L’ombra del dubbio: ZONA D’OMBRA – UNA SCOMODA VERITÀ

Lombra del dubbio: Zona dombra Una scomoda verità 


C’è del buono. Con tale definizione l’autorevole rivista “Segnocinema” usava indicare, nei propri pagellini, quelle pellicole dotate di un’impronta suggestiva, o comunque interessante, nonostante la fragilità dell’esito. Nel caso in esame, verrebbe da dire “c’è del buono” dopo la visione di un prodotto come Zona d’ombra – Una scomoda verità, che le anteprime, nell’inverno 2016, annunciavano come un atipico thriller, senza venir meno a risvolti indagatori e pervaso, qua e là, di venature fantapolitiche. 
Beninteso: la visione del film diretto da Peter Landesman non delude le aspettative, anche se solo in parte. Sfaccettature fantapolitiche non ne reca, ma un’indagine sì: e la vera novità in un simile prodotto, benché non sia chiaro se si tratti di un difetto o di una qualità, consiste nel non saper bene in che direzione condurre un intreccio thrilling a sfondo sportivo. Si rischia persino qualche difficoltà quando il discorso si vela di sfumature psicologiche, nella fattispecie inerenti la figura principale: un patologo afroamericano, visibilmente ingenuo e non particolarmente esperto su usi e costumi dell’American Way of Life, determinato tuttavia a far luce su un caso, proprio di questi tempi tornato attualissimo. Ovvero, la scoperta di una malattia degenerativa del cervello (l’encefalopatia cronica traumatica) che colpiva i giocatori di football vittime di ripetuti traumi al capo. Durante la propria testarda ricerca, il medico tenta di smantellare lo status quo dell’ambiente sportivo che, per ovvi interessi economici (e politici), mette consapevolmente a repentaglio la salute degli atleti. 
Lo spunto sarebbe suggestivo, e in un certo senso mostra di esserlo nella resa scenica, perché gli ingredienti per apparire qualcosa di diverso dagli usuali gialli ad inchiesta, in Zona d’ombra, ci sarebbero: tali però da avvincere un pubblico che si contenta di prodotti simil-televisivi, e comunque è lecito aspettarsi di più dalla media confezione. Dove sta il difetto? Ciò che potrebbe essere una virtù, almeno nella prima metà, si stempera ben presto in un’indecisione del regista-sceneggiatore, tra il dire quanto più possibile su una storia buia (paradossalmente, una parentesi nuova per l’osservatore non americano), e al contempo il seguire ogni singola traccia d’azione del solitario protagonista. Il che finisce col dissipare ineludibilmente ogni originaria intenzione giallistica, e ci si trova di fronte all’ennesimo (superfluo?) biopic su un altro eroe dei nostri tempi. 
Distribuito in un momento particolarmente caldo della politica americana, in cui partito repubblicano e democratico giungono a un palpitante showdown come non accadeva dallo scontro Bush-Clinton, Zona d’ombra si può riporre in tutta tranquillità nel novero di quei recenti lavori che, mirando alla ricerca di una verità rischiosa quando non scomoda, ripropongono la formula che mescola l’inchiesta alla denuncia. Nella più parte dei casi la prima anticipa la seconda, giacché è più interessante il rischioso sforzo per individuare e produrre prove tangibili che suonino come un monito d’allarme; e visto che siamo in America, almeno al cinema, che tali prove s’impongano come una rivincita della giustizia sul marciume. La vicenda è sempre quella, neanche troppo in camuffa, di Davide contro Golia, tanto più che il protagonista è un religioso (ed è sua una battuta memorabile che contrappone lo sport alla religione): ma a dispetto degli altrettanto recenti Il caso Spotlight e Truth (di cui Il prezzo della verità, non a caso, era il sottotitolo italiano), non è un cronista l’eroe probo e onesto, ostinato nel proprio desiderio di far luce sulle emicranie che affliggono, e uccidono, alcune leggende del football. E il fatto che Zona d’ombra ambisca a equipararsi a un certo cinema d’impegno – intellettualmente utile quanto non necessario, come mostra l’opera in questione – lo prova la scelta di un medico intriso di candore e genuino idealismo, che ne fa un Forrest Gump di disarmante sincerità, molto meno allocco del prototipo. Si aggiunga che l’eroe è di quella carnagione scura divenuta abitudine nelle pellicole statunitensi liberal degli anni Sessanta, che in Sidney Poitier trovavano l’eponima icona. 
Questo lavoro di Landesman, già cimentatosi nel film-inchiesta con Parkland sull’omicidio Kennedy, segue le mosse del dottor Bennet Omalu – nigeriano emigrato a Pittsburgh, ancora non integrato con l’America e con le sue passioni e contraddizioni – in un pellegrinaggio sempre più pericoloso, e con ostilità crescenti che lui affronta sempre col sorriso sulle labbra. C’è chi lo considera un suonato, perché parla con le salme suscitando l’ilarità di chi gli è intorno, senza che questi comprendano (e d’altronde neppure vogliano comprendere) il motivo di tale modus operandi. Bennet è una creatura che farebbe la gioia della politique spielbergiana, benefico alieno in un’area inquietante e sinistra, anch’egli portavoce di una missione salvifica (“celestiale”, oseremmo dire), come suggerisce la scelta di pagare di tasca propria alcuni costosi esami, indispensabili per la ricerca. La scelta di un divo new age quale Will Smith, in una parte che calzerebbe a pennello per il bianco Tom Hanks, è studiata allo scopo di proseguire la gamma di eroi alle prese col perenne compito di salvare il pianeta, che da Independence Day a Men in Black, passando per