Idrissa Ouédraogo: appunti su un cinema (in)visibile

Idrissa Ouédraogo: appunti su un cinema (in)visibile 


A un anno di distanza dalla prematura scomparsa di Idrissa Ouédraogo, eponima firma della filmografia africana, è lecito porre in risalto quella che, in apparenza, parrebbe una produzione elementare, dove i corpi attoriali attraversano lo schermo nel pieno d’uno spazio naturale che sembra sopraffarli, e si rivela invece un’attenta geometria scenica. I personaggi di film quali Tilaï, Samba Traoré, Le cri du coeur, e prima ancora Yam Daabo o Yaaba, non sono che minuscoli punti di un’astrazione palpabile in cui la mise-en-scène è disposta in linea con un’apparenza ingannevole. I piccoli episodi quotidiani, innescati da una casualità di pari passo con folklore e abitudini tradizionali, sono carpiti da un obiettivo alla costante ricerca d’un evento inatteso, in cui il Fato è aritmetico fattore. A far la differenza, consentendo all’evento di non tradursi in una sensazionale bagarre, è il nitore figurativo, d’una semplicità volta a stemperare l’evento sfumandolo in un nonnulla, e l’immaginifico schema dispone che i partecipanti coinvolti a turno s’alternino rivestiti d’una presenza fantasmatica e quasi invisibile. Tutt’intorno, l’abisso di un’area polverosa e soleggiata, costante preda di ostilità: il sentimento è palpabile, e non è casuale che le (poche) occasioni d’amicizia abbiano luogo con creature enigmatiche, a volte infide, dalle quali dipende la restituzione della normalità.  
Probabilmente è questo il segreto, non tanto e non solo dell’opera del burkinabé Ouédraogo quanto di gran parte della cinematografia africana, nella fattispecie rurale. E la ragione è presto spiegata, giacché la volontà di misurarsi con produzioni internazionali radicate nel tempo, in termini di processi produttivi prima che di esiti, non impedisce quellessenzialità stilistica che ne costituisce il maggior pregio e il suo punto di progressiva estinzione. Sicché la difficoltà, a un tempo storico-sociale ed economica, è ineluttabile pattern perfettamente traducibile sugli spunti narrativi e le vicissitudini al centro dei citati titoli. Dice bene chi afferma che il cinema di Ouédraogo è un cinema “nomade” come il suo autore e, in fondo, come un potutti nella filmografia africana: salvo che il cineasta di Banfora risulta tra i pochi a innestare nella propria opera un quid teso a concedersi a nuove avventure dello sguardo, di volta in volta sensibile tra il lungometraggio e il corto, il documentario e il film episodico, a nuovi formati multimediali (la televisione, il digitale), alla contaminazione tra generi (la commedia on the road, il western-thriller), a tematiche delicate (dalla mutilazione genitale all’Hiv) fin lì ignorate dalla popolazione. Senza neppure chiamarsi fuori da operazioni collettive: suo è il quinto segmento di 11 settembre 2001, di cui è protagonista una combriccola di ragazzini che crede di riconoscere Bin Laden per le vie di Ouagadougou e si confronta con una situazione più grande di loro che, per una volta, si conclude con un happy end. È facile leggere il mini-apologo come un desiderio di riscatto del Paese, trepidante di cogliere loccasione di gloria: è la realtà a ricondurre sul binario duna povertà quale autentico, insostituibile tesoro. 
Sempre e comunque, a mo’ di finestra sul mondo, la visione dell’autore è attenta a una ben radicata espressione dell’esistenza, colta nella sua dimensione più naturale, e a una semplicità che nelle cose della vita, appunto, trae forza di suggestione e stimolo alla riflessione. Tra un lavoro di Ouédraogo e l’altro, si coglie la necessità d’individuare uno sguardo morale, elaborare una profonda riflessione sul senso di produrre immagini, sviluppare una coscienza di sguardo sempre più scarna, essenziale. La sua arte si erge a chiara testimonianza d’una ricerca di collocazione in uno spazio universale del cinema, imprescindibilmente da cliché culturali o da frontiere geografiche, non esente da un solco documentaristico alla Herzog, quando non da inaspettate confezioni scenografiche teatrali greco-shakespeariane. Il che non riduce per forza tale cinematografia nella gabbia di festival e rassegne, votate alla ricerca di distribuzioni attente al terzomondismo: a sciogliere i dubbi, contribuiscono le parole dello stesso cineasta (“L’unica civiltà che conta è quella dell’immagine”). 
