Uno sguardo sul cinema filippino
Uno sguardo sul cinema filippino
Diaz
non è però il solo autore di rilievo della cinematografia
filippina: il modello archetipico della sua opera é il compianto
Lino Brocka, la cui prolifica carriera – che annovera più di
quaranta lavori – lo ha fatto definire in patria il “miglior
regista di sempre”. E non sorprende che al pari del maestro – in
un paio di occasioni, nell’arco di un lustro, candidato a Cannes
dov’è stato pure membro di giuria – Diaz sia un habitué
di eventi e
rassegne, con opere quali Death
in the Land of Encantos e
Melancholia,
la cui sterminata lunghezza raggiunge perfino le dodici ore,
attraverso un elaborato impiego delle unità di azione e un
persistente uso del piano-sequenza, facendone uno degli autori di
punta dell’ultimo decennio. L’ultima fatica, The
Season of the Devil,
ritorna a un genere già molto amato nel suo Paese, il musical; e nel
dedicarlo alle vittime della dittatura di Marcos e al periodo in cui
fu in vigore la legge marziale, che permise a bande armate di
spadroneggiare nel nome di un’ipotetica “Nuova Società”, Diaz
chiarisce la sua opposizione ad ogni regressione autoritaria. La
musica, che fa del film un’autentica rock
opera,
funge da nuova forma espressiva permettendo al cineasta di cimentarsi
anche come autore di trentatré brani inseriti in colonna.
Tuttavia,
come detto, la produzione delle Filippine non s’esaurisce qui;
tanto che Renato Loriga, con il proprio recente volume Autohystoria
– Visioni coloniali del nuovo cinema filippino,
colma finalmente la vasta lacuna nel panorama editoriale su tale
cinematografia, non solo delineandone la storia dalle origini ad oggi
ma affrontandone aspetti critici e interpretazioni teoriche.
Un’indagine sulla storia, il colonialismo, la costruzione
dell’identità nazionale, che esamina la fitta rete di relazioni
interdipendenti tra registi e produttori, settori della critica e dei
festival, pirateria digitale e mondo accademico, analizzata e
discussa con gli strumenti della teoria post-coloniale. Scoprendo
così come, fin dagli esordi, l’intero processo produttivo e
distributivo filippino fossero occhiutamente sorvegliati da
Hollywood, che ne gestiva il mercato modificando le opere di talenti
emergenti, quelli più legati alle tradizioni popolari e al folklore,
presentandoli in confezione occidentale, così da renderle digeribili
a un pubblico internazionale non avvezzo (né particolarmente
interessato) alla cultura filippina. L’esito di tali ibridazioni
trovò la propria dimensione nel musical,
appunto, e nella commedia, nel fantasy, in apologhi avventurosi
spesso ispirati a leggende locali, e
soprattutto nel mélo,
prediletto
dagli autori e da un pubblico sensibile alla rappresentazione di
conflitti e sentimenti estremi. E nel
rispondere al serrato controllo delle majors,
giovani film makers insorsero,
dando vita a una nuova produzione rigidamente in lingua locale e a
target popolare. Il Bakya
– nome
che trae origine dagli zoccoli di legno calzati dai filippini prima
del sandalo di gomma, simboleggianti la povertà della nazione –
include opere che principalmente attingono al teatro Senakulo,
devota e rispettosa raffigurazione della passione di Cristo in linea
con l’iconografia ispanica, e alla Sarsuwela,
adattamento
locale della spagnola zarzuela,
genere lirico e drammatico che miscela ballo, canto e dialogo. Il
primo a seguire tale linea produttiva, José Nepomuceno, è anche
considerato l’iniziatore del cinema filippino in lingua tagalog,
con Country
Maiden – che
con un geniale escamotage
riesce a
evadere il problema del muto – e con Manananggal,
che coniuga il genere orrifico alle creature della tradizione
folkloristica locale (benché tale horror simil-vampiresco sia poi
andato perduto come gran parte della filmografia prebellica). Si
ricorda il corale Noli
me tangere,
di accurata ambientazione ottocentesca, ispirato a un romanzo storico
di Rizal che ricostruisce il periodo della dominazione spagnola; e a
Nepomuceno s’accredita il primo film filippino sonoro, Punyal
na ginto.
