Uno sguardo sul cinema filippino

Uno sguardo sul cinema filippino 


Non c’è da stupirsi se anche la produzione cinematografica filippina, come quelle di altri paesi, diventa oggetto di discussione quando un suo titolo, o un suo autore, s’impongono inaspettatamente in qualche rassegna, presentando assai più d’un semplice motivo d’interesse. A maggior ragione quando tale produzione denota aspetti minimali, frutto di realtà intimiste, che l’occhio sensibile della cinepresa – non esente talvolta da virtuosismi d’essai o da felici guizzi autoriali – consegna a un pubblico non edotto in materia ma avido di novità. Come spiegare, altrimenti, la vittoria di Lav Diaz alla 73° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, conseguendo per primo il Leone d’oro col monumentale affresco in bianco e nero The Woman Who Left – La donna che se n’è andata? E pazienza se la confezione indie, acquistata dalle applicazioni multimediali per consentirne l’anteprima festivaliera, abbia reso impossibile la sua distribuzione nei circuiti di sala. Nel mettere in scena il calvario e la redenzione della protagonista, pregiudicata per trent’anni a causa di un delitto mai commesso, l’autore regala quasi quattro ore di esistenza morale rilasciandosi al senso d’attesa, senza indugiare su una dilatazione di tempi ch’è riverbero di un’umana esistenza carpita in ogni sua casualità. Fattori, questi, di non facile divulgazione, che costituiscono assoluta novità nella specifica produzione nazionale, ma proprio per questo coraggiosi e innovativi.
Diaz non è però il solo autore di rilievo della cinematografia filippina: il modello archetipico della sua opera é il compianto Lino Brocka, la cui prolifica carriera – che annovera più di quaranta lavori – lo ha fatto definire in patria il “miglior regista di sempre”. E non sorprende che al pari del maestro – in un paio di occasioni, nell’arco di un lustro, candidato a Cannes dov’è stato pure membro di giuria – Diaz sia un habitué di eventi e rassegne, con opere quali Death in the Land of Encantos e Melancholia, la cui sterminata lunghezza raggiunge perfino le dodici ore, attraverso un elaborato impiego delle unità di azione e un persistente uso del piano-sequenza, facendone uno degli autori di punta dell’ultimo decennio. L’ultima fatica, The Season of the Devil, ritorna a un genere già molto amato nel suo Paese, il musical; e nel dedicarlo alle vittime della dittatura di Marcos e al periodo in cui fu in vigore la legge marziale, che permise a bande armate di spadroneggiare nel nome di un’ipotetica “Nuova Società”, Diaz chiarisce la sua opposizione ad ogni regressione autoritaria. La musica, che fa del film un’autentica rock opera, funge da nuova forma espressiva permettendo al cineasta di cimentarsi anche come autore di trentatré brani inseriti in colonna.
Tuttavia, come detto, la produzione delle Filippine non s’esaurisce qui; tanto che Renato Loriga, con il proprio recente volume Autohystoria – Visioni coloniali del nuovo cinema filippino, colma finalmente la vasta lacuna nel panorama editoriale su tale cinematografia, non solo delineandone la storia dalle origini ad oggi ma affrontandone aspetti critici e interpretazioni teoriche. Un’indagine sulla storia, il colonialismo, la costruzione dell’identità nazionale, che esamina la fitta rete di relazioni interdipendenti tra registi e produttori, settori della critica e dei festival, pirateria digitale e mondo accademico, analizzata e discussa con gli strumenti della teoria post-coloniale. Scoprendo così come, fin dagli esordi, l’intero processo produttivo e distributivo filippino fossero occhiutamente sorvegliati da Hollywood, che ne gestiva il mercato modificando le opere di talenti emergenti, quelli più legati alle tradizioni popolari e al folklore, presentandoli in confezione occidentale, così da renderle digeribili a un pubblico internazionale non avvezzo (né particolarmente interessato) alla cultura filippina. L’esito di tali ibridazioni trovò la propria dimensione nel musical, appunto, e nella commedia, nel fantasy, in apologhi avventurosi spesso ispirati a leggende locali, e soprattutto nel mélo, prediletto dagli autori e da un pubblico sensibile alla rappresentazione di conflitti e sentimenti estremi. E nel rispondere al serrato controllo delle majors, giovani film makers insorsero, dando vita a una nuova produzione rigidamente in lingua locale e a target popolare. Il Bakya – nome che trae origine dagli zoccoli