In ritardo per il cielo: HARDCORE

In ritardo per il cielo: Hardcore 


“I peccati non si scontano in chiesa. Si scontano per le strade, si scontano a casa. Il resto è una balla, e lo sanno tutti.” 
HARVEY KEITEL, Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì allinferno 

“Non c’è altro amore che l’amore di Dio. 
Non c’è altro amore che l’amore. 
Non c’è altro amore.  
Non c’è altro. 
CARMELO BENE, Salomè 

La conseguenza della stasi, concetto che è l’autentico fulcro del saggio critico di Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, implica che lo stile trascendentale al centro dell’analisi non sia determinato obbligatoriamente da nessuna delle fasi che lo compongono: le scene che rappresentano un evento specifico o una stasi finale non sono prerogativa dello stile trascendentale, laddove gli elementi formali dell’evento decisivo e della stasi possono affacciarsi in ciascuna opera. Qualora ciò avesse luogo – sottolinea Schrader – durante il procedimento la m.d.p. si distanzia dai protagonisti della vicenda narrata, dallo spettacolo immobile dell’ambiente naturale e da un senso di profonda unità di tutte le cose.
In questa prospettiva, risulta più facile interpretare Hardcore, seconda prova registica di Schrader dopo l’incoraggiante debutto con Tuta blu. Escludendo le eccezioni da sceneggiatore per Complesso di colpa di Brian De Palma e Rolling Thunder di John Flynn e quelle da regista di Affliction e Auto Focus, oltreché della citata opera d’esordio, l’intera filmografia di Schrader è segnata dalla prassi su cui si basa la sua tesi e dalle tre fasi che vi hanno luogo: i personaggi principali sono al centro di vicende che li riguardano, e tali vicende sono a loro volta scomponibili in uno stadio quotidiano, scisso e statico.
Inizialmente, i protagonisti sono inquadrati immersi nella propria quotidianità e, sovente, banalità, prima di attraversare la fase che li conduce alla separazione (reale o potenziale) dall’ambiente in cui sono calati. Lo stadio della scissione culmina in un evento specifico: i personaggi sono tenuti a misurarsi con un ambiente nuovo quanto non congeniale ai loro caratteri, temperamenti, convinzioni; tale stadio è indispensabile per giungere alla fase conclusiva, appunto la stasi – corrispondente all’estasi dei personaggi, giacché la visione cristallizzata della vita trascende la scissione e si spinge oltre essa, anziché risolverla.

Questo secondo momento può confrontarsi direttamente con l’ineffabile, ma non per questo il procedimento risulta più misterioso che nella prima e nella seconda fase. Ci sono un prima e un dopo molto chiari, un momento di scissione e un momento di stasi e, in mezzo a loro, un momento finale di crisi, evento decisivo che apre all’espressione del trascendente. Lo stile trascendentale in sé non ha niente di ineffabile né di magico: ogni effetto ha una causa individuabile da cui deriva, e se lo spettatore sperimenta la stasi, anche qui è per una serie di ragioni molto precise.”

Come sceneggiatore, Schrader mette in opera quanto già messo a frutto durante la stesura di Taxi Driver, nella narrazione di un reietto che cerca di sopravvivere al degrado della metropoli senza lasciarsene sopraffare; in Hardcore, Schrader sviluppa l’argomento in qualità, stavolta, di regista, e fa dell’opera una specie di collegamento ideale col film che l’ha imposto come sceneggiatore di vertice. Sin dall’incipit paiono convivere contemporaneamente elementi al centro delle (opposte e amatissime entrambe) filmografie di Ozu e Bresson. Il motore dell’azione è costituito da un atto che colpisce una famiglia, e più in generale la comunità di cui essa fa parte; e a condurla è un singolo personaggio alle prese con un milieu antipodico rispetto al proprio e costretto, senza alcun desiderio, a confrontarcisi.
Alla base intertestuale di Hardcore, vi è un’opera di Yasujiro Ozu, Crepuscolo di Tokyo, nel quale una ragazza fugge inaspettatamente da casa, manifestando la tristezza simpatetica che ammanta il rispettabile e poco comprensivo genitore; in entrambe le pellicole, la vicenda abbraccia un doloroso scontro fra genitori e figli destinato a sciogliersi nel finale. Al di là dei rimandi cinematografici, sebbene presenti, quella di Schrader è soprattutto un’opera che mette in luce le origini calviniste dell’autore. Quelli che appaiono dai titoli di testa sono i luoghi veri in cui è nato, la Grand Rapids in cui è ambientata la prima parte dell’opera, mostrata nella sua autenticità. Accompagnata, ironicamente, dalle note di Precious Memories, la cinepresa inquadra la cittadina in una fredda giornata invernale, attraverso una serie di campi lunghi e totali che mostrano paesaggi imbiancati, viottoli e strade innevate, insegne, costruzioni in stile olandese, ragazzini che si inerpicano su collinette con gli slittini o spalano la neve, finché l’obiettivo non stringe su alcuni edifici dedicati al culto.
Fotografia e inquadrature sembrano evocare la pittura paesaggistica americana, Hopper sopra tutti, e preludono di una ventina d’anni i fotogrammi iniziali di Affliction, pure nel solco di certa evocazione hopperiana. Mentre Affliction si svolge però interamente nel New Hampshire, l’ambientazione di Hardcore è scissa in due, Michigan da un lato e California dall’altro. Rilevante è l’apporto del direttore della fotografia Michael Chapman – prezioso collaboratore per Scorsese in Taxi Driver – che usa per i rispettivi ambiti un differente tono, freddo e livido nella prima parte, caldo e acceso nella seconda. Nella prima metà, i luoghi sono gli stessi dell’infanzia di Schrader che non ha fatto mistero, per parte sua, di una sensazione di profonda nostalgia, la medesima che spinge a definire la prima parte del film come una sorta di ritorno alle radici. Proprio nell’incipit, inoltre, sembra che il regista abbia utilizzato un buon numero di famigliari, amici e compagni di college: nell’episodio della riunione famigliare fa capolino la madre di Schrader, ed è un vecchio amico dell’autore a intonare al pianoforte un vecchio canto del collegio protestante.
Nel volume-intervista Schrader on Schrader & Other Writings, a cura di Kevin Jackson, il cineasta sostiene che l’alternanza di piani americani e medi coi quali la cinepresa mostra la comunità rimanda al bozzetto sarcastico con cui Renoir dipinge la piccola borghesia nel capolavoro La regola del gioco. Ma non vi è proposito di bozzettismo in Hardcore, dove tutto ha luogo nella più distaccata sincerità, e la fotografia di Chapman lavora in tal senso. Autentici sono alcuni brevi episodi vissuti dall’autore in prima persona, trasposti in modo pressoché identico; negli intenti di Schrader, questi episodi mettono a fuoco la rigorosa comunità calvinista nei suoi dogmi e fervori, nelle sue restrizioni e ingenuità; si fa riferimento preciso a raduni religiosi che si tengono realmente, e c’è un’immagine in cui il padre Jake (George C. Scott) è ripreso nell’atto d’intonare con la famiglia un canto sacro durante la funzione religiosa. Figura addirittura una sequenza in cui alcuni membri della comunità discutono al tavolo di cucina di questioni teologiche a proposito del peccato imperdonabile e della grazia. Schrader, qui, dirige ciò che da più tempo conosce e, fra le sue opere da regista, Hardcore è la più esplicitamente autobiografica.
Non mancano infatti indizi che rinviano all’attività agricola della famiglia del regista: in una sequenza, un ragazzino confida a un altro di preferire un’attività part-time di lava-macchine, pur di non lavorare nella coltivazione di sedani dello zio, la stessa per cui prosperavano i genitori di Schrader quando lui aveva l’età del ragazzino nel film. Non manca neppure una critica alla televisione e ai suoi fautori: lo zio di Kristen (Ilah Davis) assiste con lei e la famiglia a uno spettacolo televisivo, prima di alzarsi sdegnato per spegnere l’apparecchio, brontolando che a fare televisione sono soprattutto ex ragazzi della comunità calvinista, che preferiscono abbandonare la propria formazione e andare incontro a ciò che questa condanna. Nell’intervista rilasciata a Jackson, l’autore spiega che durante l’avvento della televisione, le famiglie osservanti estendevano la dottrina alle trasmissioni che i ragazzi guardavano, servendosene a scopo di ricatto morale; la posizione in apparenza agnostica di Schrader, conquistata gradualmente durante la giovinezza, è esemplificata da una locuzione dello stesso personaggio dello zio, espressa con sarcastica rassegnazione (“Televisione: tanto, se non la compri, loro se ne vanno in qualche altra casa a vederla!…”) e tale da potersi anche leggere come una piccola vendetta personale. Secondo l’opinione del regista, i provinciali che sfondano a Hollywood pompano televisione nelle case delle proprie famiglie allo scopo, sovente, di colpevolizzarle.
