Conflitto di classe: IL CASO KERENES

Conflitto di classe: Il caso Kerenes 


Pozitia copilului, recita il titolo originale. Che significa “posizione”, o punto di vista, “del figlio”. E il figlio in oggetto, tale Barbu (Bogdan Dumitrache), è da iscriversi nella ricca casistica di giovani irrequieti che del cinema romeno degli ultimi vent’anni è tema tra i più assidui. Ma, a differenza dei figli “post-dicembristi”, questo Barbu presenta più che altro parentele coi giovani di una classe sociale più privilegiata, quella abbozzata in alcuni illustri esempi (si pensi al fidanzato della protagonista di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni), ma sempre accennata senza supplementi d’indagine. E anziché un dolente segmento storico, a gravare sulla consapevolezza del giovane è un rapporto d’odio, sfociante in un feroce conflitto, con la figura materna. 
Il rancore lo attanaglia, lo avvelena al punto da compromettere la relazione con la famiglia che si è costruito (la compagna Carmen e la figlioletta di lei, avuta da precedente unione). Dagli atteggiamenti e dalle parole che usa, s’intuiscono i seri problemi personali che serpeggiano in lui. L’incidente che fa detonare l’impianto narrativo è provocato da una costante impazienza mista a rabbia, da oppressione e da impotenza, da una miscela instabile pronta a innescare conflitti con chiunque e in qualunque occasione. A causa di un sorpasso, reso ancor più pericoloso dalla volontà dell’altro conducente di non farsi superare, Barbu accelera oltre i limiti di sicurezza e finisce per falciare un ragazzino, un quattordicenne di cui spezza la giovinezza in boccio, quella che invece lui ha vissuto nel privilegio senza rendersene conto, in un clima familiare che lo ha viziato sino a corromperlo. 
Barbu appartiene a una sfera sociale sempre disponibile a scaricare le conseguenze del proprio stile di vita sulle classi meno fortunate, e pronta sempre a ricominciare, come evidenzia l’epilogo. La posizione del figlio è in sostanza il point of view di un tizio la cui dubbia moralità induce al rifiuto di ogni figura o modalità di riferimento, anche affettivo. In particolare verso la madre, Cornelia (Luminița Gheorghiu), che insulta pesantemente e la cui generazione, dice, quella di lei, del padre (Florin Zamfirescu) e della zia (Natașa Raab), dovrebbe già essere scomparsa. Non desidera niente da lei: rifiuta di leggere i libri che riceve in dono, rifiuta il cibo che gli prepara e le medicine che gli offre. Non ammette neppure di essere toccato, anche perché afflitto – lo si scoprirà – da problemi psicologici che gli rendono intollerabile il contatto fisico degli altri. Nel sottofinale però, sia pure con poca convinzione, tenderà la mano a Cornelia concedendole in extremis un possibile riavvicinamento, a condizione che lei non lo cerchi ma sia lui a farlo. Conseguenze penose, che potrebbero rovinare l’esistenza del giovanotto, sono insabbiate dal parentado senza che quest’ultimo voglia prender parte alla macchinazione o miri a sventarla. Il punto di vista di Barbu, svelato nel corso di una riunione in famiglia, è privo di reale senso di responsabilità, da figlio di papà viziato e codardo, timoroso delle circostanze che potrebbero scaturire. 
Meschina figura incapace di qualunque posizione, Barbu non sa e non vuole liberarsi dell’appartenenza a tale agiata sfera: dopo l’incidente, sia pure per poco, torna all’ovile e riprende persino a farsi accudire dalla madre, permettendole di massaggiargli la schiena, tumefatta dalle botte dei parenti del ragazzino. Il giorno dopo, però, ha di nuovo la solita aria indolente e infastidita, benché l’idea di rinunciare agli agi e ai comfort abituali e a tutti gli status symbol d’una moderna comodità non lo sfiori proprio. Chiede a Cornelia di acquistargli un medicinale contro la sinusite, lei gliene prende uno più costoso che però non è quello richiesto, e lui glielo getta addosso. È proprio con la sua incapacità a staccarsi da quel mondo che Barbu offre, involontariamente o no, un alibi alla madre, inducendola a perseverare nei suoi atteggiamenti e continuare a ficcanasare nella vita del giovane. Alibi che le permetterebbe di gestirne l’esistenza e tutto ciò che comprende, dalla casa dove si reca di soppiatto per riprendersi libri e indumenti regalati al figlio e da questi mai spacchettati, sino alla nuova famiglia di lui (vedi l’ordine imposto a Carmen dalla “suocera” di smettere di fumare, affinché Barbu la prenda d’esempio). 
