Una donna tutta sola (ma non troppo): GLORIA BELL

Una donna tutta sola (ma non troppo): Gloria Bell 


Posso attendere un altro giorno
Prima di chiamarti
È solo che hai il mio cuore in pugno
E tutto galleggia
Ma un’altra notte in solitudine
Potrebbe durare per sempre
È solo colpa nostra
Per me è lo stesso, amore
Perché so cosè giusto, lo sento...” 
PAUL McCARTNEY 

Ricordate il film in cui il compianto Paul Mazursky, una quarantina danni fa, narrava duna working woman che, tradita dal marito per una donna più giovane, ricercava il proprio equilibrio di persona indipendente? Ebbene, Gloria Bell, settima prova registica del cileno Sebastián Lelio e sua seconda trasferta statunitense, affronta un analogo tema restituendo il ritratto di unimpiegata cinquantenne ma ancora affascinante, divorziata con due figli adulti e alle prese con una relazione turbolenta. Un lustro prima, Lelio aveva già diretto la stessa storia (Gloria) nella sua terra d’origine, permettendo all’interprete Paulina García di ottenere l’Orso d’oro a Berlino come miglior attrice. Nulla di strano se Julianne Moore abbia scelto dimpersonare il ruolo principale senza cambiarne il nome e figurare tra gli executive producers del rifacimento, e, sempre in produzione, la firma del cineasta Pablo Larraín aggiunge un indiscutibile tocco di qualità. Chi ha amato il film del 2013, dunque, sa cosa aspettarsi: la caparbia volontà della protagonista nel credere ancora all’euforia, effimera, della vita; la sua tenacia nel non farsi piegare dall’Assurdo, quando il percorso non è corrisposto in identica maniera da chi condivide il raggio d’azione. Soprattutto, la cocente delusione nel rapporto con un uomo – anchegli di mezzetà, divorziato e con due figlie – incapace di tagliare definitivamente col passato e in un continuo tira e molla con la neo-partner. Tutti ingredienti che nel nuovo adattamento si ritrovano pressoché invariati. A far la differenza, la sensibilità attoriale d’una Moore che imprime l’esatta dose di sfumature e accenti a un personaggio preso dalla vita, da un istante all’altro scottato dagli eventi, capace di prendersi la propria rivincita facendo sì che la bruciante amarezza si riduca a un fastidio in mezzo ad altri. Ma in questa versione, indipendentemente dal contesto, a interessar maggiormente è il risalto che l’autore sembra concedere agli spazi, diegeticamente impiegati in funzione dell’apologo e del suo progredire. Perché Gloria Bell è un film di altezze, di punti fermi e di cadute: la sfortunata vicenda sentimentale con Arnold-John Turturro inizia nell’attimo in cui ambedue i personaggi sono ripresi nell’ascensore d’un ristorante, conducendoli in un comune itinerario di confessioni e coincidenze, intimità e debolezze, giochi e libertà, prima di restituirne i corpi ignudi in un’unica condivisa dimensione. Finché la visita al secondogenito di Gloria, dove Arnold fa la conoscenza dell’ex marito e della nuova compagna, non incrina l’apparente maturità in salita della donna – tutta dolci lacrime e sorrisi felici, univocamente sciolti da una poesia che il partner le legge – riportandola su una linea di stasi. In tale fase di transizione le incrinature della protagonista, da inizialmente lievi, s’accentuano quali calcolati tasselli di un’imminente maturazione, dal licenziamento di una collega alla partenza della figlia, cui Gloria promette di non piangere: in quest’ultimo caso un’irraggiungibile altezza – le scale mobili del terminal – separa le due impedendo alla Nostra, sconfitta dalle lacrime, di salutare la ragazza. Dopo iniziali riluttanze, Gloria cede agli assillanti squilli di Arnold, ed ecco entrambi su un aereo per Las Vegas, convinti che ciò dia nuova linfa al rapporto. Ma è un’ulteriore illusione, sancita da una telefonata della figlia di lui che lo avvisa d’un grave incidente all’ex coniuge: qui la distanza è carpita da un fotogramma che riprende i due in una stanza d’hotel, mentre un gioco di specchi, teso a rimarcarne la condizione di estraneità, antepone Gloria lasciando l’uomo dietro di lei. A quel punto, quando Arnold la supplica di non lasciarlo, la donna già è consapevole della sua ipocrisia, prima di cedere a un nuovo amplesso e, durante una cena apparentemente senza pensieri, a un nuovo abbandono: la supposta altezza, da interpretare come il mutamento d’un tenore di vita, è una celere utopia quanto la fugace estasi di Gloria col primo sconosciuto che le capita (e la panoramica che immortala la donna ubriaca, mentre il mondo ruota dietro lei, è al contempo un diegetico tourbillon e un’evidente citazione di Mazursky). Il “salvataggio” della madre interviene riportandola a una dimensione più modesta, per cui il temuto sphynx, intrufolandosi persistente nell’appartamento di Gloria, è eletto come una compagnia (e il gatto, sentiamo dire, è una divinità egizia); così pure gli isterismi del giovane vicino di casa, non dissimili dalle inquietudini di Arnold, fungono da potenziale guscio protettivo. La quiete dopo la tempesta, quindi il raggiungimento dell’equa altezza, si realizza nel confronto finale tra gli ex amanti, che da gioco iniziale si traduce in catarsi (non per niente, il cognome Bell sta per “campana”). A parte l’uso degli spazi, una colonna sonora costituita in prevalenza da hit anni Ottanta gioca un’ulteriore funzione diegetica, atta a scandire la trasformazione del personaggio. Sfilano Paul McCartney, John Paul Young, Olivia Newton-John, Gilbert O’Sullivan, Bonnie Tyler: sicché il brano di Tozzi, nella cover della povera Laura Branigan, provvede a spingere chi preferisce morire danzando sulla stessa, fosforescente pista già teatro, all’inizio, di un casuale e sfortunato incontro. Lo spettatore si congeda da una Gloria che, a occhi chiusi, muove piccoli passi che si fanno via via prorompenti, prima che il mondo torni a ruotare dietro il suo sorriso. Non più in cerca di un altro Mr. Goodbar, né di un altro Egitto. 

Francesco Saverio Marzaduri

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