La sequenza si carica di significati particolari dato che, di lì a poco, la figlia di Jake scappa di casa per dedicarsi a una delle sfere più aprioristicamente condannate dal calvinismo – anche più della televisione. La fuga della ragazza non può non avere margini autobiografici, da individuarsi nella scelta di fuga compiuta dal giovane Schrader nel mondo esterno, lontano dalle restrizioni che per lungo tempo hanno pesato sulla sua giovinezza. In sostanza, l’elemento autobiografico rimanda alla scelta drastica che ha indotto Schrader ad allontanarsi dalla comunità natale per calarsi in ambiti considerati destabilizzanti da essa. L’improvvisa fuga di Kristen come gesto di sfida e rivolta è la proiezione della scelta di Schrader di ribellarsi alla volontà paterna e, sebbene mostrata in pochissimi momenti, la ragazza stessa non è che la proiezione mimetica del regista. Come riprovano gli epiloghi di molti suoi film, non ultimo questo, Schrader non ha scelto un rifiuto sistematico dei tradizionali valori americani, ma più semplicemente ha preferito allontanarsene per qualche tempo, per poi tornare ad essi accettandoli: solamente dopo un amaro, rabbioso sfogo nei confronti del padre, dopo cioè lo scioglimento di una tensione covata per troppo a lungo, Kristen si lascia convincere a tornare alla famiglia e alla comunità, per riprendere una vita chissà se felice e sino a quanto.
Nella sua giovinezza, Schrader si è staccato dal focolare per amore del cinema e, in quest’ottica, l’elemento autobiografico della fuga di Kristen risulta doppiamente metaforico: prima ancora che verso un brutale abbattimento di valori avvertiti, ormai, come insopportabili, la fuga della giovane è orientata verso la mecca dei sogni, il cinema, poco importa se pornografico; i conti tornano, tanto più se l’agnizione di Jake sulla fuga della figlia e la sua attività del momento ha luogo, ironicamente, in una sala cinematografica – e anche qui poco interessa se a luci rosse. Se l’arte, e dunque il cinema, è un semplice riflesso della realtà, dunque un suo specchio, è possibile contemplare il reale (secondo Schrader, trascenderlo) tramite l’arte: in questa prospettiva le vicende narrate dal regista, e la catarsi di quasi tutte le figure in gioco, vedono la realtà degli affetti e delle passioni anche più negative sublimate da una mise-en-scène di storie quotidiane, a loro volta specchio della realtà.1 L’improvvisa defezione di Kristen si rivela perciò evento cardine, necessario perché abbia luogo la fase della scissione. Nell’apporre l’elemento-fuga sullo sfondo di una ricorrenza tradizionale e sacra come il Natale, sembra quasi che Schrader non voglia tanto (o soltanto) prendersi gioco del concetto di armonia familiare, bensì abbatterlo corrodendo il fattore famiglia-comunità dall’interno, confondendone i codici, scompigliandone l’ordine attraverso una serie di unità narrative riferibili a un quid sinistro. La normalità quieta e pariforme della comunità di Grand Rapids, intrisa di fervore mistico, è segnata da un momento all’altro come l’esistenza stessa (ordinata e preordinata) del protagonista.
Se l’immagine della famiglia è qui posta in discussione, le visioni che dell’ambiente pornografico vengono offerte non lasciano spazio a infingimenti o ad illusioni di umanità e il finale, in cui Kristen si riunisce al padre, rimescola il mazzo e ridistribuisce le carte celebrando la vittoria di quelle tradizionali (e oppressive) virtù americane che, per l’intera durata del film, lo spettatore è stato indotto a guardare con diffidenza e sospetti non minori di quelli riservati al mondo della pornografia. In questo senso, Hardcore detiene un atteggiamento morale bizzarro ed estremista, poiché le uniche due possibilità di scelta presentate consistono nell’onestà refrattaria e irritante di Jake o nell’estrema depravazione dei pornografi, e una terza via non viene data.
Apparentemente, l’atteggiamento rigido e restrittivo di Jake fa camminare il suo personaggio sul filo della sgradevolezza, ma poco a poco si fa largo l’idea che quanto si vede si attenga al punto di vista di lui: la predestinazione professata da Jake, che è alla base dell’opera e nella quale l’uomo dichiara di credere con fervore, risulta l’unica maniera per accedere alla purezza. Hardcore – si è detto – costituisce un collegamento ideale con Taxi Driver: il sottobosco di Los Angeles che lo spettatore vede illustrato non è altro che la rappresentazione monoculare di Jake per come lo intende e lo assimila; di conseguenza, la condanna di Jake alla pornografia, che culmina nel trionfo delle virtù tradizionali, è riconducibile unicamente al suo punto d’osservazione. Da segnalare che soltanto in conclusione questo punto di vista si scopre essere l’opinione di Schrader, che conferma un’adamantina visione moralista; eppure, questa seconda chiave di lettura può svelarsi solo in ultima analisi poiché solo al termine emergono gli ultimi e decisivi elementi di comprensione. E al pari di Taxi Driver, Hardcore ribadisce la predilezione del regista per i doppi finali, le cui interpretazioni risultano spesso intelligentemente contrarie a quelle cui lo spettatore è condotto. Lo spunto iniziale di Taxi Driver è concepito in modo che il degrado urbano della Grande Mela risulti monoculare, filtrato con gli occhi e assimilato col pensiero di Travis Bickle (Robert De Niro); nel finale, una volta che si è visto il taxista eliminare un po’ di brutta gente, si è indotti a dimenticare che la sua azione è vendetta e non giustizia, non redime né serba alcuna aura di purezza, ma è il gesto di un balordo solipsisticamente convinto di rendere migliore il mondo, laddove lo rende unicamente più sporco e infettato finendo col diventarne, in qualche modo, l’effigie. Come in Taxi Driver, la piccola prostituta – ossia l’anima dello stesso Schrader – è salvata, ma questa volta non è il gesto di un pazzo, bensì la perseveranza di un morigerato genitore del Middle West a saldare i conti.
Anche in Hardcore lo sguardo di Schrader è dichiaratamente moralista, ma ciò non vuol dire che il film risulti privo d’ironia: proprio nel disegno di una pornografia condannata a priori, il regista inserisce certi tocchi di humour che colorano di sarcasmo la propria posizione. Così com’è presentata nel film, la pornografia elevata al rango di arte è paradossalmente plausibile quando l’arte si fa pornografia, includendo la mercificazione del genere hardcore come un qualsiasi prodotto artistico destinato al migliore offerente; ancora, l’idea assurta a luogo comune secondo cui, per lavorare nell’ambiente del cinema, non sono propriamente richieste qualità artistiche.
Nel primo caso, si pensi alla sequenza in cui Ramada (Leonard Gaines) commenta col segretario le quotazioni che i film porno da lui distribuiti raggiungono sul mercato americano, e al linguaggio spicciativo, triviale e unicamente interessato al lucro che questi adopera. Il secondo caso riguarda i finti provini che Jake organizza per individuare l’interprete del blue movie con la figlia, e di fronte al meschino scorre una passerella di personaggi d’ogni sorta, culturisti e pederasti, biondini ipervitaminizzati che non esitano a esibire il sesso al finto regista come se la selezione dipendesse da quello, culturisti di colore che si piccano di avere “un uccello lungo dieci pollici” e si atteggiano a divi. In Hardcore, l’ironia ha la funzione di sdrammatizzare sguardi comunque impietosi e spinti al massimo sull’argomento, e anche la scena del set su cui si reca Mast (Peter Boyle) per avvicinare Ramada e carpirgli informazioni ne è intrisa, col produttore e il regista che istruiscono le “attrici” come se si trattasse di girare un’opera intellettuale – non manca un personale regolamento di conti con UCLA, il cui logo è stampato sulla maglietta del film maker. La scena include pure una citazione da Blow-Up del molto ammirato Antonioni (non per nulla, sarcasticamente citato dallo stesso Ramada, nell’edizione originale del film), nella sequenza del fotografo che dà le direttive alla modella tra uno scatto e l’altro; oltrepiù, l’uso delle luci che ricoprono lo studio di posa nel chiarore più abbagliante rimandano alla fotografia di Carlo Di Palma.