Assai vicino ai gusti hollywoodiani è l’attore-regista Vicente
Salumbides, ammiratore della sophisticated
comedy,
che dopo varie esperienze da comparsa su set americani esordisce con
Miracles
of Love rivoluzionando
il linguaggio cinematografico in voga, grazie all’introduzione del
montaggio alternato o all’innovativo impiego del primo piano.
A
guerra conclusa la produzione rifiorisce quasi subito, tornando in
breve tempo al ritmo frenetico degli inizi, prediligendo i generi
usuali cui affiancare saghe locali, o bibliche, e opere in costume di
gusto hollywoodiano. Com’è accaduto per altri paesi del Sud-Est
asiatico, le vicende storico-coloniali contribuiscono a rendere la
storia del cinema filippino complessa e stratificata, ma va segnalata
la difficoltà di ricostruirne la nascita e i primi sviluppi a causa
della scarsa disponibilità di fonti. Di quasi quattrocento pellicole
girate tra il ’19 e il ’44 se ne sono salvate solo tre; intere
stagioni e grandi successi della produzione filippina si possono
ricostruire unicamente sulla base di poche conservate affiches.
Da sempre, nelle Filippine, il cinema rappresenta una parte
importante dell’esistenza quotidiana e della cultura degli
abitanti, e il suo sviluppo procede costantemente e dialetticamente
entro i citati poli delle tradizioni popolari e dei codici
occidentali. A quel periodo, infatti, risale il primo fortunato
tentativo di valicare i confini nazionali, alla ricerca di una
notorietà che renda giustizia alla sua ricchezza espressiva: col
biografico Gengis
Khan,
datato 1950, l’autore Lou Salvador Jr. mescola con buon equilibrio
cultura popolare e suggestioni del cinema occidentale, conquistando
attenzione alla Mostra del Cinema di Venezia e aprendo la strada
percorsa, più tardi, dal menzionato Brocka. Nello stesso periodo,
l’interprete-produttore Manuel Conde sarebbe passato alla regia
guadagnandosi il soprannome di “De Mille filippino”, per i suoi
prodotti spettacolari. Se solido mestiere e profonda consapevolezza
caratterizzano anche le filmografie di Lamberto V. Avellana e Gerardo
de León,
nomi la cui sterminata filmografia comprende una settantina di titoli
ciascuna, non meno rilevante è Eddie Romero, cineasta completo la
cui opera si sviluppa in un periodo difficile, che assiste al crollo
del System
e all’origine
d’una severa censura. Se alcune sue fatiche sono attente
all’introspezione psicologica o alla rigorosa denuncia, da Ganito
Kami Noon,
Paano Kayo Ngayon?
a
Banta
ng Kahapon,
il sodalizio con Roger Corman innerva la produzione del Paese di
un’aura prettamente a stelle e strisce, come testimoniano gli
exploitation
girati negli
States, come Donne
in catene,
allegoria sui
generis
della
dominazione coloniale subita dal Paese.
Verso
gli anni Settanta si sviluppa una forte contestazione contro
l’establishment
politico-culturale,
grazie a prodotti che riescono sapientemente a forzare i limiti
imposti dalla censura: da Giappone e Cina giungono modelli d’un
cinema che affida alla violenza e all’erotismo il compito di
esprimere una discutibile critica alla politica e alla società.
Molte pellicole mostrano anche una ricostruzione del tragico periodo
che vide l’isola sotto l’influenza del dominio spagnolo e
americano, martoriata da colonialismi, repressioni cruente e
dittature. Un Paese che affronta catastrofi naturali, invasioni,
crisi politico-economiche, governi autoritari e leggi marziali,
conflitti interni e rivoluzioni, e ancora pressioni e
destabilizzazioni prima di arrivare affannosamente a una stabilità e
a una democrazia ch’è oggetto di odierne, pesanti rivisitazioni.
