. Il fatto poi che, con
questo prodotto, l’ottantaduenne Robert Redford, icona della
Hollywood anni Settanta, scelga di congedarsi dagli schermi, sta a
ribadire che non è più tempo per simili operazioni o per chi ne ha
fatto la fortuna. Se i miti non invecchiano, parafrasando Tullio
Kezich, un certo cinema invecchia eccome; tuttavia, i casi
recentissimi di Un
sogno chiamato Florida,
Tonya,
e soprattutto di Tre
manifesti a Ebbing, Missouri e
Charley
Thompson,
restano come tracce sparse, echi d’una memoria narrativa sospesa
tra psicologie e situazioni, di fatto mai davvero sepolta: quasi un
indiretto invito alle odierne generazioni nel mare magno delle
produzioni commerciali. E se in Lucky
si
assisteva al testamento del caparbio novantenne Harry Dean Stanton,
nel film di Lowery lo spettatore non fatica a ritrovarne l’analogo
spirito nella filosofia esistenziale di Tucker: anch’egli un
indomabile, il cui modus
operandi
– cappello nero alzato a mo’ di saluto, rivoltella nel trench
esibita al momento giusto, immancabile sorriso da gentleman
– assurgono a mitiche cifre, in linea col volto usurato dal tempo e
il disinvolto charme del suo interprete. A nulla vale il proposito di
mettersi tranquillo dopo anni di gattabuia e fughe: irresistibile il
richiamo d’una rivalsa, impellente la voglia di mettersi in gioco.
Perché Old
Man & the Gun non
è soltanto una biografia o un apologo sul tempo e le sue regole, ma
un ulteriore tassello nel pur vasto campionario del mito in
celluloide, dove la produzione a stelle e strisce si riconferma
impareggiabile nel gestire il dualismo leggenda-realtà (dove l’una,
si sa, la spunta sull’altra). Il dato più suggestivo dell’opera,
che non arretra dinanzi alla contrapposizione tra la figura storica e
la sua romantica restituzione, risiede anzi nell’elegiaca fusione
tipologica: quasi che la dubbia moralità di Tucker fosse parte
integrante d’un trascorso e un folklore che l’America, nella
propria visione contraddittoria, non potrà forse mai debellare e che
solo il cinema che fu (e ancora è,
in certo qual modo) riesce a trasmettere in patina vintage.
Il resto è storia, si suol dire, come la descrizione che i rapinati
forniscono volta per volta del protagonista, o la barzelletta che il
detective Hunt racconta al figlioletto, in banca, mentre Forrest
effettua un colpo sotto il suo naso. E il protagonista in
primis si
presenta come affabulatore, agli occhi della stagionata vedova di cui
s’innamora ricambiato, tanto che – ancor prima dei titoli di
testa – descrive la propria professione con l’escamotage
dell’ipotesi leggendaria. La cultura nordamericana è una scatola
cinese di miti senza tempo, che non cessano di riproporsi e la cui
chiave, in Lowery, è una dicitura introduttiva che riporta a Butch
Cassidy (“Questa
storia è quasi del tutto vera”) e tien fede all’epopea dei
fuorilegge e dei suoi adattamenti: l’ex cavaliere elettrico non
smette di vestire i panni di Sundance perfino nell’ultimo ruolo,
amare i cavalli come l’amante Jewel e, dopo una soffiata, scegliere
di farsi acciuffare in un ranch – vago ricordo, forse, dello
Sterling Hayden di Giungla
d’asfalto.
E, come il temerario Waldo Pepper, osare l’inosabile sfidando la
propria effigie, e il tempo inerente ad essa, con le ultime quattro
rapine in un solo giorno. Né manca un’impronta genealogica:
l’inizio della fine di Tucker, che ha luogo nel ristorante in cui
incrocia e sfotte il pedinatore Hunt, riporta al casuale incontro a
distanza tra il G-Man
Purvis e Dillinger nel film di Milius, e il volto di Warren Oates fa
capolino, guarda caso, sullo schermo di un cinema in cui siedono
Jewel e il protagonista. Purtroppo per l’esito, il fatto che
l’America non sia un paese per vecchi, e quello in oggetto non sia
un cinema per giovani, lo dice molto meglio Clint Eastwood, a sua
volta ricordato nel difficile rapporto fra Tucker e la figlia (che
rimanda, in Potere
assoluto,
a quello tra il ladro e Kate), nella maschera di cartapesta lasciata
nella cella durante un’evasione (Fuga
da Alcatraz),
perfino nel dito-pistola puntato ai poliziotti (lo stesso mimato da
Walt in Gran
Torino)
ch’è anche l’affiche
del film. Sicché, Old
Man & the Gun resta
un compitino medio e diligente, privo di autentici guizzi, ardito nel
tentativo di ribadire l’archetipo ipertestuale pur nella
consapevolezza di non poter competere col modello, sufficientemente
coraggioso da affrontare il box office natalizio. Poco avvincente
risulta la rincorsa à
la Hugo
fra Tucker e Hunt, che ha il torto di venire molto dopo Prova
a prendermi,
e un po’ sacrificati sono i disegni dei compagni di rapina, e forse
delatori, Danny Glover e Tom Waits. Lo spettatore preparato sorride
di fronte al tramandarsi della nota epopea di banditi e fuorilegge
che si coniuga con quella dei miti cinematografici, e trova il fulcro
in una fusione ch’è un ulteriore artificio. E nel novero delle
numerose evasioni di Forrest, descritte per immagini nel prefinale,
ecco spuntare il Redford biondo e glabro de La
caccia,
come i cowboy in bianco e nero del “Duca” John Wayne che
introducevano Il
pistolero.
Un’ulteriore leggenda: vera o no, poco importa. “La giornata è
ancora giovane”, chiosa ironico Tucker.
Francesco
Saverio Marzaduri
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