Alla ricerca dell’innesto perduto: BLADE RUNNER 2049

Alla ricerca dell’innesto perduto: Blade Runner 2049 


Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”
PIER PAOLO PASOLINI, Il Decameron

Non hanno ancora inventato una macchina capace di fissare il sogno prodotto dalla mente, e il giorno che succederà la fantascienza non avrà più significato. Quando il capolavoro di Ridley Scott uscì nel 1982, l’idea di un avvenire tetro come visto in quel film pareva non ammettere ricostruzioni altrettanto cupamente efficaci, e un eventuale sequel di Blade Runner avrebbe rischiato accuse di blasfemia. Sul punto, soprattutto, se il protagonista sia o meno un replicante. Stando alle scelte del regista Villeneuve, non pare giusto dissertare su un’opera che non è un vero sequel, né un calco del prototipo (del resto impossibile). E se nel precedente Arrival una linguista era reclutata dalle forze militari per scoprire se alcune navi aliene avessero o meno intenzioni pacifiche, qui l’autore prosegue il discorso spostando l’interrogativo di Philip K. Dick su cosa sia umano e cosa no.
Anche in questa rilettura (scritta da Michael Green e da quell’Hampton Fancher che già mise mano al primo episodio), i nodi di Prisoners, Sicario e del citato Arrival restano identici: la volontà di mantenere un ordine in un caos ingovernabile, l’incapacità di proteggere i figli da un’escalation frenetica che non fa sconti a nessuno, la progressiva de-umanizzazione di chi è deputato a far piazza pulita. E se la questione-Deckard, umano o no, condiziona pure questa ingigantita versione, Villeneuve opta per il contributo offerto da Fancher, seguendo una linea in cui il dubbio nasce dalla progressiva disumanizzazione di Deckard, e dal fatto che nel testo originale non vi è soluzione. Sicché la storyline si fa rettilinea, e la linea emozionale è quella di un reificato che recupera la propria umanità grazie all’antagonista.
In questo Capitolo Secondo, una macchina capace di elaborare sogni e rivelare la sincerità di un ricordo vissuto è presente nella scena clou, in un film che non rinuncia all’atmosfera hard boiled dell’originale. Non c’è voce narrante a conferire patine noir: nondimeno, l’unilateralità espressiva e i gesti dell’agente K restituiscono la commistione di azione e disincanto in chi – finto umano in un mondo dove è sovversivo essere veri umani – cede a ossessioni e memorie moleste. Villeneuve ne segue l’indagine (individuare un figlio, pena la compromissione del mondo), che rivela un possibile ego interiore. Tale ricerca, a fronte di un antagonista che forse è il proprio padre spirituale, implica informazioni che riportano ai noti quesiti (“Chi sono? Da dove vengo? Quanto mi resta da vivere?”).
Il resto sta allo spettatore, specie se affezionato, scoprirlo: molti sono i pattern sparsi (gli origami, il pianoforte, le proteine genetiche, le aeromobili, l’immancabile babelica megalopoli), come i loro fantasmi e simulacri, a rammentare che Blade Runner 2049 è un prodotto a sé stante. L’impressione della parodia è vanificata dalla riproposta, complice l’inversa prospettiva, di un discorso e un culto tanto maestosi che il continuum di figure e situazioni, entrato nell’immaginario collettivo, suonerebbe altrimenti scorretto. Se poi il futuro messo in scena trentacinque anni fa non fosse stato troppo dissimile dall’odierno presente, potrebbe da qui ripartire verso quello datato 2049, così lucido e scintillante, geometrico e astratto, per trasportarci in una rinascita (e in una catarsi) non difficile da immaginare. Consapevole di questo, Villeneuve gioca con le leggende cinematografiche costruite intorno al mito: lo testimonia la sterminata audio-video-biblioteca in cui Deckard si è rifugiato, mostrata con un’illuminazione che riecheggia l’Overlook Hotel (si ricordi la diceria, non infondata, sull’epilogo di Blade Runner montato con filmati scartati da Kubrick).
Più che replicante, questo nuovo segmento è un nuovo innesto sul nostro ricordo, sul mito e su quanto credevamo di sapere, e in mezzo sta tutto il fantasy in celluloide di oltre un trentennio, da Cameron alla Bigelow, da Verhoeven a Niccol, sino ai Wachowski, per non parlare delle serie televisive. L’agente K gioca con simulacri femminili frutto di avanzate tecnologie (è una pendrive a procurare compagnie sentimentali) e, se il dilemma umano-replicante persevera, anche un “lavoro in pelle” chiede che il feticcio virtuale – già al centro di S1m0ne e di Lei – si amalgami col corpo di una prostituta, e abbia trasporti sessuali con entrambi i doppi. Il sesso è ridotto ad esotici ologrammi che riesumano l’onirismo felliniano nella sembianza più delirante, come a Deckard toccano i nostalgici replicanti-app delle icone che furono, da Liberace a Elvis, da Marilyn a Sinatra. La Los Angeles di Villeneuve eredita la post-Apocalisse di Mad Max, e in quell’acceso cromatismo rosso-fuoco del deserto, più che di Scott, è stretta parente del Tarkovskij di Stalker e di Solaris, mescolando Orwell e Gilliam. Apocalisse dove l’agente K si misura con un quid impensabile: la possibilità di un miracolo, che fa di Blade Runner 2049 un hard boiled biblico. Miracolo che si origina ai piedi di un possibile albero della vita di stampo malickiano (e K è il Ryan Gosling di Song to Song), dal quale potrebbe dipendere la resurrezione dell’umanità.