In Hardcore trova già un compimento la messinscena di amplessi sessuali immortalati da un obiettivo, includendo una quarta parete che permette al pubblico, contemporaneamente, di scrutare lo sguardo di Schrader sulla messinscena e quindi l’occhio dei suoi organizzatori e osservatori. Questa defilata specularità voyeurista si ritroverà venticinque anni più tardi in Auto Focus; lo specchio segreto – pur sotto multiformi, diagonali e straniate maniere – si ritrova in altri film che costantemente giocano con lo sguardo bivalente del regista e dello spettatore, da Il bacio della pantera a Cortesie per gli ospiti.
In sostanza, l’argomento della pornografia è sviluppato mimeticamente, come allegoria di quello che il cinema per Schrader sembra diventare o è diventato – come ulteriormente sembra confermare la sinistra apparizione di uno snuff movie, il genere di pellicola che immortala torture e ammazzamenti organizzati per la loro specifica messa in scena. Da tutta questa serie di elementi, la pornografia scaturisce come entità che permette a Schrader di mettere a nudo l’immagine del proprio massimalismo etico. Come acutamente commenta Giona A. Nazzaro:

Che poi il cinema sia – crudelmente, genialmente – identificato tout court come pornografia non dovrebbe affatto scandalizzare. Quante volte è stato affermato che il cinema rivela l’anima delle persone? E se ciò fosse vero, non si tratterebbe di un terribile, scandaloso atto di pornografia terminale che oltretutto interferirebbe con i disegni divini?”

Il cinema disvela, dunque viola intimità, dunque è intimamente (l’etimologia lo conforta) pornografia. A fare la differenza sono elementi quali appunto l’ironia, che affiora qui da piccole e inattese sorgenti, da dettagli talvolta impliciti eppure avvertibili sin dall’inizio, avvertimenti predisposti, segnaletiche poste in essere allo scopo di informare che quanto si sta vedendo non è un apologo roseo. Già il titolo, che non presenta articoli determinativi, suggerisce esplorazioni della pornografia a tutto campo, mentre il motivo sui titoli di testa – la citata Precious Memories che accompagna scene di festa e allegria – sembra avvisare che quanto si sta vedendo è destinato a tramutarsi di lì a poco in un ricordo prezioso, ché i momenti di gioia si muteranno in ansia e disperazione e, in seguito, in tensione e violenza. L’uso del medesimo brano nel finale accompagnerà poi Kristen nel suo ritorno ai luoghi di una memoria ridivenuta preziosa, e sono le uniche due occasioni in cui il brano fa da colonna portante; per il resto, l’accompagnamento sonoro di Jack Nitzsche – già ottimo collaboratore di Schrader per Tuta blu – alterna una partitura che, nella prima parte, richiama toni religiosi, prima di farsi sporca e spingere sul pedale dell’heavy nella seconda, quando la ricerca di Jake della figlia si trasforma in una graduale discesa agli inferi.
Se Hardcore è un’opera scindibile in due contrapposti momenti, quasi fossero lampi su due differenti e antipodiche realtà americane, si deve infatti anche alla colonna sonora, oltre all’uso cromatico nella fotografia. Le musiche lente e melodiose che nell’incipit sembrano richiamare gli inni sacri cambiano registro a metà film, assumendo tonalità opposte nella parte di Los Angeles e rimarcando il clima di solitudine, disperazione e progressiva alienazione del protagonista alle prese con la propria Via Dolorosa. Ma ciascun elemento è al servizio dell’atmosfera sinistra che informa l’opera di sé, e già la battuta di Jake (“Sono in buone mani, almeno…”), quando il pullman di Kristen s’allontana, è spia di un quid insidioso che sta per minare la sua vita, il presagio di un destino spiazzante che osserva malevolo la sua tranquillità e si prepara a travolgerla. L’atmosfera tesa fa pensare che qualcosa di sinistro da un momento all’altro succederà; la stessa presentazione della comunità calvinista risulta troppo quietamente felice per non far pensare a una negatività imminente.
Hardcore – non si dimentichi – non vuole porsi come spaccato né della provincia americana calvinista né del sottobosco della pornografia, anche se lo sguardo del cineasta su questi due mondi risulta tanto efficace quanto lucido. Come Tuta blu, questo film si presenta come una specie di noir, uno dei generi cinematografici non a caso prediletti da Schrader, e ha molte unità in comune con l’opera d’esordio: Tuta blu, da un lato, è un acuto thriller sullo sfondo di un corrotto ambiente sindacale, dall’altro è un efficace quanto avvincente saggio sull’alienazione. Anche Hardcore presenta un’analoga duplice facciata, essendo di fatto un thriller sul bivalente sfondo d’ambiente religioso e pornografico, presentandosi contestualmente come saggio sulla graduale alienazione del protagonista, appartenente a uno dei mondi in esame e sempre più costretto a immergersi in quello che non gli è proprio.
Ulteriore intertestualità con l’opera prima si rileva nella scena in cui Jake incontra Ramada spacciandosi per un possibile finanziatore, e racconta d’essere azionista di una fabbrica di viti che lavora per un’industria automobilistica di Detroit – la stessa in cui si svolge Tuta blu. Schrader ha poi avuto modo di raccontare come la maggior parte dell’attività industriale di Grand Rapids fosse appunto quella di produrre componenti necessari alla grande industria, e che mezza città era in pratica un satellite produttivo di quella automobilistica. Sono riferimenti piuttosto precisi che fanno pensare a Hardcore come al passo seguente e coerente di un discorso narrativo sulle proprie radici iniziato con Tuta blu e ripreso molto più avanti, con La luce del giorno, che Schrader dedicherà a sua madre come Hardcore viene girato pensando al padre (per ironica combinazione, analoghi sono i magri incassi per ambedue: “Ritengo che entrambi abbiano fallito al botteghino perché troppo personali”).
Jake Van Dorn è tenuto a misurarsi con un ambiente nuovo, radicalmente distante da quello illustrato nelle prime scene del film. Se la scena conclusiva coincide con una fase di stasi è perché la redenzione morale di Jake ha luogo soltanto col ritrovamento di Kristen, dopo un processo marcato da pena e fatica; affinché questo procedimento compia il suo percorso in modo impeccabile, occorre che il momento specifico in oggetto riguardi l’aura di tranquillità rimarcata dall’incipit per poi scagliarsi, inattesa e violenta, sull’equilibrio esistenziale della famiglia. Spiega Schrader:

Se la quotidianità fosse fine a sé stessa, costituirebbe uno stile a sé piuttosto che un semplice elemento all’interno di uno stile e l’artista vedrebbe la vita realmente deprivata di qualunque significato, espressione, dramma o catarsi, come avviene nei primi film di Warhol. Ma in quanto parte dello stile trascendentale, la quotidianità è chiaramente il preludio al momento di redenzione in cui la realtà ordinaria verrà trascesa.”

Oltre a consentire a Jake di passare allo stadio della scissione, la scomparsa della figlia è anche il reagente che gli permette di calarsi in un ambito discrepante e mettere alla prova la fede nei propri dogmi. Eppure, quand’anche fossero le più indefettibili convinzioni a determinare la ragione di vita di un individuo, i precetti risultano più facili a professarsi che a essere praticati. In una sequenza, l’uso del primo piano stringe sul volto di Jake, mettendo in rilievo la realtà psicologica del personaggio; trascorso qualche tempo dalla scomparsa della figlia, Jake è consolato dal cognato (il Dick Sargent della serie tv Vita da strega): “Lo sai che è difficile per noi comprendere le vie del Signore – gli dice – ti ha messo alla prova e devi aver fede…” Dapprima perso nel vuoto, lo sguardo dell’uomo punta sconsolato quello del parente, cui risponde: “Tu ne avresti? Potresti?” In questo fugace scambio di battute, primi piani, campi e controcampi, trapela un momento di verità in cui emerge la nitida visione delle macerie morali di Jake, prima che la m.d.p. si allontani dai personaggi al centro del quadro con un campo lungo. Come in questo, anche in altri momenti del film i primi piani sono riservati ai volti dei personaggi, negli istanti in cui è concesso loro di acquistare coscienza delle proprie azioni, di sé stessi e di coloro che gli stanno attorno.
