Tutto quel fracasso: CANE MANGIA CANE

Tutto quel fracasso: Cane mangia cane 


Non è mai comodo far la conta dei difetti in un film, specie se reca la firma di Paul Schrader. Eppure, lungo i suoi novantré minuti, si ha l’impressione che il romanzo di Edward Bunker, riadattato da Matthew Wilder, conti meno dell’impatto visionario. Complice il montaggio schizofrenico a firma Benjamin Rodriguez Jr., che segue uno straniante modus operandi e alterna stacchi vorticosi a tempi dilatati, tipici dell’estetica trascendentale del cineasta. 
Non molto interessa dell’ennesimo colpo, destinato a finir male, di tre criminali gaglioffi bramosi di sistemarsi. A spiazzare sono le scelte estetiche, anche azzardate, in una mise-en-scène che non nasconde vezzi tarantiniani (Bunker era Mr. Blue ne Le iene…), pur non replicandone l’ironia, o di soluzioni splatter scioccanti solo in superficie. Nell’era del digitale lo spettatore sorride nel seguire la scia di una pallottola e il suo esasperante percorso prima di vederne colpiti gli obiettivi… E il frastuono allucinogeno di immagini e suoni deformati è un escamotage che fa precipitare il film ancor prima che decolli il tessuto narrativo. 
Ancora una volta, però, è tale estetica démodé a fare di Schrader un autore di nicchia. E Cane mangia cane non fa eccezione, figurando come un prodotto inclassificabile a livello di gusto, fermo a un immaginario surclassato – se non morto e sepolto – quanto le sale in disuso che scandivano The Canyons. Schrader è, in qualche modo, assimilabile ai tre balordi del film, Troy, Diesel e Mad Dog: morti vaganti che sembrano la parodia dei malavitosi scorsesiani, e il cui tentativo di vivere un’esistenza normale rimanda a un’altra opera di Bunker, Come una bestia feroce, da cui fu tratto Vigilato speciale. O, in tema di reminiscenze, ai tre operai di Tuta blu che tentavano di rapinare il fondo-cassa della fabbrica. Non a caso, il regista si ritaglia per sé la parte del boss da cui i protagonisti accettano l’incarico. 
Escludendo l’impronta vintage di un film che fa della discontinuità la propria regola, Cane mangia cane riprende anche il leitmotiv dell’espiazione, presente sia nei lontani Affliction o Auto Focus, sia nel più vicino e controverso Il nemico invisibile. Un’espiazione possibile sulla carta, ma non nella realtà delle cose (“Una volta che sei dentro fatichi a uscirne”, chiosa la voce narrante di Troy). Addirittura un’espiazione utopica, se a contemplarla è il sanguinario cocainomane Mad Dog che implora l’amicizia di Diesel (il quale lo ammazza esasperato dalle sue psicopatie), laddove nell’incipit è protagonista di una strage in un quadretto domestico dagli accesi colori camp, degno di John Waters. 
A unire i protagonisti del film, a seguirli e condurli verso una comune fine, provvedono le soluzioni stilistiche: la tendina che scandisce il passaggio da una sequenza all’altra, come in un fumetto fuori tempo massimo, o la fotografia di Alexander Dynan, che fa di Cane mangia cane un provocatorio oggetto pop. E il regista non rinuncia nemmeno a uno j’accuse contro polizia e industria delle armi: nel dibattito televisivo che fa capolino prima ancora dei titoli di testa, nelle battute del gangsta rapper Moon Man (“Hanno licenza di uccidere i fratelli”) o nella scena di tortura ai danni di Troy durante l’arresto. Per concludere con l’uccisione dei due ostaggi di colore, un pastore battista e la moglie, a loro volta detentori di un’arma che non fanno in tempo a usare. E l’impensabile redenzione – prosieguo dell’epilogo de Il nemico invisibile – emerge dal cromatismo rosso fuoco con cui si chiude il film: Troy condanna sé stesso a un eccidio liberatorio che odora d’inferno, in cui rapitore e sequestrati perdono la vita. Ma pure trattandosi di provocazione, nessuno meglio di Schrader sa che anche questa è catarsi. Voluta ad ogni costo. 

Francesco Saverio Marzaduri

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