La memoria dello spettatore, cresciuto nel culto, non si arena alle rimembranze cinematografiche né agli onanismi intellettuali, e tuttavia, in un prodotto di oltre due ore e mezza, lampante è il recupero di un certo immaginario narrativo dopo il disfacimento del pianeta. Gli strati in cui si smembra Los Angeles conducono alla sua estrema e altrettanto plausibile effige nell’area-discarica, in cui K si reca insieme al feticcio virtuale Joi alla ricerca del figlio (ossia dell’innesto) smarrito. Prima d’imbattersi in una fabbrica dove la manodopera grava sulle spalle di dozzine di fanciulli uniformi e calvi, schiavi agli ordini di uno sfruttatore rapper di colore. Forse, la stessa fabbrica in cui il protagonista crede di essersi trovato da ragazzino, inseguito e pestato da bambini senza capelli, per difendere – e all’occorrenza gettare nelle fiamme – una misteriosa statuetta a forma di cavallo, intagliata, chissà, dal citato albero della rinascita (che riporta inoltre al logo della Ladd Company, casa produttrice del primo episodio). Il resto è parente stretto di quel 1984 che è data topica per la narrativa di fantascienza, e dei mondi che si sono creati e qui disgregatisi dopo lunga lotta.
Pertanto Blade Runner 2049 è anche un’opera-innesto sul nostro modo di assimilare-immaginare-giocare con la narrativa cartacea, e a buon bisogno reinterpretarla. L’incontro fra K e l’alter ego Deckard avviene giocoforza in un luogo di cultura semi-abbandonato tra i cromatismi rossastri di un Parnassus sperduto, di vago sapore lynchano: un dedalo deserto e coloratissimo, con un cane forse artificiale e potenziale Cerbero, custode dell’unico edificio presente di un tunnel in cui non è dato sapere dove termini l’Inferno e cominci il Paradiso. Più probabilmente un limbo, ove Deckard, l’immancabile pistola in pugno, sguscia dalla penombra come Kurtz, ponendo a K un quesito che rimanda a Stevenson, e che il secondo – “lavoro in pelle” acculturato come Roy Batty – prontamente indovina rivelando di nuovo una (sovra)umanità riposta. Ancora, la fantascienza di cui il film di Villeneuve è appropriato sunto, indispensabile per il nuovo millennio, non allontana la freddezza di un oggidì sinistro, ostile e inquietante, in cui impera ineluttabile il non-umano. Si prenda il timbro vocale automatico del test di riconoscimento cui ogni volta K è sottoposto, ridondante e opprimente, quintessenza non solo di un universo spia ma anche delle inquietudini à la Kafka (la scelta della lettera per il nome dell’agente certo non è casuale).
La distinzione – osserva Alessandro Cappabianca – diventa sempre più difficile, con il cinema dell’era elettronica, che permette di giocare facilmente sull’ambiguità”. Ebbene: se Blade Runner 2049 è operazione-innesto (o film-replicante, come ha scritto più d’uno), niente di più facile che, al pari del prototipo, il pattern della doppiezza, anch’esso di lontana derivazione letteraria, la faccia da padrone con un’evidenza così elementare da risultare ricercata a bella posta. La Wallace Industries rinasce dalle ceneri della Tyrell Corporation: ne è, anzi, l’aggiornamento riveduto e corretto in un progresso dall’esito ancor più stupefacente (e provvisto di etica anche più delirante), così come il suo proprietario-Onnipotente, generatore di angeli e corpi sintetici, è un continuum addirittura più cinico e spaventevole. Segue la dicotomia tra Los Angeles e le colonie Extramondo, e tra K e Deckard, l’uno alter ego (quindi doppio) dell’altro, anche se fare il lavoro del secondo “un tempo era più facile”. E tra i personaggi, come tra le scenografie, i risvolti e le sfumature inerenti alla trama, il gioco potrebbe continuare all’infinito: del capolavoro di Scott, tra l’altro, fa capolino un estratto in forma di traccia-audio, del dialogo-test cui Deckard sottoponeva Rachael per stabilire se fosse una replicante, che K ascolta insieme a Luv, la replicante tirapiedi di Wallace. Come già per il primo episodio, anche in Villeneuve lo scarto tra la norma e la sua interpretazione, tra il reale e l’artificiale, tra il vero e il presunto (e tra il ricordo e l’innesto) è la regola prima, senza che il didascalismo tradisca lo spirito prevalendo sull’enigmaticità, ancora una volta suadente, dell’immaginario esposto.