A ben guardare, Jake non è persona moralmente ineccepibile, o non totalmente, e lo spettatore se ne rende conto (o dovrebbe) già nelle sequenze iniziali. Nella fabbrica di mobili, per ottenere un pannello pubblicitario differente da quello scelto dall’impiegata, Jake mette in imbarazzo la donna ficcanasando nel suo privato, e ottiene quel che si prefigge utilizzando espedienti e comportamenti ruffiani, in ciò manifestando un’attitudine che lo renderà credibile quando si spaccerà da ruffiano per meglio navigare in un ambiente di ruffiani. Altro esempio è fornito dalla breve sequenza in cui Jake pubblica l’inserzione che annuncia il casting di un film porno: dietro la maschera di circostanza è comunque evidente il disagio che prova, accentuato da una commessa che legge ad alta voce l’annuncio nel più totale distacco. Jake deve prendere atto che in un mondo così lontano e così vicino i tabù non sono soltanto abbattuti, ma resi manifesti e categorizzati alla voce normalità: editare un’inserzione su un hardcore o un servizio da gigolo – come fa il tizio in fila prima di Jake allo sportello – è possibile senza imbarazzi.
Nella scena dei falsi provini, la reazione violenta che ha Jake verso il porno-partner della figlia è un’improvvisa, accecante manifestazione di verità che squarcia il velo della finzione, ma anche la dimensione della pantomima; mediante il montaggio, il primo piano consente di cogliere la patina più verace del personaggio, quella di un individuo debole le cui idee religiose e la fede nei dogmi appaiono soltanto un mero scudo alla sua violenza repressa, che si rivela l’unico strumento per il ritrovamento di Kristen. Nel momento in cui, riconosciuto l’individuo che cerca, lo malmena e lo trascina sotto la doccia, la cinepresa inquadra l’uomo che impugna lo spinotto e apre il rubinetto, il getto dell’acqua che investe il giovane e questi che, un attimo dopo, implora di non essere pestato: la m.d.p. lo riprende dall’alto al basso, a sottolinearne l’impotenza e, di converso, la posizione aggressiva e incombente di Jake sulla sua faccia tumefatta. L’obiettivo torna poi ad inquadrare Jake che brandisce lo spinotto, come minaccia di ulteriori percosse qualora il giovane non dica tutto quel che sa.
Attraverso un gioco di finzioni e maschere culminante in una reazione violenta, Jake perviene all’assunto che per trovare qualcosa e pervenire alla verità sia indispensabile mimetizzarsi con la deprecabile fauna del sottobosco, inventarsi un’altra identità, poiché è l’unico modo per uscirne. Bisogna aggiungere che, dopo averlo tramortito con la lampada, Jake non infierisce sul giovane come potrebbe ma si limita a infilarlo sotto la doccia, allegoricamente depurandolo in una sorta di lavacro della sporcizia che vede in lui, sporcizia i cui schizzi hanno lordato la sua vita e la sua comunità. A sua volta, il giovane supplica di non volere altre botte ma quel che non desidera veramente è che la doccia – la purificazione – continui, perché ciò che a Jake risulta sordido è il suo unico mondo e l’unica maniera a disposizione per sbarcare il lunario. Se è vero infatti che la verità emerge da una costola della finzione – e per arrivare alla prima occorre inoltrarsi nel territorio della seconda – i momenti di esplosione di violenza non fanno che sottolineare i falsi contesti pantomimici inscenati da Jake in cui l’uomo, riluttante, è costretto ad agire.2 Proprio il primo piano permette di giungere alla reale sfera psicologica del personaggio che, una volta gettata la maschera nel finale, perviene alla verità sulla figlia. Ma quello a cui in realtà Jake perviene è la nudità della sua anima.
Dopo Hardcore, all’interno della filmografia schraderiana l’elemento-maschera, il fattore mimetico, riapparirà sotto molteplici aspetti, e già nel film successivo, American Gigolo, l’autore avrà modo di utilizzarlo e svilupparlo per definire meglio l’identità reale dei protagonisti. D’altronde, l’elemento-maschera appare già nei lavori di Schrader come screenplayer. In Taxi Driver, numerosi sono gli episodi in cui Travis interagisce con quanti incontra assumendo identità e atteggiamenti di volta in volta diversi: quando fa conoscenza con Betsy (Cybill Shepherd) per la prima volta, quando s’imbatte in un guardaspalle del senatore Palantine (Leonard Harris) con atteggiamenti carichi di ambiguità, quando rapato quasi a zero e in incognito tra la folla tenta invano di uccidere il senatore e, infine, quando affronta “Sport” (Harvey Keitel) con piglio da supereroe.
Inoltre, in Complesso di colpa, il travestimento interpretato come falsa identità e fattore di personalità doppiogiochista è rintracciabile nei personaggi di Sandra (Geneviève Bujold) e di Robert (John Lithgow), il socio d’affari di Michael (Cliff Robertson); in L’ultima tentazione di Cristo, figura una situazione di mascheramento nel personaggio dell’angelo-bambina che libera Gesù (Willem Dafoe) e che nel finale si rivela il Maligno. Laddove in questi due film la maschera smarrisce la sua funzione gradualmente per ricondurre lo spettatore alla reale natura dei personaggi, per contro, in Taxi Driver tale funzione è pressoché assente e il gioco della pantomima è svelato fin dall’inizio, sebbene in un contesto iperrealista che esaspera le qualità mimetiche fino a ottenere suggestivi risultati illusionistici, e mettendo in crisi la possibilità di distinguere il reale dalla sua rappresentazione.
Dalla finzione è possibile risalire alla verità e all’ordine delle cose, ma perché emerga nitido il vuoto morale del personaggio, occorre camuffare la realtà; soltanto in questa maniera, essa giunge improvvisa e inattesa. Quand’è così, allora anche le scene di allegria che aprono Hardcore non sono che barlumi stentorei di una serenità destinata a svanire molto presto. Nonostante l’unica esistenza plausibile per Schrader sia dettata dalle virtù tradizionali casa-chiesa-famiglia che si scorgono nell’incipit, ciò si rivela soltanto dopo il confronto tra padre e figlia. Dalle parole di Kristen risulta che la vita a cui il padre la relega non è foriera di felicità ma di sofferenza e castigo, intrisa di falsità quanto la stessa pornografia. Quel che trapela dallo sfogo è il dramma di una condizione imposta per forza: la realtà dei fatti si fa luce nel parallelo col genitore, una volta che a entrambi è caduta la maschera. E già nell’introduzione del film un indizio permette di capire quanto le certezze di Jake siano costruite sulla sabbia. Nella scena in cui Mast fa vedere a Jake l’hardcore di cui Kristen è protagonista, il fugace montaggio alterna una serie di fotogrammi: le immagini del film che scorrono a passo ridotto sullo schermo, il primo piano di un Jake incredulo, quello di Mast il cui sguardo impassibile si rivolge in direzione di Jake, la panoramica che coglie questi di nuca mentre assiste alla proiezione in quinta, la luce del proiettore che taglia l’oscurità, il totale che ferma i tre componenti – Jake, Mast e il proiettore – nel buio della sala; per ultimo, la m.d.p. stringe sul volto del genitore, progressivamente condotto alla delusione, alla vergogna, alla costernazione (“Oh, mio Dio!… Non può essere… Cosa ho fatto io?… Lo faccia fermare… Lo faccia fermare… oddio!”).
Jake non riesce a credere che la ragazza che vede sullo schermo, spogliata e violata da giovinastri sconosciuti sia la figlia; comprende con sgomento di avere fallito come padre, fondando le proprie certezze su valori facilmente riducibili a macerie. La scelta di Schrader di mostrare per ultimi i passaggi espressivi di Jake dall’orrore allo sdegno, dal dolore alla collera, rivela allo spettatore la concreta realtà delle cose. La rabbiosa reazione finale dell’uomo coincide con la coda del filmino nell’attimo in cui lo schermo torna bianco e illumina il volto di Jake, la cui anima è simbolicamente messa a nudo dalla disperazione: lo schermo bianco funge da riflesso dell’anima del protagonista, ma la luce stavolta non è quella della grazia.
