Quando la saga (si) “spiezza” in due: CREED II
Quando la saga (si) spiezza in due: Creed II
“Se potessi tornare indietro
Se potessi trovare il modo
Ritirerei queste parole che t’hanno ferito
Se potessi raggiungere le stelle
te le darei tutte
e poi mi ameresti
mi ameresti come facevi”
CHER
Se potessi trovare il modo
Ritirerei queste parole che t’hanno ferito
Se potessi raggiungere le stelle
te le darei tutte
e poi mi ameresti
mi ameresti come facevi”
CHER
Rivedendo
di recente Dragon
– La storia di Bruce Lee,
biopic
datato 1993 e diretto da Rob Cohen, si comprende meglio il segmento
introduttivo in cui la futura star del kung-fu, ancora bimbetto, fa
la conoscenza con lo spettro del dragone indicato nel titolo: una
divinità in veste di guerriero destinata a influenzarne il talento e
a condizionarne l’esistenza, tara ereditaria di antichissima stirpe
e scettro che permette al protagonista, cresciuto, di perpetuare la
tradizione delle origini, consegnando il mito all’immortalità.
Co-sceneggiato, co-prodotto e interpretato da quello Stallone che
aveva lavorato col citato Cohen in Daylight
– Trappola nel tunnel,
il secondo episodio di Creed,
palese riadattamento della serie Rocky,
pare ruotare su uno spunto affine: chi conosce la saga del pugile di
Philadelphia ben sa che nella quarta puntata – la più discutibile
in termini di esito e messaggio ideologico – il bramoso Apollo
sfidava il mastodontico Ivan Drago finendone ucciso. Sotto l’egida
d’un cinema che da sempre fa del mélo
il proprio strumento, ricattatorio ma vincente, è inevitabile che il
rampollo di casa Creed, Adonis Johnson, scelga di affrontare il
rampollo di casa Drago, spinto da orgoglio consanguineo e dalla
volontà di vincere la sfida persa dal babbo. Nella pellicola di
trentaquattro anni prima, però, Rocky riportava a casa la cintura di
campione mondiale dei massimi in pieno fervore revanscista, nel pieno
di un’epoca conflittuale in cui i rapporti fra Stati Uniti e URSS
erano ancora caldi. È quasi un peccato che Creed
II non
replichi il colpaccio nell’era di Trump, forse perché troppi
sarebbero gli avversari da abbattere, e una vittoria a stelle e
strisce – benché prevedibile – sarebbe propaganda zozza. Si
ripiega, dunque, su una voglia di vincere dettata da orgoglio
afroamericano, accentuato dall’introduzione di un nuovo
personaggio: il figlio del trainer di Apollo, “Little Duke”
Evers, neo-allenatore di Adonis dopo il rifiuto di Rocky. E a
ribadire il concetto pensa la recente interpretazione dello stesso
Michael B. Jordan in Black
Panther,
diretto dall’autore del primo Creed
e qui produttore esecutivo. Dalla parte dei russi, del resto, la
situazione non è granché dissimile: il desiderio di Viktor di
battere il rivale è animato da quella rabbia e quell’odio che
accompagnano il genitore da tempo, poiché dopo la sconfitta – come
dice un invecchiato Dolph Lundgren a Rocky incontrandolo nel suo
ristorante – ha perduto stima, moglie, nomea. La ragione del
giovane, più semplicemente, sta nel tentativo di riscatto agli occhi
d’una madre assente e anaffettiva: vedere, per credere, la
stucchevole scena della cena con gli oligarchi russi in cui, mentre
Viktor riceve in omaggio i pantaloncini che furono del padre,
rispunta un’algida (e plastificata) Brigitte Nielsen, nella realtà
ex signora Stallone. Per sapere in che misura i rapporti tra
generazioni contino in un conflitto che tempo, storia e mito hanno
ormai archiviato, occorre attendere la resa dei conti finale.
Contentiamoci di dire come l’ingrediente dell’amore
paterno-filiale sia il quid
teso
a rinverdire la vicenda in un confronto col passato, il vero grande
match con sé stessi e i propri trascorsi, e suoni come il primario
obiettivo dell’intera operazione: sarà sufficiente ricordare la
visita di Adonis alla tomba del padre, occasione per il protagonista
di mostrare la bimba natagli nel frattempo, alternata a quella
dell’anziano Rocky al figlio dopo anni, durante la quale conosce il
nipotino. Senza contare che l’ambizione del giovane Creed deve
vedersela col senso di responsabilità che il legame familiare, nella
propria ineludibile caducità, gli impone: misto a dolore e vergogna,
lo smarrimento di Adonis è restituito dal fotogramma in cui il suo
corpo, sospeso tra il fondo della piscina e la superficie durante
un’immersione, è contrappuntato dal suono alterato delle voci
della madre e della fidanzata. Detto ciò, se squadra che vince non
(si) cambia, non sarebbe onesto non affermare che questo nuovo
episodio è una miscela di luoghi canonici, ripetizioni, stereotipi
ampiamente noti agli aficionados
della saga, tant’è che l’anonima firma di Steven Caple Jr.
assembla situazioni di Rocky
IV e
altre puntate, obbligando l’ex campione di Philadelphia – va da
sé – a cimentarsi nel ruolo di allenatore come già con Apollo.
Lontani i tempi in cui messaggi edificanti (“Se io posso cambiare e
voi potete cambiare, tutto il mondo può cambiare”) costituivano la
chiave retorico-patriottarda d’un momento: se ci si abbandona al
gioco, presto s’intuisce l’elementarità della morale; come pure
l’azzardo nella restituzione d’un déjà
vu
(la preparazione in Messico in luogo di quello nella steppa) in cui
si rimescola costantemente il mazzo, perfino in un’era dove le
battute a effetto non bastano a sopperire le tecniche del digitale
postmoderno. Un capitolo a parte meriterebbe il binomio sport-show
biz,
che Apollo dominava sulla falsariga di Muhammad Ali (come peraltro
accentua un dialogo che omaggia lo storico Rumble
in the Jungle),
mentre la puntata in oggetto impiega il rap – altra nota espressione afroamericana – a mo’
d’accompagnamento sonoro, in luogo del desueto inno nazionale per
l’entrata sul ring del Nostro, intonato dalla compagna non udente.
E anche se la serie potrebbe chiudersi qui, ecco qualche nuovo
innesto (la presunta sordità della neonata di Adonis) a suggerire
che un terzo capitolo – riteniamoci avvisati – è dietro
l’angolo.
Francesco Saverio Marzaduri
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