Io sono leggenda, Hancock o i lavori americani di Muccino (e tra gli eroi realmente esistiti non si può non ricordare Muhammad Ali), hanno fatto dell’interprete afroamericano un’icona carismatica ed edificante. È l’accattivante simpatia di Smith – e non potrebbe essere altrimenti – a consentire allo spettatore di seguirne impacci e ostacoli, caparbietà e volontà, forza e coraggio, per approdare alla scoperta della “concussione” del titolo originale, la commozione cerebrale. Dal canto proprio, Landesman tende spesso a inquadrare l’attore “stringendo” la cinecamera, abbondando in primi piani sui suoi sguardi, sui dettagli degli occhi neri e penetranti, e confezionando quello ch’è un film cucito su misura. Perché prima di essere una vicenda di cronaca medica e sportiva, il film è la storia della battaglia personale, professionale e sociale di un emarginato: l’altro binario del racconto, infatti, è la lotta di Omalu per diventare cittadino di un Paese che ama senza esserne, al momento, riamato. 
La prima parte, che contempla il solito risvolto sentimentale per il protagonista (e l’anima gemella, pure, è una nigeriana “fuori dal mondo”), mantiene l’indagine con fedeltà scenica, doviziosamente attenta a non tradire sfumature thrilling che in più d’un momento ben alimentano il senso di crescente tensione. L’aspetto alquanto inusuale risiede nell’alternanza di inserti cronachistico-sportivi (si pensi ai titoli in apertura) tesi a restituire un’impronta documentaristica in cui retorica agonistica e climax patriottardo se la vedono con la propria labilità, smascherata dalla denuncia di zone d’ombra, cui si riferisce il titolo italiano, accuratamente celate. Nondimeno, forse per indecisione nel tener desta l’attenzione del pubblico, l’opera di Landesman si arena a un dubbio che dalla seconda parte si estende sino alla conclusione: il timore di non voler andare fino in fondo, quando molti pezzi del mosaico sono disposti in modo da permettere una visione del problema tutto sommato chiara. 
Così, quando la narrazione presenta episodi in cui il Potere ritorce contro sé stesso la macchinazione (e perfino qualche importante nome della politica rimane stritolato), il dipanarsi di Landesman nelle trame dell’inchiesta si alterna in modo frammentario alle scottanti scoperte di Bennet e al privato di questi, sino a coinvolgere – va da sé – anche coloro che gli sono a fianco. L’ordinaria amministrazione non si fa attendere, e fattori quali le minacce, le intimidazioni, i ripetuti stalking e le omertà, dopo che il patologo pubblica un articolo contro la National Football League, rientrano nello standard ormai abusato del genere. Né si omette un senso di paranoia, dapprincipio sottile e via via palpitante, quando la moglie di Omalu teme di essere pedinata a mo’ di avvertimento da chi vorrebbe far tacere la questione. Tutti espedienti collaudati, funzionali all’operazione e calcolati per far sì che lo spettatore non si rilasci allo sbadiglio, il che invece accade: ciò, inevitabile, va a scapito di un’organica omogeneità, scissa tra la voglia di denunciare una torbida parentesi di storia americana recente (di cui il film costituisce il primo capitolo, senza strillare nulla di nuovo nello spettacolo a effetto) e il disegno, psicologico e risoluto del personaggio principale. Il fatto che tante persone coinvolte nello scandalo decidano, benché di nascosto, di collaborare con Bennet o di dargli qualche dritta, ben si allinea con la scelta del classico happy ending anche per un thriller dai contorni tutt’altro che colmi di speranza. 
Ebbene sì: il candido e niente affatto ingenuo ottimismo del protagonista – pervicace come centomila altre figure mitiche della storia nordamericana – è l’essenziale ragione d’interesse (e della parziale riuscita) di Zona d’ombra, nel quale fanno capolino tanti volti noti (Alec Baldwin, Albert Brooks, Arliss Howard, David Morse, Paul Reiser). Il suo puntare il dito verso i responsabili, pacato e tenace, affinché dicano la verità per il bene dell’America entro una cornice idealista e politically correct, fa il paio col bizzarro tentativo di spiegare il football, lui che non conosce affatto le abitudini a stelle e strisce, agli squali dell’istituzione meravigliati dalle sue maniere catechizzanti. E al termine di tutto, consapevole che la (sua) battaglia non è ancora terminata, lo vediamo assistere a una partita di football giocata, in modo anche violento, da alcuni ragazzi: perché il lato agonistico della cosa è parte della cultura sociale del Paese, e ha radici profondamente americane che lui intende far proprie. In un compitino ben confezionato, che assortisce temi studiatamente ammiccanti quanto logori (il conflitto d’interessi, il self made man, gli States come terra delle opportunità…), Zona d’ombra non si esime dalla considerazione che, se l’American Dream è possibile a volte, è il Fato a permetterne la realizzazione. Altro irrinunciabile topos, le didascalie conclusive che informano circa la sorte del patologo, accolto positivamente solo molto dopo, quando una vittima donò per testamento il cervello alla scienza: questo permise di effettuare ulteriori studi e addirittura spalancò a Omalu le porte della Casa Bianca, quale patologo forense dell’America. Di nuovo, l’America e le sue contraddizioni misurate con la persistente necessità d’inventarsi (e aggrapparsi a) nuovi miti: ma ce n’è ancora bisogno? 

Francesco Saverio Marzaduri

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