Tornando a casa: NEBRASKA
Tornando a casa: Nebraska
Non è più tempo di eroi, lo si è scritto tante volte, e meno ancora però di antieroi. Nemmeno a farlo apposta, di un cinema che pareva
sorpassato (già) una ventina d’anni fa, nel decennio in cui
prodotti quali Buon compleanno Mr.
Grape di Lasse Hallström o
Affliction
di Paul Schrader, che da quella filmografia discendono e in un certo
senso reiterano, si trovavano a far di conseguenza i conti, in
termini di pubblico e cifre, con prodotti che indirizzavano
l’industria cinematografica verso una nuova era. Un accattivante
black hole,
probabilmente enigmatico ma certo più progredito di quello
teorizzato da apologhi fantascientifici, in seguito diventati cult,
concepiti alla loro uscita per mettere lo spettatore in allarme. Di
fronte a un titolo come Nebraska,
lo spettatore odierno, assuefatto a tecnologie e derivati, si
troverebbe ovviamente spiazzato. Non però lo spettatore cresciuto a
pane e New Hollywood che, lungo gli itinerari di frontiera veduti e
riveduti nei capolavori e nelle pellicole-simbolo del periodo (e non
solo on the road),
coglie elementi e iconografie, topoi
e stilemi fattisi ormai luoghi
canonici d’una piccola grande, e classica, topografia: quella
nordamericana, figlia della grande narrativa e da più vaste radici
culturali. Il tutto metabolizzato, a cavallo tra gli anni Sessanta e
Settanta, dall’iperrealismo, ultima imprescindibile componente
artistica di quella fase. Nella seconda opera che Alexander Payne dedica al proprio luogo di nascita – la prima fu A proposito di Schmidt, una decina d’anni prima – si ritrova un po’ di tutto questo: dalle fattorie alle chiese evangeliche, dai grandi spazi alle mandrie e alle trivelle, dai maestosi spazi fordiani alle sempiterne comunità rurali. Ben lo sapeva il Malick degli esordi, prima d’imboccare una china ermetico-esistenziale che rischia, stando alle ultime prove, di spiazzare anche i suoi più stretti ammiratori. In Nebraska, inevitabile, si riconosce Hopper quale modello intertestuale nello splendido bianco e nero di Phedon Papamichael, adibito a suggerire come il tempo, perfino in un inoltrato Duemila, si sia fermato per certa (vecchia) America. E con esso gli abitanti, le loro e avidità, i loro egoismi. Quando non emerge dallo squallore di un karaoke in una tavola calda, mentre un’obesa ragazza intona languida Time After Time, il solo svago dalla monotonia è sedersi in salotto di fronte a un apparecchio tivù, qua e là smozzicando lacerti di frasi d’un discorso sempre uguale.
Eppure, in Nebraska, l’impressione è che qualsiasi riferimento cinefilo sia ben accolto. Appositamente studiato, anzi, benché non sia (tanto) da individuare in Jim Jarmusch, cui sovente Payne sembra ispirarsi, e nemmeno in Wenders, anche se la citata fotografia riconduce l’operazione su un binario cinematografico europeo emulo della lezione statunitense (e sul film c’è chi si è diviso a proposito di reale omaggio o astuta mistificazione). A parlare, nondimeno, sono i personaggi al centro dell’assunto, e la figura di Woody Grant più di qualunque altra presente. Un indomabile (inde)fesso, fuori posto e fuori luogo. Un update all’inverso di Cable Hogue minato dall’arteriosclerosi, il cui tempo è scaduto una quarantina d’anni prima. Ex alcolista e malato di Alzheimer, ma non così arrendevole e deficitario da rinunciare a uno stabilito proposito, che fin dall’immagine in apertura lo immortala in profondità di campo, intento a percorrere una highway del Montana (dove abita con l’anziana moglie) per raggiungere il luogo del titolo e riscuotere l’illusoria vincita in denaro suggerita da una missiva – che tutti, compreso il protagonista, sanno trattarsi d’una subdola trovata pubblicitaria.
Woody è un dropout ancora vivo per quanto acciaccato, con tutti i problemi che l’età, e ancor prima la generazione cui appartiene, gli offrono a mo’ di conto (al figlio, che si offre di seguirlo nella propria bizzarra avventura, confessa schietto di averlo messo al mondo per contentare la coniuge, e perché gli piaceva scopare). Non arretra davanti ad alcun ostacolo pur di coronare quel sogno, la cui motivazione – si scopre – cela un significato profondo e inatteso. Le amarezze di questa balorda utopia si apparentano a quelle d’una pellicola romena, Medalia de onoare di Călin Peter Netzer, in cui un pensionato si ritrovava inaspettatamente circondato da parenti e amici per un’onorificenza della quale non era beneficiario. Anche in Nebraska, nella miglior tradizione della commedia al cianuro, il parentado accoglie Woody da eroe prima di approfittarsi della presunta vincita con tutti i mezzi illeciti possibili, per poi scoprire che… carta canta! Sicché i presunti amici, che prima idolatrano il Nostro come mai gli era capitato, riportano un potenziale mito a un’usuale condizione di anonimato e mediocrità. E il volto d’un imbolsito Stacy Keach – l’hemingwayano boxeur malinconico e disilluso in Città amara di Huston – è ora l’incarnazione d’una small town integrata con l’avidità e la corruzione dell’era moderna.