Figure come Barbu si scoprono incapaci di trovare una soluzione alternativa per uscire dal passato e sfuggire alla trappola della potestà familiare, vuoi perché impossibilitati a studiare una strategia, vuoi perché la realtà, trascorsa sino a quel momento, simbolicamente li condanna a vedere come unico rifugio l’esser figli di qualcuno. Nella scena conclusiva, accompagnato dalla madre e dalla compagna Carmen (Ilinca Goia), il giovane si reca al villaggio ove dimorano i genitori del ragazzino ucciso, allo scopo di parlare con loro e offrirsi di pagare i funerali. Qui però preferisce non scendere dalla macchina, e a parlare per lui è Cornelia; che dopo aver ascoltato lo straziante sfogo dei padroni di casa, in lacrime, li supplica di non costituirsi parte civile e di perdonare l’unico figlio che ha. Prima di andare via, Barbu decide di scendere e incontrare il padre della vittima: l’immagine è ripresa dall’interno della vettura, in modo che lo sguardo della m.d.p. coincida con quello di Cornelia e di Carmen (e dello spettatore) mentre in quinta a sinistra, in profondità di campo, il giovane è colto a capo chino mentre stringe, titubante, la mano al padre del ragazzino. È un gesto ambiguo giacché la famiglia, inizialmente controvoglia, accetta i 10.000 € offerti da Cornelia come indennizzo. La stessa ambiguità, intesa quale paravento di convenienza, si rivela il principale escamotage mediante il quale interpretare una vicenda, dall’inizio alla fine, sospesa sul filo della dicotomia. 
Una famiglia è stata distrutta. Un’altra famiglia, quella che ne ha causato il lutto, ritroverà magari la serenità. Non si esclude una possibile redenzione. La fine di qualcuno privo di colpa è l’inizio di qualcun altro non esente da colpe, che disponendo di denaro e potere riesce a farla franca. Nell’uno e nell’altro caso a pagare, o a soccombere, sono i figli: meravigliose creature – parafrasando il brano della Nannini incluso nella colonna sonora – condannate a vivere un’esistenza di cui non sempre, e non tutti, sono responsabili. E se, pur di salvarli, c’è chi si affida alla corruzione quale soluzione vantaggiosa, c’è anche chi, non disponendo d’una simile risorsa, i figli li seppellisce. Il confronto tra classi è dietro l’angolo: ma ai benestanti è offerta per primi la possibilità di parlare ed essere interrogati, togliendola a chi ne dovrebbe disporre come lecito (come nella scena dei parenti della vittima a cui i poliziotti si rivolgono in tono seccato e sprezzante). 
Il Barbu de Il caso Kerenes – questo il titolo italiano del film, pluripremiato al 63° Festival di Berlino – è uno studente di chimica sui trent’anni, mantenuto dai genitori. Questo apprende lo spettatore dalle parole di Cornelia, e, sebbene guidi un’automobile di pregio, si presenta trasandato e indossa roba da poco. Un’anima divisa in due. Un’anima solitaria. Viceversa, dietro il paravento di un atipico noir, tra quei generi cinematografici a lungo boicottati dal regime, il film è soprattutto il ritratto di una donna: Cornelia. Colta, raffinata, sempre elegante, laureata in architettura e, di professione, scenografa teatrale. Ama i ristoranti di lusso e le feste sontuose, dove si lascia andare all’euforia delle danze. Soprattutto, una madre. I primi minuti de Il caso Kerenes la immortalano come una donna animata dalla smania di riallacciare col figlio, disperata nel non riuscire nell’intento quasi non si rendesse conto (e in realtà ignorando di accettare) che il giovane la detesta. Il ruolo maschile è ridotto a poca cosa: il marito di Cornelia è un anziano medico di fama, la cui potestà – gli fa notare Barbu in un acceso confronto a quattro – è azzerata dalla moglie. 
