La mano di tarocchi che non sai mai giocare: KNIGHT OF CUPS

La mano di tarocchi che non sai mai giocare: Knight of Cups 


O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia.
Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale,
la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare.”
FRANCESCO GUCCINI

Con Knight of Cups, Malick continua una riflessione iniziata con The Tree of Life e proseguita con To the Wonder, che con Song to Song, immediatamente successivo, realizza e completa una trilogia dedicata all’umana fragilità morale, allo smarrimento di quei valori che l’evoluzione del pensiero ci ha consegnato come fondativi e universali. In To the Wonder, l’incantamento del titolo era dato dall’innamoramento, che sia pure intenso e avvertito come vero non reggeva al tempo e ai cambiamenti di situazione, di luogo, di condizione. Era dato dalla passione, anche interiore, che il mutare degli anni e il crescente vissuto s’incaricano di sciupare; dall’uomo che ama ma il cui amore si perde, che sciupa l’amore altrui e con ciò pecca mortalmente, condannato a ricominciare, ad amare ancora e ancora suscitando amore, poi di nuovo disastri affettivi e rancore; era il sacerdote che milita fra gli ultimi e che, schiacciato dall’immanità della disperazione che lo circonda, perde non solo la fede ma ogni possibile via di salvezza. La perdita dei valori, ci diceva Malick già in quel film, produce degrado anche fuori di noi, nel mondo stesso, con l’avvelenamento delle acque, dell’aria, del diritto stesso alla vita e alla speranza.
Knight of Cups ne amplia il discorso, e più che portarlo avanti sembra allargarlo, cercando altri possibili punti di partenza, trovandoli facilmente e ancora puntando da essi lo sguardo. Il risultato, sembra dirci, resta il medesimo. Osservazioni e riflessioni sono le stesse, e identiche le conclusioni. In un mondo dominato da apparenza, successo e denaro, o si sta a galla o si affonda, ci si adegua se si può e, se non si può, è la fine. E la fine è peggio della morte, perché si resta testimoni del proprio disastro personale. La Morte infatti, tredicesimo arcano nel mazzo dei tarocchi che Malick scopre una carta alla volta, può non fare paura, come non ne fa al laico che come un monaco medita nel silenzio d’un icastico giardino; sopravvivere al totale fallimento ne fa al padre del protagonista, sconfitto in tutto ciò che credeva: lavoro, dignità, sicurezza, affetti, famiglia. La sua ditta è chiusa, gli interni sono squallidamente semivuoti, lavarsene le mani con brocca e catino serve solo a sporcare l’acqua di sangue. La madre dei suoi figli non è più al suo fianco, non le è stato concesso altro che accettare senza opposizione vita e decisioni del marito, ma allontanarsi da lui e dai figli non le ha, s’intuisce, restituito serenità.
Quanto ai figli, di tre, uno è morto, forse il più promettente agli occhi del padre, e i due che restano posson dire uno dell’altro “gli voglio bene, molto, ma lo odio”. Il vuoto in cui i due fratelli interagiscono, punteggiato di mobili abbandonati qua e là, evoca il comune deserto interiore, i sentimenti sembrano non trovare altro modo di esprimersi che non sia mimesi di scontro. Non sembra esservi quiete possibile tra padre e figli, né fra costoro: non vi è ostilità ma nemmeno pace, solo frustrazioni che sfociano in rabbia: stoviglie e sedie che s’infrangono, televisori che cascano al suolo, rimandano a ben altre e insanabili rotture.
Il protagonista si muove in una Los Angeles di set cinematografici deserti, di teatri di posa come scatoloni inquietanti, di mega-party nelle ville lungo Ocean Boulevard, di studi fotografici affollati di modelle, assortite per tipologie che vanno dalla brunetta, languida, alla culturista che la direttrice di scena invita, quando posa, a immaginarsi immersa in amplessi lesbici. Galleggia in una realtà contingente indefinita, sfiora grandi ricchezze il cui riflesso lo gratifica senza includervelo, vive in luoghi dove – evangelicamente – il ladro penetra e deruba, anche se ciò che i malviventi gli portano via nella loro irruzione non è che poco, irredimibile denaro.
È stato sposato, lei era medico ma non aveva clienti glamour, esercitava in ambulatori colmi di poveracci, persone di colore, gente afflitta dalle patologie più gravi e repellenti; lo ha lasciato perché i gesti di lui, le parole di lui, i silenzi di lui non erano più gentili: “Le tue intenzioni erano ancora buone”, gli dice, “ma non venivano più dal cuore”. Dopo, ci sono state stelline e attricette, anche a coppie; poi la fotomodella conosciuta sul set, la ballerina osé incontrata in un locale di lap dance, la donna sposata a un altro che resta incinta e non sa se di lui o del marito; fino all’ultima in ordine di tempo, chissà se definitiva o meno, perché sembra esservi qualche possibilità in tal senso, ma non più che nei precedenti ménage, e dunque perché illudersi?
Questo siamo, alla fine? Fuoco? – si domanda la voce interiore – Fuoco che incenerisce nel suo procedere? Difficile osare credere il contrario quando, intorno, uno schizofrenico mondo impone differenze visibili e inquietanti, homeless a decine sparsi ovunque, a volte unica offerta umana su marciapiedi altrimenti negletti, e altrove figures of beauty che camminano sapendosi ammirate (forse però anche impaurite), un’umanità residuale disseminata lungo perimetri di opulenza e al di fuori di essi. Le feste eleganti ed esclusive dove ogni presenza femminile sembra essere pura offerta di consumo, corpo abbordabile declinato – come sostiene un anfitrione – in base a vari gusti e qualità, disponibili al desiderio e all’estro del momento. Interni in vetro e acciaio tanto più luminosi quanto disumananti, camere d’albergo vista mare, con balcone mai sprovvisto di nudità femminile tanto più folgorante nella sua bellezza quanto più lontana dalle verità dell’anima, proiettate altrove in telefonate viste e non udite, o ripiegate in sé stesse, a occhi bassi, nell’affollato interno d’un ascensore. Una realtà fatta di non luoghi, siano essi i boulevard coi filari di palme e gli edifici istituzionali e inaccessibili, o i set cinematografici in scala uno-uno di quartieri metropolitani, deserti in quanto inutilizzati, o l’opulenza della Roma imperiale ricostruita che Las Vegas, tra statue, mosaici e colonne marmoree, sbatte in faccia ai suoi visitatori.
Il mondo osservato e restituitoci da Malick è un presente felice per pochi e infernale per i più, ma sembra non recare speranza alcuna di futuro neppure a chi, come in un racconto di Poe, si chiude all’interno delle proprie fortezze escludendone la miseria altrui. La miseria è in noi, o molto vicina. Troppo vicina perché possa esservi salvezza. Dove il ladro deruba, evangelicamente, anche il tarlo corrompe e decompone. Le mega-feste, l’opulenza sfacciata, la droga e il sesso onnipresenti, non permettono nulla che non sia consumo. Sono il biblico convitto di Baldassarre, la festa sul ponte del Titanic, sono l’attimo fuggente di chi sa che non esiste un domani. Restano i sentimenti devastati, sconvolti, restano le macerie interiori. Ben pochi altri film, e forse nessun altro cineasta, ci ha dato finora un quadro più implacabilmente, dolorosamente esatto di cosa sia il presente e di cosa ci attenda. La vittoria di Trump alle presidenziali americane, e dei valori di cui si è fatto portavoce e araldo, sono la triste conferma che la capacità visionaria dei poeti altro non è, a volte, che preveggenza. 

Francesco Saverio Marzaduri

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