di legno calzati dai filippini prima del sandalo di gomma, simboleggianti la povertà della nazione – include opere che principalmente attingono al teatro Senakulo, devota e rispettosa raffigurazione della passione di Cristo in linea con l’iconografia ispanica, e alla Sarsuwela, adattamento locale della spagnola zarzuela, genere lirico e drammatico che miscela ballo, canto e dialogo. Il primo a seguire tale linea produttiva, José Nepomuceno, è anche considerato l’iniziatore del cinema filippino in lingua tagalog, con Country Maidenche con un geniale escamotage riesce a evadere il problema del muto – e con Manananggal, che coniuga il genere orrifico alle creature della tradizione folkloristica locale (benché tale horror simil-vampiresco sia poi andato perduto come gran parte della filmografia prebellica). Si ricorda il corale Noli me tangere, di accurata ambientazione ottocentesca, ispirato a un romanzo storico di Rizal che ricostruisce il periodo della dominazione spagnola; e a Nepomuceno s’accredita il primo film filippino sonoro, Punyal na ginto. Assai vicino ai gusti hollywoodiani è l’attore-regista Vicente Salumbides, ammiratore della sophisticated comedy, che dopo varie esperienze da comparsa su set americani esordisce con Miracles of Love rivoluzionando il linguaggio cinematografico in voga, grazie all’introduzione del montaggio alternato o all’innovativo impiego del primo piano.
A guerra conclusa la produzione rifiorisce quasi subito, tornando in breve tempo al ritmo frenetico degli inizi, prediligendo i generi usuali cui affiancare saghe locali, o bibliche, e opere in costume di gusto hollywoodiano. Com’è accaduto per altri paesi del Sud-Est asiatico, le vicende storico-coloniali contribuiscono a rendere la storia del cinema filippino complessa e stratificata, ma va segnalata la difficoltà di ricostruirne la nascita e i primi sviluppi a causa della scarsa disponibilità di fonti. Di quasi quattrocento pellicole girate tra il ’19 e il ’44 se ne sono salvate solo tre; intere stagioni e grandi successi della produzione filippina si possono ricostruire unicamente sulla base di poche conservate affiches. Da sempre, nelle Filippine, il cinema rappresenta una parte importante dell’esistenza quotidiana e della cultura degli abitanti, e il suo sviluppo procede costantemente e dialetticamente entro i citati poli delle tradizioni popolari e dei codici occidentali. A quel periodo, infatti, risale il primo fortunato tentativo di valicare i confini nazionali, alla ricerca di una notorietà che renda giustizia alla sua ricchezza espressiva: col biografico Gengis Khan, datato 1950, l’autore Lou Salvador Jr. mescola con buon equilibrio cultura popolare e suggestioni del cinema occidentale, conquistando attenzione alla Mostra del Cinema di Venezia e aprendo la strada percorsa, più tardi, dal menzionato Brocka. Nello stesso periodo, l’interprete-produttore Manuel Conde sarebbe passato alla regia guadagnandosi il soprannome di “De Mille filippino”, per i suoi prodotti spettacolari. Se solido mestiere e profonda consapevolezza caratterizzano anche le filmografie di Lamberto V. Avellana e Gerardo de León, nomi la cui sterminata filmografia comprende una settantina di titoli ciascuna, non meno rilevante è Eddie Romero, cineasta completo la cui opera si sviluppa in un periodo difficile, che assiste al crollo del System e all’origine d’una severa censura. Se alcune sue fatiche sono attente all’introspezione psicologica o alla rigorosa denuncia, da Ganito Kami Noon, Paano Kayo Ngayon? a Banta ng Kahapon, il sodalizio con Roger Corman innerva la produzione del Paese di un’aura prettamente a stelle e strisce, come testimoniano gli exploitation girati negli States, come Donne in catene, allegoria sui generis della dominazione coloniale subita dal Paese.
