Scene da uno psicodramma: I VILLEGGIANTI

Scene da uno psicodramma: I villeggianti 


Si sa che il grande schermo si è spesso prestato a quelle che Kezich definiva “teatrate”, opere cioè che puntano sulla notorietà e il carisma degli interpreti per sopperire al vuoto di vetusti canovacci o a carenza d’idee. Da qualche tempo però, anche lo spettatore più condiscendente storcerebbe il naso a fronte di un cinema in cui l’impostazione – teatrale – della mise-en-scène serve solo a colmare due ore di déjà vu. Tirare in ballo i più noti maestri dell’incomunicabilità, da Antonioni a Bergman, suonerebbe patetico ancor più che inappropriato, dato che l’insincerità della recitazione al servizio di un progetto lacunoso si rivela irritante e basta. Quanto a dire che I villeggianti, quarto cimento registico di Valeria Bruni Tedeschi, non offre molto più d’un campionario di assortita umanità riunito per una sorta di terapia di gruppo, divisa in tre atti con annesso epilogo, in una lussuosa location in Costa Azzurra fuori dal tempo e protetta dal mondo. Qui la Bruni Tedeschi, sceneggiatrice in crisi coniugale, arriva con la figlia Celià per esorcizzare la fresca separazione e lavorare al suo nuovo copione, e il suo rovello (non si dà pace, infatti, che l’ex Riccardo Scamarcio l’abbia mollata per una modella pubblicitaria) si confronta con quelli dei numerosi altri ospiti della villa, parenti, amici e servitù: dalla screenplayer Noémie Lvovsky – osservatrice esterna delle instabili dinamiche venutesi a creare – agli attori Valeria Golino, Xavier Beauvois, Vincent Pérez, per concludere con la vera madre, Marisa Borini; e la figlioletta di colore è proprio la stessa adottata dalla Bruni Tedeschi con l’ex coniuge Louis Garrel. Sicché il film, definito dalla regista un’autobiografia immaginaria, fluttua disinvolto nelle trame d’un corale psicodramma, in cui ciascun personaggio è coinvolto coi propri irrisolti scheletri nell’armadio, dove il collaudato margine realtà-finzione – teso a riannodare e rielaborare spezzoni di vita vissuta, secondo la lezione di Cassavetes – si fa labilissimo (vedasi la scelta di traslare la coppia Scamarcio-Golino). Ne scaturisce un variegato mosaico irto di inquietudini e isterismi (con in testa l’infelicità dei padroni di casa, da leggere come i Sarkozy, dovuta alla perdita di un figlio), incomprensioni e disagi che riemergono tra incancellabili insoddisfazioni, mentre agi e lussi si riducono a povera cosa. Nell’ansia, nella paranoia, nell’assenza di prospettiva – al cui centro la collettività ritratta non sa nemmeno affogare – si staglia un emisfero atrofizzato e sterile: una campana di vetro che isola dalla realtà, separa dal mondo, “lavora” in vacanza, disinteressata a discernere e mai sfiorata dall’altrui dolore, e i cui visitatori estivi del titolo francese nuotano nell’infelicità come peccatori d’un girone infernale travestito da Paradiso, senza (voler) uscire dalla deriva né trovare risposte ai propri dilemmi. Ma nonostante un incipit a Parigi che la verosimiglianza restituisce fedelmente nel citato binomio, I villeggianti non mantiene salda la tenuta narrativa, sbilanciata dalla disomogeneità di conciliare la confezione francese, usualmente raffinata ed elegante, con quella nostrana più schiettamente ilare e pronta a sterzare sfumature delicate sul versante grottesco (vedasi i dialoghi tra Anna e Luca, ma pure i riferimenti a Carosello). Se rilevante è il simulacro del fratello defunto, la cui effigie aleggia sull’intero quadretto e ingiunge alla protagonista di non girare un film su di lui, i simbolismi presenti sanno di stereotipato e non impediscono cadute di tono e talora di gusto anche nei momenti più naturalmente poetici. C’è perfino un’eco de L’avventura – di Antonioni, appunto – nell’inattesa sparizione di un ospite; ma l’impressione è che l’opera, dietro la facciata di un’auto-analisi in odore di sfarzosa operazione casalinga, segua l’esempio recente di A casa tutti bene, la cui ammiccante confezione non impediva al plot di funzionare, nel bene o nel male: non a caso, rilasciandosi a sinuosi movimenti di anime perse, le sorelle Bruni Tedeschi-Golino intonano al piano Ma che freddo fa in luogo di Bella senz’animaI villeggianti è un update altisonante di Muccino – introdotto da un esergo di Botho Strauß, maestro di solitudini e indagatore dell’incomunicabilità – sul peso traumatico del divorzio, che impiega il documentarista Frederick Wiseman nel cameo di un commissario cinematografico e fa della villeggiatura, nel proprio concepimento e svolgimento, un tutt’uno di corpo e scrittura in un metafilm, finendo col rimanerne invischiato, chissà se per scelta o per caso. Se il tenore privilegiato e irrecuperabilmente smarrito dell’upper class è tratteggiato dalla Bruni Tedeschi con occhio sincero quanto impietoso, benché calcato sul prototipo di Renoir, gli sforzi di miscelare Čechov, Gor’kij e Goldoni si disperdono in un autobiografismo necessario ma debordante, dove il lodevole proposito della classe sociale ritratta, con una psiche umana in lotta tra meschinità e rivelazioni, fa i conti con un esito troppo scopertamente naïf, in cui la maniera non elimina narcisismi sospetti. Ineccepibile la professionalità degli interpreti, troppo artificiosa tuttavia perché il pubblico se ne appassioni: basterebbe il personaggio, va da sé nevrotico, dell’attrice-autrice funzionante ne Il capitale umano e ne La pazza gioia, qui ridotto a una smorfia ai limiti della parodia. E l’onirico excipit, a propria volta interpretabile come un delirio macabro, in cui Anna concretizza il progetto tra fitte nebbie lungo l’asse vero-presunto, è una chiosa troppo fine a sé stessa. Che, come l’immagine candida di Celià, sbiadisce inesorabile. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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