Dopo la proiezione, quando Mast presume che Kristen potrebbe non risultare più la candida ragazza che il genitore crede, la certezza nei valori in cui Jake ripone fiducia comincia a vacillare, come suggerisce il fotogramma in cui l’immagine dell’uomo appare deformata su uno specchio del cinema; pure quest’elemento simbolico predispone lo spettatore alla progressiva trasformazione cui Jake va incontro. Dopo Hardcore, l’elemento-specchio apparirà in altre opere, più spesso come oggetto che riflette l’immagine dei personaggi – come mostrano American Gigolo e l’incipit di Mishima – Una vita in quattro capitoli, in cui lo scrittore si veste accuratamente e, una volta a posto, si specchia compiacendosi fiero del proprio aspetto – ma anche quando essi, specchiandosi, compiono gesti dai quali si evince la presa di coscienza della loro identità (come ne Il bacio della pantera e in Affliction). Quando non in questi frangenti, lo specchio riprende la sua connotazione primaria e si rivela semplice elemento funzionale a passaggi narrativi specifici e salienti, come in uno dei capitoli di Mishima in cui una ragazza pone lo specchio sul torace nudo del giovane amante per riflettervi il seno e immaginarlo sul corpo di lui3; anche riprendendo la caratteristica di base, lo specchio è elemento metaforico che consente di mettere l’accento sul destino (sinistro o benevolo) del protagonista, come risulta da un’inquadratura de Lo spacciatore.
È indizio polisenso, bidimensionale e metanarrativo per la storia narrata – Cortesie per gli ospiti lo confermerà – tramite il quale lo spettatore è facilitato a realizzare la chiave di lettura dell’assunto. A onor del vero, già come sceneggiatore Schrader s’interessa dell’elemento-specchio; non si dimentichino le caratteristiche da questo ricoperte in Taxi Driver e Toro scatenato: in entrambi i casi, lo specchio riflette l’immagine di due uomini che, trovandosi di fronte la loro icona, ci giocano scambiandola per il loro doppio o antagonista, immaginando si tratti della figura di un personaggio da sopprimere; Travis Bickle si esercita con la pistola, mimando un dialogo fittizio con l’immaginario antagonista (“Ma dici a me?… Ma dici a me?… Ehi, con chi stai parlando? Dici a me?…”), Jake La Motta tira di boxe mimando alcuni colpi a vuoto (“Fatti sotto, campione… Sono il più forte, il più forte!”). Sempre in Toro scatenato, lo specchio riacquista la sua connotazione di base nella sequenza in cui, rimasto solo nello spogliatoio dopo un incontro, Jake si guarda perplesso allo specchio, prima d’immergere una mano in un secchio in cui galleggiano alcuni cubetti di ghiaccio; nell’epilogo di Taxi Driver, quando Travis accompagna a casa Betsy in taxi, lo spettatore scorge per una frazione di secondo riflesso nello specchietto retrovisore lo sguardo del protagonista, che però è distolto quasi subito, un attimo prima che scorrano i titoli di coda.
In Hardcore, lo specchio è chiarificatore del lungo e insidioso travaglio che Jake compie, di lì a poco, nel suo pellegrinaggio a Los Angeles, sentina di vizi in cui forse smarrirà l’iniziale aura virtuosa; la m.d.p. inquadra infatti l’aereo del protagonista mentre atterra lentamente, prefigurazione di una discesa (agli inferi) graduale e irreversibile. In tale prospettiva, Jake assume connotazioni dantesche, giacché il Poeta esplora gli anfratti e le vie di un regno teoricamente proibitogli in quanto vivente (e sotto il profilo trascendente è vivo, alla vita divina, solo il predestinato). L’hardcore si configura di per sé, agli occhi di Jake, come una bolgia, il primo dei gironi in cui s’imbatterà cammin facendo; prima che la traumatica verità su Kristen si faccia luce per Jake, il piano-sequenza in cui questi e il detective si addentrano verso il cinema porno ha un piglio dantesco, con Mast novello Virgilio che guida il suo cliente nel regno della perdizione, ma l’investigatore smarrisce quasi subito tale valenza in quanto Jake vuole addentrarsi da solo in quel regno. Non può farlo però per lungo tempo e, nell’incontro con Niki (Season Hubley), si serve di una guida; quindi, la funzione di Virgilio che Mast per qualche momento riveste, è assunta dalla prostituta.
Si è puntualizzato che Hardcore è debitore di Taxi Driver, tanto che i camera car che mostrano Jake intento a bazzicare in auto i quartieri più malfamati della città rimandano ai pellegrinaggi di Travis nei vicoli di New York, quest’ultima come la Los Angeles inquinata dalla droga e dalla prostituzione, dalla criminalità e dal vizio. Si è anche osservato che, nell’opera di Scorsese, lo sguardo di Schrader come sceneggiatore è indirettamente (ma non troppo) moralistico; in Hardcore, invece, l’autore spinge il pedale su un tono dichiaratamente più esplicito. Se poi l’ambito della prostituzione si accompagna a quello della pornografia, figure sinistre come Ramada o contorte come Ratan (Marc Alaimo) sono la variazione del mezzano “Sport” di Taxi Driver, così come una valida trasposizione del personaggio interpretato da Keitel è offerta da Leon (il futuro regista Bill Duke) nell’opera di Schrader successiva a Hardcore, American Gigolo.
I momenti più drammatici e tesi del film sono quelli che inquadrano Jake nei luoghi abituali del vizio. Ogni giro o movimento del protagonista in quelle sordide vie è reso da zoom rovesciati e carrelli all’indietro, attraverso i quali Schrader prende le distanze da quanto mostrato. In seguito, la m.d.p. effettua panoramiche e piani-sequenza che focalizzano macchinette di hardcore a gettoni, bordelli e sexy shop, sale cinematografiche a luci rosse e negozi porno. Questi passaggi risulterebbero privi della stessa impressionante veridicità senza il contrappunto della fotografia e della musica: le tinte forti e accese con prevalenza di rosso, blu e verde si amalgamano efficacemente con i ripetuti colpi sonori di moog e, soprattutto, coi riff dirompenti delle chitarre elettriche.
La colonna sonora accompagna tutti i momenti più tesi e violenti, in più d’una circostanza anticipando o sottolineando gli inattesi o calcolati gesti di violenza di Jake; una volta compiuti, la musica s’interrompe all’improvviso poiché la sua funzione è di sottolineare la tensione dominante. Nella citata scena dei finti provini, quando Jake malmena l’attore per farsi dire dov’è Kristen, la musica cresce contestualmente alla tensione fino a farsi, come questa, incontenibile; quando il giovane nega di volere lavorare di nuovo con “quella schifosa puttana” alludendo a Kristen, la cinepresa stringe sulla mano di Jake che afferra una lampada: la musica aumenta di volume per cessare a un tratto, quando l’uomo colpisce l’attore con il lume. Analogamente, nella sequenza in cui Jake individua Tod (Gary Rand Graham) nel bordello, la panoramica di stanzette avvolte nella semi-oscurità, o illuminate da colori accesi che vanno dal blu al verde, prima di arrivare all’ultima in cui Jake scova il suo uomo, è accompagnata da un lento crescendo di toni e volumi. Durante la colluttazione tra i due, la musica s’interrompe di nuovo, lasciando che ad accompagnare l’inseguimento tra Jake e Tod siano i colpi sonori del sintetizzatore. Scandita per intero dal ralenti, la sequenza mostra il protagonista sfondare letteralmente le pareti in cartone delle stanze, prima di raggiungere Tod all’esterno e malmenarlo.
