Canzoni stonate: SONG TO SONG

Canzoni stonate: Song to Song 


Una ragione dovrà esserci se Song to Song, nono lungometraggio di Terrence Malick, non ha riscosso larghi consensi al botteghino, benché la presenza di nomi importanti – Michael Fassbender, Ryan Gosling, Rooney Mara, Natalie Portman, Cate Blanchett – potesse far presumere il contrario. Si aggiunga che, come altre volte è capitato (pensiamo solo a Knight of Cups, uscito pochi mesi prima), quest’ultimo lavoro ha ancor più ristretto la cerchia di un cineasta noto per la sua enigmatica invisibilità, la cui dichiarata scelta di relegarsi ai margini del System fa il paio con una cifra stilistica spiazzante – fotogrammi flou ai limiti del patinato, impiego reiterante ed ossessivo di voci off, uso della cinepresa asimmetrico e destabilizzante. Stilemi di un autore ormai focalizzato su un’insistita ricerca del mistico, che non teme più di azzardare con altezze vertiginose o accesi contrasti cromatici, fattori iconografici tesi a disorientare lo spettatore in un intricato dedalo narrativo, scandito da improvvisi passaggi di discorso, diretto e indiretto. Ma ciò che in The Tree of Life fungeva da ingresso per un oggetto analiticamente insolito dal punto di vista cinematografico, e nell’ancor meno compreso To the Wonder era ribadito quale spiazzante concezione, in Song to Song si pone come una meta da raggiungere. Chiusura di un cerchio (e punto di non ritorno) lungo un percorso a tappe biennali che, per un autore così poco prolifico, suggerisce l’idea di una peculiarità calcolata. Se in To the Wonder il dilemma della Fede, incarnato in un sacerdote in crisi, si specchiava nella dissoluzione sentimentale di una giovane coppia, laddove in Knight of Cups il campo esistenziale si restringeva nei tormenti personali e professionali di uno sceneggiatore, in Song to Song l’inquietudine interiore trova nuove manifestazioni nella sfera musicale. Ma nulla cambia, per Malick. L’utopia di un “altro mondo al di fuori di questo” teorizzata dal soldato Witt, si scontra con la desolazione morale di chi, come il produttore discografico Fassbender, immortalato in immagini volutamente pantografate – a mo’ di appropriata copertina per chi non sa rinunciarvi – si serve di sogni e illusioni per sentirsi vivo. Perché tutto risplenda, e un’allegorica palma fiorisca in un’isola contaminata, ci si può solo adeguare, come il paroliere Gosling, a una modesta esistenza da operaio che odora di New Hollywood anni Settanta (la medesima da cui anche il regista de La rabbia giovane discende). La frenesia del “nuovo mondo” continentale, che già civilizzava e trasformava i nativi, è un quid troppo prevaricante e divorante per poter godere dei suoi frutti. E le apparizioni di qualche sex symbol dei precedenti decenni, come un declinante Val Kilmer, sono la bolsa effigie di ciò che furono, parodie à la Ozzy Osbourne. Della lezione nordamericana, nazionale e culturale, si può solo preservarne la saggia, livida memoria: chi, espropriato da radici inquinate da showbiz e mercimonio, comprende che lo spettacolo impone costi esorbitanti in termini di esistenza e sentimenti, ricerca nel Verbo degli sciamani del rock il senso di un’inestimabile preziosità (ovvero la normalità). Così, le parole di una segnata Patti Smith delineano una purezza orizzontale che contrasta coi flussi di coscienza di figure sospese in un vuoto verticale vertiginoso, ove la caduta libera è in costante agguato e a farne le spese sono le figure più ingenue, dalla cameriera Portman alla madre di lei, una rediviva Holly Hunter. In Song to Song la sottile linea rossa contrassegna l’implosione di un ambiente squallido, per poter risalire a quella superficie di estasi che l’immagine finale, coi due protagonisti fotografati al tramonto in amorosa sublimazione, eleva a un ritrovato Paradiso. Per conseguire il quale, come in una cantica dantesca, lo spettatore attraversa un girone costituito da bolge suadenti e catramate, con tutte le implicazioni tragiche che di quest’ultimo capitolo fanno l’anello mancante per definire l’albero della vita. Ramificazioni che, dell’opera di Malick, costituiscono una dissertazione filosofica, seminale, di non facile comprensione e di ancor meno cristallina empatia. Eppure unica. Eppure controversa. 

Francesco Saverio Marzaduri

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