Figura il cui nome anagrafico in primis è permeato di miticità (immediato quanto prevedibile l’accostamento al padre della folk music a stelle e strisce), e Nebraska è anche il titolo di un celebre album di Bruce Springsteen, Woody è un altro re dei giardini di Marvin consapevole che il supposto sogno – nient’altro che un foglio di carta senza valore – non conoscerà coronamento. Nel film di Bob Rafelson l’utopia risiedeva in una Atlantic City che si ambiva a trasformare, a parole più che a fatti, in un El Dorado il cui artefice finiva stritolato dal peso degli eventi, pagando con la vita lo scotto di un’ambizione più grande di lui. Se ancora una volta il cerchio si restringe, è perché a prestare corpo e volto al plurisettantenne Woody è lo stesso Bruce Dern in un ruolo in origine pensato per l’amico Jack Nicholson (l’altro protagonista di Marvin e, guarda caso, in tarda età interprete per Payne in A proposito di Schmidt).
In un ruolo che sarebbe calzato a pennello per il Paul Newman senile di La vita a modo mio, che peraltro ruotava su un delicato rapporto paterno-filiale, Dern svela tratti d’una personalità che si vorrebbe cinica e sfrontata, ma, tenera e patetica, capace di beffare chi sta intorno come i personaggi cult del miglior cinema americano libertario, restituendo più d’una sorpresa sullo sfondo di una realtà che persevera su binari costantemente rettilinei. Verrebbe da far il paragone con un altro prodotto indipendente, La famiglia Savage di Tamara Jenkins, al cui centro un confronto fratello-sorella si articolava nella comune decisione d’internare il padre aterosclerotico in una casa di riposo. In Nebraska il binomio padre-figlio è la ricerca di un tempo (e di un amore, oltreché di un cinema) perduto, con una falsa lettera a fungere da madeleine: nella scena in cui l’anziana coppia, in compagnia del secondogenito, fa visita alle lapidi dei di lei parenti, la mente torna a Un uomo da marciapiede e all’episodio in cui Ratso-Dustin Hoffman si abbandonava alle lacrime davanti alla tomba del padre. E più d’un brivido scorre tra le cadenti mura della disabitata tenuta in cui Woody visse l’infanzia, che il vecchio racconta con tono inevitabilmente coinvolto: lo sguardo del protagonista fuori da una finestra si rivolge a una sfera che non ha (più) ragion d’essere, se mai l’ha avuta.
Si potrebbe rimproverare a Payne ripetitività in temi e stilemi. Di essere un artigiano sopravvalutato o solo furbo. Vero è che se un certo cinema démodé non si può fare, e a sprazzi torna a far sentire gli echi, innegabili all’autore di Nebraska è l’amore per un percorso che dal più volte citato Schmidt, proseguendo per Sideways – In viaggio con Jack, procede inarrestabile nel suo itinerario alla ricerca di un’altra possibile “poetica della nostalgia” (a cominciare dalla scelta, fuori registro, del CinemaScope). Un cinema di personaggi, situazioni, verità psicologiche. Niente di meglio, dunque, d’un apologo sulla senilità irriducibile, sulla falsariga del lynchano Una storia vera, e un lustro prima del Corriere di Eastwood. Per tacere dell’Harry Dean Stanton del testamentario Lucky o del fuorilegge tardivo Forrest Tucker incarnato da Robert Redford.
Come
un novello Bogdanovich, il cui Paper
Moon –
pellicola in bianco e nero – si sospendeva lungo un sentiero di
campagna. E su un’altra strada di campagna si chiude Nebraska,
memore anche dell’epilogo di Una
calibro 20 per lo specialista di
Cimino. Là, il premio non garantiva felicità o rosee aspettative
per l’unico superstite del colpo. Qui un misero premio di
consolazione, un ridicolo berretto a visiera, si trasla nel dono d’un
figlio al genitore: quello che il secondo confessava di voler
garantire al primo, mentre il ricordo va ai rodeo
men Bonner
di Peckinpah. Dono per la riscoperta d’un sentimento e un valore
che tutti, pacificati da un riavvicinamento forse involontario,
avevano rimosso. Benché per scarni istanti, il “sogno” si
concretizza: Woody può godere dell’effimera gloria da sempre
agognata e mai conseguita, e, alla guida di un furgone provvisto di
compressore nel cofano-baule, permettersi di farci un giro d’onore
per i conoscenti e per un antico amore. E se stringe il cuore
rivedere il logo
della Paramount nella propria veste classica, qualche anno prima
ridotta a un insignificante mucchietto di sabbia da Steven Spielberg,
la magia del contesto consente di (ri)credere al cinema da cui
Nebraska discende come a un antico valore.
Francesco Saverio Marzaduri
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