Sia nel primo che nel secondo caso, la partitura sonora e la fotografia utilizzano un montaggio secco e rapido; in altri passaggi, come nella scena in sottofinale in cui Jake arriva a Ratan, la m.d.p. esegue un breve carrello in avanti, a sottolineare la meta ormai raggiunta dal protagonista: in compagnia di Ratan c’è Kristen in abiti discinti, e la cinepresa inquadra prima l’uno poi l’altra. Partendo da primi piani, la camera stringe poi sui volti dei personaggi onde rivelare la realtà psicologica di essi e la loro dimensione più autentica e nascosta. Il mondo della pornografia non permette rapporti di vera umanità, i sentimenti sono banditi e la sola cosa che conta è il business: tutto si baratta e si mercifica al migliore offerente. Nel suo ingresso a Los Angeles, Jake si rende conto subito che ogni cosa ha un prezzo, e difficile risulta chiedere un’informazione senza che commessi o prostitute non gli oppongano richieste di pagamento anticipato o intimazioni di carattere sessuale.
L’ingresso in quell’abisso ha un prezzo, come se per andare alla ricerca della propria anima, Dante dovesse pagar pedaggio ai diavoli di guardia alle porte di Dite. Una volta che entra in un videonoleggio di nastri hardcore, Jake deve anticipare mezzo dollaro, ma quando si allontana perché non trova le informazioni che gli servono, il gerente glielo restituisce sgarbato. Ancora, nelle visite ai bordelli, il protagonista s’imbatte di continuo in puttane che gli propongono contatti di tipo “corpo a corpo” e sciorinano meccanicamente tariffari (“Venti dollari mezz’ora, trenta dollari un’ora. Accettiamo carte di credito…”), senza che nessuna lo indirizzi sulla buona strada. Una di esse, anziché rispondere alle richieste di Jake, lamenta di non guadagnare abbastanza, avendo bisogno di più denaro per quando si finisce dentro, incastrati dai poliziotti: ma è soltanto una scusa per spillare a Jake più soldi e spogliarsi con la minor partecipazione possibile.
Jake non soltanto non ottiene niente, ma si sente deriso quando capisce che la prostituta non può aiutarlo, e una volta colto da un soprassalto di moralistica furia, è trascinato da un energumeno fuori dal bordello. In tale sottobosco non c’è posto per le chiacchiere, informazioni comprese, e Jake è cacciato sia dal casino che dal videonoleggio. Imbonimenti e tariffari con cui l’uomo è accolto in ambo i luoghi sottolineano la non comunicabilità dell’ambiente pornografico con il mondo esterno, e l’impossibilità di Jake, in quel milieu, di relazionarsi col prossimo servendosi degli strumenti che conosce. Prima di inventarsi un’identità che gli faciliti le cose, questi realizza di trovarsi impotente in uno spazio a cui le persone come lui sono estranee. Si è rilevato che la seconda metà del film s’ispira al cinema di Antonioni – osservazione giusta, se si pensa all’impossibilità di Jake di stabilire contatti con ciò che lo circonda.
Prima ancora di assistere all’hardcore che gli permette di fare luce su Kristen, Jake è ripreso nella stanza della figlia mentre cerca un indizio che ne chiarisca la scomparsa: la sua immagine è colta in uno spazio neutro che pare opprimerlo, tale è la sua imponenza e, a sua volta, sottolinea la solitudine del personaggio, che si traduce da una parte nell’impossibilità di colmare lo spazio con la propria figura onde non subirne le dimensioni, e dall’altra nella difficoltà di trovare qualcuno con cui condividerlo per renderlo meno esteso. I tanti allegorici momenti che fissano Jake in luoghi troppo grandi che, con crudele evidenza, ne rimarcano la condizione di figura isolata, indicano la sua situazione di disorientamento e spaesamento. Il senso di solitudine che pervade il protagonista in una stanza d’albergo, intanto che un apparecchio televisivo trasmette un coro di ragazzini che intona un inno, sottolinea la sua lontananza dal mondo che si è lasciato alle spalle senza sapere quanto di esso ritroverà, cosa di esso resterà, al termine di un percorso che mette in dubbio la stessa possibilità di mantenere inalterato almeno qualcosa della propria scala di valori.4 
L’esser parte integrante di quel contesto prevede, da parte di Jake, non solo la perdita di un’immagine, ma una necessaria selezione atta a conseguire un correlato oggettivo che contribuisca a formulare la cifra della crisi, della perdita e dell’assenza. L’inatteso incontro con il cognato che individua Jake in un infimo locale di Los Angeles segna un ritorno provvisorio alla normalità, un aggancio col passato, ma nulla è più come prima: infiltrandosi in un mondo che non gli appartiene, Jake si sporca l’anima e per ritrovare la figlia deve compiere una full immersion che non implica ai due emisferi contrapposti alcuna rotta di collisione; perciò, l’uomo si avvicina al parente e lo abbraccia, ma solo per sussurrargli di andare via, prima di allontanarsi da lui e congedarlo con freddezza.
Come si è osservato nel primo capitolo, nel cinema di Schrader molto spesso figura il fattore intrusivo, la cui presenza finisce per stravolgere quasi sempre l’assetto contestuale della vicenda. In Hardcore, all’interno della pornografia, Jake rappresenta l’elemento alieno, rappresentante di una tipologia umana che tale ambiente relega ai margini o tiene il più distante possibile. L’inserimento del protagonista in un mondo che gli è estraneo e di cui poco comprende rinvia al primo script di Schrader, Yakuza, il cui intreccio sullo sfondo di un contesto noir vede lo svolgersi di un mutuo disvelamento tra i rappresentanti di opposte mentalità; ancora, in Mosquito Coast, si pensi all’impossibilità di Allie (Harrison Ford) di conciliare il progredito mondo occidentale con la primordiale cultura degli indigeni. In Hardcore questo scambio è fornito, soprattutto, dal confronto di caratteri tra Jake e Niki, che rimanda al citato Crepuscolo di Tokyo di Ozu quale esempio d’intertestualità e in cui il raffronto tra un padre e una figlia pone entrambi in una situazione di comune dolore; nel film di Schrader, il confronto tra Jake e Niki – al di là del mimetico rapporto padre-figlia che li unisce – non è privo di momenti unificanti e convergenze ideali.
A suo modo, la ragazza è persino religiosa: dice di far parte di una setta new age, anche se Jake non le presta ovviamente attenzione, e appare sinceramente interessata quando domanda all’uomo di spiegarle i principi su cui si fonda la dottrina professata dalla sua comunità, raccolti nell’acrostico TULIP (che rimanda al fiore simbolo dell’Olanda, luogo d’origine del calvinismo, come delle radici genealogiche di Schrader). La scena presenta qui un nuovo inserto autobiografico, nella spiegazione di Jake sulla dottrina cui è stato educato durante l’infanzia; l’episodio è d’indubbio fascino giacché fornisce non solo riferimenti che sottolineano le origini del cineasta, ma anche ulteriori dettagli sulla sua confessione religiosa. Dalla spiegazione fornita, emerge che ciascuna delle lettere che formano l’acrostico corrisponde a un determinato precetto religioso; e da tale parafrasi emerge l’assoluta convinzione di appartenere alla schiera degli eletti. La predestinazione – trattata in film di Bresson quali Un condannato a morte è fuggito e Diario di un ladro – illustra che l’uomo, essendo già scelto da Dio onnisciente, è libero di scegliere Dio da solo; sillogismo a parte, se Dio è la verità e la verità rende liberi, allora la libertà implica di scegliere Dio.
Niki confessa di non capire granché dell’esposizione di Jake, ma si tratta – come le viene fatto notare – di un’argomentazione logica che può sembrare tortuosa solo esternamente e che va esaminata dall’interno. Il protagonista adopera qui le stesse parole con cui, nella tesi Il trascendente nel cinema, Schrader illustra la metafora della prigione che caratterizza il cinema di Bresson. La spiritualità, sia pure spiegata con modalità diverse – rigorose per Jake, basate su colorite analogie per Niki – non è il principale elemento di comunanza: entrambi sono anime solitarie, la cui appartenenza a emisferi opposti obbliga a tenersi divise, conducendosi però in esistenze appartate che, se si escludono i metri di valutazione sulle rispettive scelte di vita, non consentono molte possibilità di esaminare altri ambiti. Basterebbe osservare l’idea che Jake e Niki hanno a proposito della sessualità: tanto l’uno è conservatore sull’argomento, quanto l’altra è portata a considerarlo una forma di comunicazione, anche senza farne il centro della sua vita (“Per te il sesso è così poco importante che non lo fai quasi, e per me è così poco importante che non m’importa con chi lo faccio…”).