Si accennava come la dicotomia, pattern ricorrente in una folta casistica di titoli romeni, nella pellicola di Netzer funga da chiave di lettura dominante: in apparenza vittima del figlio, Cornelia è dramatis persona che sa quel che vuole e come ottenerlo, mediante prestigio sociale e denaro – fattori attraverso i quali godere d’un motore d’azione volto a renderla influente e potente. Se poi la medesima ambiguità è elemento dicotomico, allora Cornelia è il personaggio ambiguo per antonomasia: sempre nell’excipit, nel sorprenderla in lacrime lo spettatore non può far a meno di domandarsi se stia simulando nell’estremo tentativo di salvare il figlio, o se davvero colpita dalla sofferenza degli ospiti. Pure, si fa luce un’impressione di commozione personale, all’inizio apparente, che poco a poco si fa reale doglianza: la donna ricorda l’infanzia del proprio bambino, così ricca di quelle delicatezze e di quegli affetti nei suoi confronti che si fatica a credere possano essere avvenute – in perfetta sintonia con la famigerata “Età dell’oro”, di fatto mai esistita, che di aureo ha solo il nome. 
È per amore di madre che Cornelia si allea perfino con chi ritiene responsabile del freddo atteggiamento del figlio, e prima di allora snobba e umilia in continuazione. Se dapprincipio Cornelia cerca in Carmen un’alleata per convincere Barbu a recarsi dai genitori della vittima, man mano che il dialogo si dipana a cuore aperto, il rapporto con la “nuora” si fa amichevole e complice. Sicché la prima, durante la visita al villaggio, decide di presentare la seconda come sua amica. Non meno bifronte è il personaggio di Carmen: da un lato mette al corrente la “suocera” circa la comune decisione di separarsi, e dall’altro punta a rimanere nell’appartamento, corredato d’ogni comfort, del quale la stessa Cornelia paga l’affitto. Adduce la figlioletta come pretesto, affermando di voler restare per il bene di quest’ultima (è molto affezionata al patrigno, le sentiamo dire). Sin da piccoli, proprio perché imberbi e innocenti, i figli sono immolati sull’ara del grado sociale dietro il paravento dell’affetto materno, senza colpa né possibilità di ribellione. Non sfugge che Carmen, convivendo con Barbu, abbia mutato la propria estrazione: salvo che questa, durante la visita alla famiglia del ragazzino ucciso, risulta utile a Cornelia (pochi istanti prima, la giovane le suggerisce di esprimersi con una formula religiosa, anziché con un saluto convenzionale). 
Il futuro dell’attuale Romania è – e sarà sempre – comprato dal Potere, messo a tacere dalla corruzione. A far da contrappunto è l’arroganza, palese strumento di sopraffazione tramite il quale, forte dell’autorità materna di cui si sente inorgoglita, Cornelia si serve per ricondurre chi è nel suo raggio d’azione a un ordine, ben sapendo come riportarcelo e facendo leva sulle fragilità, i deboli caratteri, le inesperienze di chi più giovane di lei. Non si spiegherebbe altrimenti il ruolo, dirompente anche per gli ufficiali di polizia, assunto dalla donna quando interferisce nel loro operato, affinché il figlio non esca ulteriormente compromesso. L’innata indole prevaricatrice, cui denaro e conoscenze altolocate fungono da comodo supporto, le consente di ribaltare la situazione e scalzare gli agenti (uno di loro non si fa scrupolo di domandarle un favore, circa un problema edilizio in cui è coinvolto un parente). Persino l’inflessibile poliziotta (Cerasela Iosifescu), che poche ore prima incalzava Barbu a raccontare la verità, consiglia a Cornelia, in tono più mite, di accollarsi le spese per il funerale del ragazzino. 
Denaro e potere. Prevaricazione e tracotanza. Le analogie che accostano la Romania all’Italia appaiono molto più vicine di quanto si è disposti a credere. Si potrebbe, d’altra parte, collocare l’ambientazione de Il caso Kerenes in una qualsiasi altra capitale d’Europa, dati gli evidenti segni della globalizzazione – dalle costose vetture agli appartamenti arredati con stile ed eleganza, dalle ville sontuose ai prodotti d’importazione (persino la piccola vittima dell’incidente possiede un telefonino). Sino ad arrivare alla verità psicologica di ciascun personaggio: si prendano Barbu e Carmen, accostabili, per la paura di (non saper) vivere, a numerose tipologie di giovani disadattati europei confusi e/o senza meta. Come europee paiono essere le figure femminili, incapaci di accettare che i propri rampolli sappiano costruirsi un avvenire e, altresì, desiderose di chiuderli nel proprio alveo. 

Francesco Saverio Marzaduri

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