Pure, nella missione noir di K, la doppiezza collima con la sessualità del misterioso figlio perduto, e s’insinua il sospetto che la replicante defunta abbia concepito due gemelli col medesimo DNA: a un certo punto, K non supera il consueto test d’accesso sulla propria natura replicante, e ragioni da non proferire abbracciano l’ipotesi di una sua presunta umanità alimentando la contrapposizione umano-replicante (e il ricordo su cui ruota l’indagine potrebbe sul serio appartenergli). Nella demarcazione Ieri-Oggi non mancano le caratterizzazioni femminili, l’una il riverbero dell’altra perfino nel cuore della vicenda: inevitabile il duello tra Luv e Joshi, il biondo capo di K, in parti uguali interessate alla missione di K secondo una discrepante scelta di campo, e tuttavia la prima è una Rachael anche più glaciale, priva di sentimenti e fragilità. E l’ologramma Joi si contrappone a tali ciniche bellezze, costituendo un doppio con Mariette, la bionda prostituta cui K decide di concedersi: a tratti simile all’acrobatica Pris, invero una figura-chiave come l’enigmatico Nexus 8 dell’incipit che l’agente è costretto a “ritirare”, entrambi facenti parte di quell’Esercito della Salvezza che aiuta il replicante a scampare alla morte permettendo di far luce sull’arcano. Creatura evanescente, Joi si materializza “possedendo” il corpo e il volto (cibernetici) di Mariette, facendo del proprio simulacro un tutt’uno con una tangibilità che non è più (solo) innesto o artificio, bensì carne e materia (sia pur virtuali). Quando la prostituta trova la statuina di legno – altro punto nodale – e Joi l’ammonisce che il suo compito è terminato, lei dice “Sono stata dentro di te: c’è meno di quel che pensi”. Poco dopo l’ologramma convince K a portarlo con sé, sapendo di essere sacrificato: il limite suggerito da Mariette, prima che la si ritrovi nell’Esercito della Salvezza, risiede nel non (voler) consentire che la verità venga a galla. E Joi è un prodotto della Wallace. La conferma si ha quando il presidente di essa ipotizza che l’amore tra Deckard e Rachael, e la loro creazione, sia un esperimento della Tyrell per testare l’eventuale capacità dei Nexus di riprodursi. “L’umanità – dice Wallace – non può sopravvivere. I replicanti sono il futuro della specie. Ma non posso crearne di più”. “Io so cosa è reale”, controbatte un Deckard in lacrime: sicché la presenza di una Rachael clonata, di cui Joi è il corrispettivo speculare, restituita all’ex cacciatore di androidi come un impressionante calco dell’originale, è neutralizzata prima ancora che se ne accerti la concretezza, smentita dallo stesso Deckard (“Aveva gli occhi verdi”) un istante prima che Luv si sbarazzi del clone.
Trenta(cinque) anni di mitologia e passato, di ricordi e/o innesti, non si cancellano facilmente. E nell’epilogo a spirare – almeno a livello spirituale – è il fantasma dell’estraneo che tale ha scelto di essere per amore. Chi si ha di fronte è la sua parte ritrovata di umano. La medesima che il suo alter ego, nelle spoglie di un “lavoro in pelle”, sembra consegnare in un estremo gesto di redenzione. Il tutto sotto l’egida di un bulbo oculare che introduce alla narrazione e, specchio di quello della prima puntata che offriva una Metropolis ruvida e oscura, ne avvia una post-industriale e risplendente. Qui le colture sintetiche, necessarie per la sopravvivenza della specie umana, contrastano col più volte citato albero naturale, da cui sarà forse possibile ripartire. E un umanoide, proprio perché ancora più umano, rivelarsi della sostanza di cui sono fatti i sogni (i ricordi felici). Da fatiscente e sporca, piovosa e multietnica, la metropoli potrebbe farsi sommergere da un’alluvione che spazzi via il disfacimento del sogno-incubo tecnologico, e la natura (non la sua memoria-innesto) riprendere possesso dalle ceneri del suo inquinamento. Prima che di nuovo sia tutto fango occorre approfittare della neve, a mo’ di estrema purificazione, e qui espiare e attendere la morte, rivelando di avere un’umanità riposta. Mentre la gigantesca ampolla che cinge il personaggio-chiave reca una neve artefatta che si concilia con quella del mondo esterno. L’innesto si fa ricordo di un’epoca e di un cinema lontani, non solo di un’infanzia sottratta: la boccia vitrea che Kane-Welles teneva nella mano prima di lasciarla cadere a terra, risorge indistruttibile.
Parafrasando Leonardo Gandini, il cinema non è un farmaco, ma, se ci si crede, può essere una radiografia. Sotto questo profilo, Blade Runner 2049 è una lastra nitidissima che riflette al meglio sull’evanescenza e la labilità dell’era digitale. Un aggiornamento capace, questo, di quadrare i conti con il suo e il nostro tempo. È il cinema del nuovo millennio a consentire questa resurrezione: ecco il vero “miracolo” di cui anche un replicante può rendersi capace. La dimensione oltre della nuova possibile realtà, e del cinema da questa concepito. 

Francesco Saverio Marzaduri

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