La giovane sostiene che gli uomini con cui ha un rapporto sessuale comunicano con lei in quanto ci si trovano bene. Jake non intende affrontare dibattiti su un tale argomento e blocca Niki ogni volta che la discussione imbocca una piega che lo turba. L’uomo è visibilmente a disagio anche solo a pronunciare termini come “pompino”, e una volta che lo computa pungolato da Niki, ritiene di valere alla stregua del mondo in cui si è gradualmente calato. Ciò però sanziona la certezza che Jake non è differente da quanti incontra, né esiste alcuna dottrina di superiorità: immergendosi nel territorio della pornografia, l’uomo ne assorbe i modi di dire, i comportamenti, l’ambiguità. Sebbene non sia minimamente disposto ad ammetterlo, sa che non avrebbe difficoltà a risultare convincente su quel terreno, se non fosse l’uomo di fede che è. Niki, a sua volta, non proverebbe disagio a farsi seguace di una dottrina religiosa, qualora le interessasse. Non c’è discrepanza tra i due personaggi in quanto non ve n’è tra qualsiasi individuo, il destino è uguale per ognuno e si è tutti a un livello uniforme (lo stesso in cui, nel finale, per la prima volta Jake si umilia in lacrime davanti alla figlia).
Certe linee di demarcazione sono fallaci, la dicotomia fra Bene e Male non esiste e occorre stare attenti a giudicare persone e cose, tanto che persino il mondo della pornografia finisce col sembrare una sorta di grande stravagante famiglia dotata di regole, e il personaggio di Niki, come osserva Ermanno Comuzio, ne è una riprova eclatante:

Anche lì, in un mondo di squallori e di violenze, tra esistenze così distanti da quelle abituate all’ordine, alle riunioni di famiglia, alle pratiche religiose, anche lì si può trovare l’autenticità dei sentimenti, gli affetti veri, ragioni di vita.”

Almeno tu becchi il Paradiso, io non becco un cazzo!”, dice Niki nel tirare le somme con il partner e teoricamente è così, dato che la ragazza rientra in un novero che qualunque sfera religiosa condannerebbe; per contro, la giovane dimostra di avere molto più buon senso di quanto ne abbia Jake e – nel corso della ricerca – le occorre poco per capire che il tenore di vita chiuso e limitativo che l’uomo si è costruito risulta, nei fatti, tanto oppressivo che persino la persona più mite rinuncerebbe a viverci. Niki si fa più di un’idea sul motivo che ha spinto Kristen ad abbandonare la famiglia, addirittura scopre che Jake non è vedovo giacché pure sua moglie lo ha lasciato. Sotto qualsiasi schema si voglia inquadrare, il metro di vita scelto da Jake è troppo repressivo.
Tuttavia, il film concorda col punto di vista del protagonista: il finale in cui la figlia torna a casa col genitore è lì a comprovarlo. La posizione conservatrice di Jake è in linea con quella del regista, anche se ciò non toglie che il personaggio sia pervaso da latenti ipocrisie. Quanto più conta per Schrader è la fede che Jake riversa nella predestinazione, che non avrebbe luogo senza la scelta massimalista del personaggio. E anche se il film non nasconde incongruenze tra i due ambiti in esame, non figurano aspetti contraddittori.
In questo senso è giusto che Jake e Niki, appartenendo ai lati opposti della stessa medaglia, debbano stare separati nonostante la similarità; la distanza è riprovata dalla sequenza nella stanza d’albergo, in cui la ragazza è seduta dal lato opposto in cui si trova Jake, che prega la giovane di non spogliarsi di fronte a lui. Ancora prima, la barriera che s’interpone tra i due personaggi è data da un vetro trasparente della cabina del bordello in cui l’uomo rintraccia Niki e, spacciandosi di nuovo per un regista di hardcore, comunica con lei tramite un citofono.
La m.d.p. riprende Jake dall’alto al basso, mettendo in risalto la giustezza della pista da lui imboccata nella ricerca, e Niki dal basso verso l’alto per sottolineare gli elementi che ne mostrano la professione e la posa disinibita, inquadrandola seminuda mentre appoggia le gambe sul vetro in maniera provocante. Da ragazza esperta, anche Niki utilizza un sotterfugio per farsi dare più denaro in pagamento, ma questi sono gli espedienti di cui necessita per mantenersi libera dai protettori. La stessa cabina con telefono e annesso vetro che si frappone tra i personaggi anticipa di un anno il finale dell’opera successiva, American Gigolo – altro film sulla predestinazione.
A proposito della quale, chi dei personaggi ne sarebbe più meritevole è proprio Niki, quando ciò è impossibile essendo la ragazza – nelle parole di Mast – “una vittima come tante altre”. Quanto si è esaminato sul raffronto tra Niki e Jake vale anche per il parallelo tra questi e il detective: Mast è una persona pratica, con poche illusioni e piuttosto cinica, ma certo più scafata di quanto lo sia Jake. Il suo atteggiamento sprezzante non è rivolto al cliente, quanto all’ambiente bigotto che rappresenta: è sufficiente ricordare che in tutti i loro vis-à-vis, Mast non chiama mai Jake per nome, ma semplicemente “missionario”; se ciò lo fa sembrare sgradevole, è perché il detective ha capito come va il mondo. Dissoluto ma non disonesto, Mast ha lo stesso atteggiamento trasandato del taxista Wizard di Taxi Driver (l’attore che impersona ambedue i ruoli, d’altronde, è lo stesso).
Logico che la distanza di vedute tra Jake e Mast si avverta fin dal primo incontro, e fra i due la tensione sia palpabile: l’investigatore mal sopporta che qualcuno contesti la sua maniera di portare avanti il lavoro, e quando il protagonista lo sorprende a letto con una prostituta – agganciata in realtà per ottenere informazioni – e lo licenzia credendo che lo abbia ingannato, il detective lo apostrofa: “Ma perché non se ne sta in quella città di bacchettoni dov’è nato?!”.
Mast s’interpone, anzi, a mo’ di barriera tra i due emisferi, quello religioso rappresentato da Jake e quello pornografico rappresentato da Niki, tentando di separare i due poli in maniera che non vi siano collisioni e seguano ciascuno il rispettivo corso: quindi, nel sottofinale, il detective non esita a disilludere Niki persuadendola che Jake, una volta ritrovata la figlia, si dimenticherà della sua collaborazione. La sequenza finale, in cui Jake scorge Niki tra la folla che fa capannello dopo l’uccisione di Ratan, vede la ragazza ignorare il protagonista: quando Jake in effetti sembra offrirle aiuti, una volta caduta ogni maschera, tutto torna alla normalità senza che nulla d’aggiuntivo modifichi il corso degli eventi, e a Mast toccano le ultime lapidarie parole (“Torni a casa, missionario, non può fare proprio niente. Lei qui non esiste!…”).
Se a Jake non è consentito di addentrarsi nel luogo proibito, il suo operato in quel luogo ne stravolge l’ordine; Mast consiglia al bacchettone di tornarsene a casa perché personalità come la sua, nel sottobosco della pornografia, sono pesci fuor d’acqua, ma quando lo accompagna al cinema porno per mostrargli l’hardcore interpretato dalla figlia non gli svela ciò che vedrà, preferendo siano le immagini a parlare, spalancando all’uomo una di quelle porte sulla consapevolezza che la sua comunità non si sognerebbe mai di aprire. Nondimeno, la funzione virgiliana che Mast ricopre gli sfugge di mano, venendogli tolta quando Jake decide di investigare da solo; nel sottofinale, quando Jake va ad affrontare Tod, il detective si offre di accompagnarlo ma lui non lo informa della sua meta, trattandosi infatti di una missione personale: essendo anche, però, questione di vita o morte, a Mast non rimane che domandare a Niki. Sino al drammatico finale, Mast cerca di ristabilire in extremis l’equilibrio della contrapposizione ordine-disordine che, mescolata ad altri temi, accompagna la maggior parte dell’opera di Schrader regista e screenplayer: in Hardcore, la contrapposizione vede entrambi i poli esemplificati nella religione e nell’impudicizia (stando a Schrader, logico che l’assetto sia rappresentato dal contesto religioso-familiare, del quale il cineasta prende le difese). Mast, in sintesi, tenta di ristabilire l’equilibrio fungendo da intermediario, anticipando di una decina d’anni e in maniera alquanto marginale il personaggio del menzognero reverendo de La luce del giorno.