Scorrendo l’opera di Ouédraogo, e soffermandosi analiticamente sui molti titoli d’un percorso creativo prolifico, già appaiono veri e propri capitoli “morali” i cortometraggi degli esordi, i cui fotogrammi – come riprovano i lavori successivi – costituiscono l’attraversamento fisico d’uno spazio da riprendere con orizzontalità di sguardo, situandosi incessantemente dentro e mai “sopra”, distante dalle pulsazioni primarie di cuore, nervi, sangue e carne. Nel contempo, lungo un fil rouge che coagula i generi di volta in volta impiegati sino ad assembrarli in un unicum, ciò che l’occhio immortala trascende i limiti imposti per produrre nuove identità, approdando a una visione teorica, dove anche il tempo è ingrediente predisposto a multiformi mutamenti. Uno straniante montaggio raccorda immagini, luoghi, corpi, susseguendoli in un’estatica immobilità alla ricerca di un’attesa dove suoni, rumori, colori tripudiano incessanti. L’itinerario cinematografico devia costantemente, esiste oltre ogni precostituito paradigma narrativo, vive nelle ellissi, spazia in continue inversioni in cui si situano gli accadimenti che trasformano la realtà in favola, e in cui trovano riscontro gli sguardi magici su una vegetazione prossima a cambiare forma, come i personaggi (la scelta suggellata da uno dei migliori titoli di Ouédraogo). 
Questo non significa che sentimenti e passioni, pulsioni adolescenziali e tragedie umane, memorie personali e collettive, trasposti evitando stereotipi e ripetizioni, non siano topoi che la macchina da presa dimentichi di calare in una predefinita dimensione. È coi gesti e gli sguardi che i personaggi superano gli ostacoli delle parole, laddove l’obiettivo sovente si mantiene distante dall’evento che si consuma. Non per niente, film come A Karim Na Sala, Samba Traoré e Kini & Adams s’incentrano su figure inquiete o giovani innamorati che solcano l’assunto nella vastità degli spazi in cui ripresi, entro una sfera ora fiabesca ora drammatica, senza che il realismo prevalga giocoforza sul risultato. Ambiente naturale e colori vengono restituiti da una classicità figurativa in cui artificio e finzione la fanno da padroni: conseguenza di un pellegrinaggio dinamico e moderno, sui modelli peraltro riconosciuti dall’autore di Rossellini, della Nouvelle Vague e dei Taviani di Padre padrone
Pur sempre, la vérité è luogo canonico e al contempo risolutore (nel mediometraggio Afrique, mon Afrique... il protagonista, che lascia il suo villaggio per diventare un cantante, è un vero musicista). E in uno dei lavori conclusivi, il brevissimo Les parias du Cinéma, Ouédraogo in persona si rivolge allo spettatore per affrontare una questione verso la quale è lucidamente polemico: in cinque minuti di straordinaria intensità l’autore si dichiara, interponendo alle parole frammenti di film e palesando la propria politique nella concezione del riprendere, la totale adesione nel costruire un’inquadratura e, all’occorrenza, mettere in scena personaggi della finzione quando non sé stesso. Ci si accorge di ciò in alcuni epiloghi che si rincorrono e si rimandano come un denominatore comune: è vero che ogni inizio (ri)comincia da una fine, ma concepire un piano fisso, o il più complesso movimento di macchina, è sempre un problema di sguardo morale. 

Francesco Saverio Marzaduri

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