Quella sporca ultima meta: DUNKIRK

Quella sporca ultima meta: Dunkirk 


I tamtam mediatici sono duri a morire. A testimoniarlo, negli ultimi tempi, il dubbio se l’ultimo film di Sofia Coppola fosse degno o meno del suo tentativo di rifare Don Siegel o, cosa più probabile, di prenderlo solo in prestito per proseguire un discorso personale. E più intenso è stato il coro di voci per il sequel di Blade Runner: quanto e se fedele allo spirito, solo il tempo lo dirà. Decimo lungometraggio dell’inglese Christopher Nolan, sull’epica evacuazione militare dell’ultimo conflitto mondiale, Dunkirk è un magniloquente spettacolo, almeno se lo si guarda come puro intrattenimento. Dopodiché, si può condividere l’opinione di chi afferma che l’autore di Inception e di Interstellar abbia dato il suo meglio in precedenti occasioni, e in quest’ultimo lavoro si sceglie un paradigma narrativo che, nell’ambito della ricostruzione storica, non si discosta dai noti cliché di genere bellico. Né qualche voce illustre della critica, da par suo, ha perso occasione per l’ennesimo parere dissonante, asserendo che la messinscena di topoi già visti in pellicole dimenticate, meno note e più sincere, si coniuga all’errore dell’ambizione, e sconfini in quella tracotanza insita già nell’anglofona storpiatura della spiaggia che intitola il film. 
Lungi dal fomentare la polemica: ne risentirebbe lo scopo all’origine, stritolato dall’ineffabile macchina pubblicitaria. Dunkirk è apparso a chi scrive un match agonistico vestito da prodotto di genere, con tutti i crismi, pregi, limiti che i film di guerra restituiscono in stile patriottico. Lo comprova la figura di un uomo di mezz’età al timone di un’imbarcazione da diporto, atta a soccorrere le migliaia di ragazzi allo sbaraglio; aiutato dal figlio e da un amico di questi in cerca dell’atto eroico di una vita irriconoscente, l’uomo non arretra a fronte di un gesto da cui dipende l’esistenza di qualcuno. Si può convenire con gli aficionados di Nolan nell’affermare che altrove il suo talento si mostra con maggior incisività. Ma non si può negare che il mix di ingredienti arrivi allo scopo, meticolosamente studiato secondo unità narrative che s’intersecano, seguendo uno sviluppo volutamente non lineare, si tratti di una colonna musicale roboante o di una temporalità scandita dalle didascalie a inizio film, ch’è la bussola d’orientamento per un’estenuante posta in gioco. Dalla vasta spiaggia francese al lungo molo nell’oceano, terra, mare e cielo fungono da location complementari e convergenti: stratificazioni di una gigantesca scacchiera volta a permettere, a chi vi si trova invischiato, di resistere a un nemico invisibile ma presente. Un’ora è il tempo di volo dei caccia inglesi che devono arrivare sul posto, sperando che il poco carburante a disposizione lo renda possibile; una giornata è l’arco in cui la barca compie il suo tragitto, e una settimana la durata storica dell’evento. 
Al centro si distingue la figura di un soldatino, Tommy, una faccia che ricorda quella di un giovane Tom Courtenay, la cui funzione è quasi sempre di spartiacque teso a sedare l’incessante climax di paranoia insinuatosi tra i compagni (nello scafo che li raduna, prima di esser mitragliato da colpi che rischiano di affondarlo, s’insinua il sospetto che un soldato taciturno sia tedesco, e nell’incipit Tommy cerca di farsi riconoscere come inglese e alleato da sospettosi soldati francesi). Primi passi scomposti nelle strade della città sotto il mirino del fuoco, poi in corsa verso la spiaggia, Tommy è una minuscola figura di cui, al pari degli altri, si percepisce appena il nome, mentre i dialoghi malapena si comprendono in un fracasso di bombe e aerei che fomenta la tensione. Chiunque è visto con ostilità, la fobia fa compiere gesti involontari che trasformano la morte in un ennesimo sacrificio destinato alla gloria. 
Totali e campi smisuratamente lunghi si alternano a segmenti in cui spazi ristretti restituiscono l’idea del claustrofobico e dell’oppressivo, comprimendo l’istante, dilatando l’inquietudine, rimescolando le carte ogni volta. Montaggio e suono per i quali non a caso Dunkirk ha vinto l’Oscar – sono i reali protagonisti di un’opera incentrata su un senso dell’attesa di volta in volta crescente, sul tentativo di scampare alla tragedia, reso impervio in qualunque momento da incalcolabili imprevisti (quell’asse di legno tra due imbarcazioni a rischio di spezzarsi, da cui giocoforza transitare per il trasporto di un ferito). E sull’ottimismo non meno ineludibile di chi, attendendo l’arrivo di navi e aerei britannici che sottraggano i superstiti al fuoco tedesco, sino all’ultimo spera che abbia luogo il touchdown: uscire dall’inferno ed essere ricondotti a un’eguale libertà. 
Non si contano i segmenti da cardiopalma, in un action movie sobrio dove non si può non palpitare per un aviatore precipitato in mare col velivolo, che disperatamente tenta di rompere il vetro per non annegare. Il coming home di chi sopravvive dipende dal sacrificio di altri, e se il nemico è reso udibile da colpi incessanti, eccolo appostarsi, sfocato, nei fotogrammi conclusivi, dietro uno degli aviatori inglesi di fronte al motore da lui dato alle fiamme. Al rimpatrio il compito di sancire la temporanea ritirata, salutata da cori di festa, che presto farà degli scampati volti nella folla che la guerra renderà di nuovo indistinguibili. Come Nolan fa coi pochi nomi illustri nel cast, da Kenneth Branagh a Tom Hardy. 

Francesco Saverio Marzaduri

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