Verso gli anni Settanta si sviluppa una forte contestazione contro l’establishment politico-culturale, grazie a prodotti che riescono sapientemente a forzare i limiti imposti dalla censura: da Giappone e Cina giungono modelli d’un cinema che affida alla violenza e all’erotismo il compito di esprimere una discutibile critica alla politica e alla società. Molte pellicole mostrano anche una ricostruzione del tragico periodo che vide l’isola sotto l’influenza del dominio spagnolo e americano, martoriata da colonialismi, repressioni cruente e dittature. Un Paese che affronta catastrofi naturali, invasioni, crisi politico-economiche, governi autoritari e leggi marziali, conflitti interni e rivoluzioni, e ancora pressioni e destabilizzazioni prima di arrivare affannosamente a una stabilità e a una democrazia ch’è oggetto di odierne, pesanti rivisitazioni. La bagarre, va da sé, influenza la cinematografia nazionale e s’arriva alla creazione di un immaginario storico-politico condotto da cineasti che, pur differenti a livello di approccio e sguardo filmico, sono accomunati da notevole sensibilità nell’inscenare le tristi vicende di un Paese affascinante e antico per cultura e folklore. Il cinema è un importante strumento di espressione e rinascita: un mezzo culturale e linguistico fondamentale per riportare e trasformare in immagini la Storia attraverso una profonda analisi geopolitica, in grado pure di sviscerare il rapporto esistenziale, e non solo, che lega il popolo alla terra di appartenenza. Autori diversissimi tra loro, Lino Brocka e Mario O’Hara sono uniti da un profondo rigore etico e da una filmografia che trasuda emozioni e suggestioni, sensibilità e lirismo, figli d’uno sguardo scrupoloso e critico su ciò ch’era ed è divenuta la società filippina, nella propria lenta e faticosa ripresa. L’interesse del primo alle forme della cultura popolare ostenta un desiderio d’innovazione, benché sia nel melodramma che Brocka mostri una compiuta maturità artistica, interpretando con sguardo aperto e curioso il cambiamento, senza sottovalutare la disgregazione di rapporti umani quasi sempre asserviti al sesso e al denaro (vedasi opere come Tinimbang ka ngunit kulang o come Manila in the Claws of Light). Sceneggiatore per Brocka in numerose occasioni, il secondo è maestro del noir, firma di capolavori di genere ma anche di testimonianze d’impegno politico: girato a pochi mesi dall’assassinio di Benigno Aquino Jr., figura di spicco dell’opposizione a Marcos, Hope of the Heart narra le terribili violenze compiute dal regime militare. Nella linea di una continuità col passato s’impone Carlos Siguion-Reyna, anch’egli fedele al mélo e al noir, i cui film sono costituiti da un senso dell’attesa e del tempo dilatato sino allo spasimo: al centro dei suoi apologhi, storie assortite di uomini e donne, sguardi che si sovrappongono, ambienti e situazioni filmati con accurata passione per il dettaglio.
Certo è che, alla stregua di cinematografie “minori” sempre più oggetto d’interesse e riscoperta, la produzione filippina è tornata in auge con una propria insospettabile vitalità per merito di giovani talenti e figli d’arte – a parte Diaz, Brillante Mendoza o Sonny Calvento – il cui cognome basterebbe a dire dell’eredità che tali nomi continuano ad esercitare. Sarebbe un errore poi non menzionare maestranze quali Raya Martin o Gym Lumbera, John Torres o Sherad Anthony Sanchez, sino a Pepe Diokno e Dodo Dayao, oltre a qualche nome della generazione precedente (da Eddie Garcia all’underground Khavn De La Cruz, da Raymond Red a Kidlat Tahimik). Il rischio, se di rischio è lecito parlare, è che questa nuova ondata venga vista come il punto di partenza della cinematografia filippina; non meno certo è infatti che il cinema dell’arcipelago viene da una storia secolare, smarrita nella memoria cinefila ma documentata e rintracciabile – in una parola, viva. Impensabile nominare tutti i registi della produzione: benché non siano state citate figure anch’esse meritevoli (César Gallardo, Gregorio Fernández, Cirio H. Santiago, Ishmael Bernal), che le avrebbero consentito di “risorgere” nell’epoca della prima indipendenza a basso costo, a tutt’oggi le Filippine rappresentano una ben consolidata realtà del panorama filmografico internazionale, riuscendo a conquistare ampie fette di critica e pubblico attraverso riconoscimenti a livello globale. Verrebbe da pensare, forse a torto, che il cinema filippino si sia sviluppato e abbia assunto una precisa fisionomia solo nel terzo millennio, ma la fase odierna non è che l’evoluzione d’una tradizione filmica che ha le proprie radici negli albori della Settima Arte (La Vida de José Rizal di Edward Gross risale al ’12) e che, sebbene a lungo trascurata, resta fondamentale per capire come sarebbe mutato il cinema di questa realtà insulare del Sud-Est asiatico. Cinema che meriterebbe di essere ripensato a prescindere dalla sua attuale dimensione festivaliera. 

Francesco Saverio Marzaduri

Commenti

Post popolari in questo blog

Questione di sguardi

Rovineremo la festa: THE PALACE

Oltre ogni ragionevole dubbio: la parola a Friedkin