La bagarre,
va da sé, influenza la cinematografia nazionale e s’arriva alla
creazione di un immaginario storico-politico condotto da cineasti
che, pur differenti a livello di approccio e sguardo filmico, sono
accomunati da notevole sensibilità nell’inscenare le tristi
vicende di un Paese affascinante e antico per cultura e folklore. Il
cinema è un importante strumento di espressione e rinascita: un
mezzo culturale e linguistico fondamentale per riportare e
trasformare in immagini la Storia attraverso una profonda analisi
geopolitica, in grado pure di sviscerare il rapporto esistenziale, e
non solo, che lega il popolo alla terra di appartenenza. Autori
diversissimi tra loro, Lino Brocka e Mario O’Hara sono uniti da un
profondo rigore etico e da una filmografia che trasuda emozioni e
suggestioni, sensibilità e lirismo, figli d’uno sguardo scrupoloso
e critico su ciò ch’era ed è divenuta la società filippina,
nella propria lenta e faticosa ripresa. L’interesse del primo alle
forme della cultura popolare ostenta un desiderio d’innovazione,
benché sia nel melodramma che Brocka mostri una compiuta maturità
artistica, interpretando con sguardo aperto e curioso il cambiamento,
senza sottovalutare la disgregazione di rapporti umani quasi sempre
asserviti al sesso e al denaro (vedasi opere come Tinimbang
ka ngunit kulang o
come Manila in the Claws of Light).
Sceneggiatore per Brocka in numerose occasioni, il secondo è maestro
del noir,
firma di capolavori di genere ma anche di testimonianze d’impegno
politico: girato a pochi mesi dall’assassinio di Benigno Aquino
Jr., figura di spicco dell’opposizione a Marcos, Hope
of the Heart narra
le terribili violenze compiute dal regime militare. Nella linea di
una continuità col passato s’impone Carlos
Siguion-Reyna,
anch’egli fedele al mélo
e al noir,
i cui film sono costituiti da un senso dell’attesa e del tempo
dilatato sino allo spasimo: al centro dei suoi apologhi, storie
assortite di uomini e donne, sguardi che si sovrappongono, ambienti e
situazioni filmati con accurata passione per il dettaglio.
Certo
è che, alla stregua di cinematografie “minori” sempre più
oggetto d’interesse e riscoperta, la produzione filippina è
tornata in auge con una propria insospettabile
vitalità per merito di giovani talenti e figli d’arte
– a parte Diaz, Brillante Mendoza o
Sonny Calvento – il cui cognome basterebbe a dire dell’eredità
che tali nomi continuano ad esercitare.
Sarebbe un errore poi non menzionare maestranze quali Raya Martin o
Gym Lumbera, John Torres o Sherad Anthony Sanchez, sino a Pepe Diokno
e Dodo Dayao, oltre a qualche nome della generazione precedente (da
Eddie Garcia all’underground
Khavn De La
Cruz, da Raymond Red a Kidlat Tahimik). Il rischio, se di rischio è
lecito parlare, è che questa nuova ondata venga vista come il punto
di partenza della cinematografia filippina; non meno certo è infatti
che il cinema dell’arcipelago viene da una storia secolare,
smarrita nella memoria cinefila ma documentata e rintracciabile –
in una parola, viva.
Impensabile nominare tutti i registi della produzione: benché non
siano state citate figure anch’esse meritevoli (César Gallardo,
Gregorio Fernández, Cirio H. Santiago, Ishmael Bernal), che le
avrebbero consentito di “risorgere” nell’epoca della prima
indipendenza a basso costo, a tutt’oggi le Filippine rappresentano
una ben consolidata realtà del panorama filmografico internazionale,
riuscendo a conquistare ampie fette di critica e pubblico attraverso
riconoscimenti a livello globale. Verrebbe da pensare, forse a torto,
che il cinema filippino si sia sviluppato e abbia assunto una precisa
fisionomia solo nel terzo millennio, ma la fase odierna non è che
l’evoluzione d’una tradizione filmica che ha le proprie radici
negli albori della Settima Arte (La
Vida de José Rizal di
Edward Gross risale al ’12) e che, sebbene a lungo trascurata,
resta fondamentale per capire come sarebbe mutato il cinema di questa
realtà insulare del Sud-Est asiatico. Cinema che meriterebbe di
essere ripensato a prescindere dalla sua attuale dimensione
festivaliera.
Francesco Saverio Marzaduri
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