Idrissa Ouédraogo: appunti su un cinema (in)visibile
Idrissa Ouédraogo: appunti su un cinema (in)visibile
Probabilmente è questo il segreto, non tanto e non solo dell’opera del burkinabé Ouédraogo quanto di gran parte della cinematografia africana, nella fattispecie rurale. E la ragione è presto spiegata, giacché la volontà di misurarsi con produzioni internazionali radicate nel tempo, in termini di processi produttivi prima che di esiti, non impedisce quell’essenzialità stilistica che ne costituisce il maggior pregio e il suo punto di progressiva estinzione. Sicché la difficoltà, a un tempo storico-sociale ed economica, è ineluttabile pattern perfettamente traducibile sugli spunti narrativi e le vicissitudini al centro dei citati titoli. Dice bene chi afferma che il cinema di Ouédraogo è un cinema “nomade” come il suo autore e, in fondo, come un po’ tutti nella filmografia africana: salvo che il cineasta di Banfora risulta tra i pochi a innestare nella propria opera un quid teso a concedersi a nuove avventure dello sguardo, di volta in volta sensibile tra il lungometraggio e il corto, il documentario e il film episodico, a nuovi formati multimediali (la televisione, il digitale), alla contaminazione tra generi (la commedia on the road, il western-thriller), a tematiche delicate (dalla mutilazione genitale all’Hiv) fin lì ignorate dalla popolazione. Senza neppure chiamarsi fuori da operazioni collettive: suo è il quinto segmento di 11 settembre 2001, di cui è protagonista una combriccola di ragazzini che crede di riconoscere Bin Laden per le vie di Ouagadougou e si confronta con una situazione più grande di loro che, per una volta, si conclude con un happy end. È facile leggere il mini-apologo come un desiderio di riscatto del Paese, trepidante di cogliere l’occasione di gloria: è la realtà a ricondurre sul binario d’una povertà quale autentico, insostituibile tesoro.
Sempre e comunque, a mo’ di finestra sul mondo, la visione dell’autore è attenta a una ben radicata espressione dell’esistenza, colta nella sua dimensione più naturale, e a una semplicità che nelle cose della vita, appunto, trae forza di suggestione e stimolo alla riflessione. Tra un lavoro di Ouédraogo e l’altro, si coglie la necessità d’individuare uno sguardo morale, elaborare una profonda riflessione sul senso di produrre immagini, sviluppare una coscienza di sguardo sempre più scarna, essenziale. La sua arte si erge a chiara testimonianza d’una ricerca di collocazione in uno spazio universale del cinema, imprescindibilmente da cliché culturali o da frontiere geografiche, non esente da un solco documentaristico alla Herzog, quando non da inaspettate confezioni scenografiche teatrali greco-shakespeariane. Il che non riduce per forza tale cinematografia nella gabbia di festival e rassegne, votate alla ricerca di distribuzioni attente al terzomondismo: a sciogliere i dubbi, contribuiscono le parole dello stesso cineasta (“L’unica civiltà che conta è quella dell’immagine”).
Scorrendo l’opera di Ouédraogo, e soffermandosi analiticamente sui molti titoli d’un percorso creativo prolifico, già appaiono veri e propri capitoli “morali” i cortometraggi degli esordi, i cui fotogrammi – come riprovano i lavori successivi – costituiscono l’attraversamento fisico d’uno spazio da riprendere con orizzontalità di sguardo, situandosi incessantemente dentro e mai “sopra”, distante dalle pulsazioni primarie di cuore, nervi, sangue e carne. Nel contempo, lungo un fil rouge che coagula i generi di volta in volta impiegati sino ad assembrarli in un unicum, ciò che l’occhio immortala trascende i limiti imposti per produrre nuove identità, approdando a una visione teorica, dove anche il tempo è ingrediente predisposto a multiformi mutamenti. Uno straniante montaggio raccorda immagini, luoghi, corpi, susseguendoli in un’estatica immobilità alla ricerca di un’attesa dove suoni, rumori, colori tripudiano incessanti. L’itinerario cinematografico devia costantemente, esiste oltre ogni precostituito paradigma narrativo, vive nelle ellissi, spazia in continue inversioni in cui si situano gli accadimenti che trasformano la realtà in favola, e in cui trovano riscontro gli sguardi magici su una vegetazione prossima a cambiare forma, come i personaggi (la scelta suggellata da uno dei migliori titoli di Ouédraogo).
Questo non significa che sentimenti e passioni, pulsioni adolescenziali e tragedie umane, memorie personali e collettive, trasposti evitando stereotipi e ripetizioni, non siano topoi che la macchina da presa dimentichi di calare in una predefinita dimensione. È coi gesti e gli sguardi che i personaggi superano gli ostacoli delle parole, laddove l’obiettivo sovente si mantiene distante dall’evento che si consuma. Non per niente, film come A Karim Na Sala, Samba Traoré e Kini & Adams s’incentrano su figure inquiete o giovani innamorati che solcano l’assunto nella vastità degli spazi in cui ripresi, entro una sfera ora fiabesca ora drammatica, senza che il realismo prevalga giocoforza sul risultato. Ambiente naturale e colori vengono restituiti da una classicità figurativa in cui artificio e finzione la fanno da padroni: conseguenza di un pellegrinaggio dinamico e moderno, sui modelli peraltro riconosciuti dall’autore di Rossellini, della Nouvelle Vague e dei Taviani di Padre padrone.
Pur sempre, la vérité è luogo canonico e al contempo risolutore (nel mediometraggio Afrique, mon Afrique... il protagonista, che lascia il suo villaggio per diventare un cantante, è un vero musicista). E in uno dei lavori conclusivi, il brevissimo Les parias du Cinéma, Ouédraogo in persona si rivolge allo spettatore per affrontare una questione verso la quale è lucidamente polemico: in cinque minuti di straordinaria intensità l’autore si dichiara, interponendo alle parole frammenti di film e palesando la propria politique nella concezione del riprendere, la totale adesione nel costruire un’inquadratura e, all’occorrenza, mettere in scena personaggi della finzione quando non sé stesso. Ci si accorge di ciò in alcuni epiloghi che si rincorrono e si rimandano come un denominatore comune: è vero che ogni inizio (ri)comincia da una fine, ma concepire un piano fisso, o il più complesso movimento di macchina, è sempre un problema di sguardo morale.
Francesco
Saverio Marzaduri
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