Hardcore è anche un film che struttura alcune scene in modo circolare rispetto ad altre, rinviando a una delle forme attraverso cui si manifesta la figura del cerchio, ovvero il chiasmo: si pensi al momento in cui, a San Diego, Mast sorprende Jake in compagnia di Niki in una camera d’albergo, esattamente come nella citata scena in cui, a sua volta, il protagonista pizzica il detective insieme a una ragazza (prostituta, per giunta, come Niki). Esso è anche, prima che i due si ritrovino nel finale, l’ultimo passaggio in cui Jake e Mast sono visti insieme: sorprendendo il religioso in compagnia di Niki, l’investigatore riallaccia i rapporti con Jake e riprende dal punto in cui si erano lasciati. Fuor di metafora, Jake sta oltrepassando la linea di demarcazione tra i due emisferi, oltre la quale non gli sarebbe lecito addentrarsi.
Se tale scena d’impostazione chiasmica rompe il clima di tensione e violenza che si percepisce lungo tutto il film, presentandosi come semplice passaggio ironico, altri sono i momenti circolari dell’opera nei quali Schrader sterza verso il drammatico: individuato Tod, Jake è condotto da quest’ultimo alla proiezione di uno snuff e, nell’assistervi, esprime la stessa reazione di disgusto provata dopo avere guardato la pellicola con Kristen; inizialmente, il riflesso di uno schermo bianco illumina lo sguardo di Jake al termine della proiezione, successivamente è l’immagine dello snuff che Jake sta guardando a riflettersi sul suo volto, come se la violenza che trasuda dal filmato si riversasse su corpo e anima del protagonista ormai assuefatto, e lo conducesse verso una graduale trasmutazione. Dopo tale esperienza, infatti, Jake giunge a un punto di saturazione tale che, per trovare Kristen, deve espellere ogni barlume di sentimento rimastogli, inghiottito in una spirale di violenza che lo ha travolto senza consentirgli mediazioni; per farsi dire dove si trova Tod, Jake è costretto a picchiare anche Niki, e come nella sequenza in cui egli malmena l’attore porno, la m.d.p. lo riprende dal basso in alto per risaltarne la determinazione e la posizione di dominio, e viceversa la sopraffatta Niki è immortalata dall’alto al basso. Oltretutto, il colpo inflitto da Jake alla ragazza prefigura sia lo scontro con Tod nel bordello sadomaso5 che quello con Ratan: una resa dei conti che, in entrambi i casi, vede Jake procedere risoluto come un giudice degli Inferi.
Hardcore non è dunque privo di sequenze che rimandano alla figura del chiasmo. Lo stesso calvario del protagonista si può definire circolare in senso metaforico. Destinato a reagire sempre nello stesso modo, servendosi del raggiro per mettere a nudo la propria anima e della violenza come reazione naturale, Jake ripete esperienze più o meno identiche in tutti i luoghi del giro pornografico e il suo operato, e tutto il suo movimento, non servono a schiodarlo dalle medesime posizioni né a condurlo in qualche possibile altrove. Come già il Travis di Taxi Driver, per Jake si può parlare di coazione a ripetere.
Oltre l’ultimo ostacolo potrebbe esservi, ad attenderlo, la conferma della sua predestinazione alla grazia, ma la scia di violenza che l’uomo si lascia dietro per giungere alla figlia ne prefigura l’irrimediabile lontananza; per come è idealizzato nelle immagini iniziali, il luogo dell’armonia domestica è troppo distante perché Jake s’illuda di potervi agevolmente rientrare dopo la full immersion subita. Come Travis, Jake è un altro personaggio in ritardo per il cielo – anche se non c’è, qui, la bellissima Late for the Sky di Jackson Browne a sottolinearlo, come invece nel film di Scorsese. Mentre, però, Travis è un balordo voglioso di realizzare qualcosa che non riesce a spiegare e non sa in che consiste perché non vede chiaro dentro di sé, Jake è perfettamente conscio di ciò che vuole e di quale classe sociale fa parte; ciò non toglie che sia una figura afflitta da cecità giacché, confrontandosi con un ambiente disprezzato ed estraneo, lo affronta servendosi di una violenza che lo assimila alla disprezzata fauna di quell’ambiente. Jake diviene parte integrante di quel sottobosco poiché, per recuperare la figlia, i codici di relazione condivisi nel suo mondo non servono e deve servirsi di menzogne, camuffamenti, ruffianerie, brutalità, ritrovandosi a lottare senza aiuti (come a ribadirlo, in una sequenza, sta il brano Helpless di Neil Young, che canta oltretutto di una piccola città dell’infanzia come di un paradiso perduto a cui si vorrebbe tornare).
Jake è individuo non privo d’ipocrisia, pure se la sua idea di vita è positiva e costruttiva, e la scena finale sembra voler spiegare come il regista preferisca sposare la sua causa piuttosto che il ribellismo della figlia (viste le conseguenze distruttive della scelta): Kristen è ritrovata e ricondotta a casa come premio al calvario di Jake, ma il prezzo della posta è esageratamente alto.6 Secondo Schrader, i parallelismi più evidenti con Hardcore e il suo protagonista sono con due western, Lo sperone nudo e Sentieri selvaggi, in quanto analogamente alto è il costo della ristabilita normalità per i rispettivi protagonisti – troppo alto perché possano tornare alla vita di sempre come niente fosse, tale è la scia di macerie morali alle spalle.7 
Se però nell’opera di Anthony Mann, Howard Kemp (James Stewart) scoppia a piangere una volta compresa e accettata la propria natura violenta, e decide di ricominciare una vita con una donna, in quella di John Ford, per contro, Ethan Edwards (John Wayne) non può proprio varcare la soglia che separa l’ambiente selvaggio dal focolare ed è condannato, inevitabilmente, a una biblica traversata del deserto, non trovando posto nella comunità civile o in una famiglia. Dopo aver messo in discussione i tradizionali valori di ordine e stabilità, anche Schrader come Ford finisce con l’accettarli in ultima analisi, ma solo dopo aver richiamato l’attenzione sull’instabilità psicologica di Jake e sulla sua personalità contraddittoria.
Il confronto tra Hardcore e Sentieri selvaggi è molto più trasparente di quanto non si sarebbe indotti a pensare: Jake si mostra disgustato davanti al film porno interpretato dalla figlia, e la sua ripugnanza è accentuata dal fatto che quel mondo ha sconvolto “la geometria morale di un credo, di un dovere, di una distinzione fra persone e cose che ne fanno parte”, abbia infangato la purezza di Kristen sino a quel momento illibata, abbia fatto piazza pulita d’ogni calvinistico valore compulsato in lei. Nel capolavoro di Ford, analoga repulsione prova Ethan di fronte a due inebetite ragazze bianche, rapite da bambine e ormai indianizzate, incapaci ormai di articolare parola se non nel dialetto pellerossa: come Jake in Hardcore, l’espressione di Ethan – che vorrebbe distogliere lo sguardo dalla loro immagine senza riuscirvi – esprime disgusto e orrore per la scomparsa, in loro, di ogni segno della propria originale appartenenza, per il completo e forse irreversibile attraversamento di ogni demarcazione tra wilderness e civiltà, per la possibilità che sua nipote Debbie (Natalie Wood), in realtà una figlia acquisita, abbia fatto la stessa fine. Il rientro nella vita normale ha luogo, in entrambi i film, dopo una Via Dolorosa che abbraccia l’esame psicologico dei protagonisti per culminare, e risolversi, nell’identica battuta (“Torniamo a casa!”) pronunciata dagli uomini alle proprie ritrovate congiunte: in Hardcore, Jake tende affettuosamente la mano a Kristen, così come in Sentieri selvaggi Ethan solleva Debbie tra le braccia, dopo averla lasciata ragazzina e ritrovata donna.
Si aggiunga, per finire, che in entrambi i film i rispettivi personaggi sono accompagnati e scortati nelle loro ricerche da comprimari più giovani, appartenenti a quei mondi che Jake e Ethan disprezzano ma con cui sono costretti a misurarsi: Jake è guidato da Niki, le cui fondamentali gentilezza d’animo e pulizia interiore non sono sufficienti a compensarla di un’esistenza infernale; Ethan è accompagnato dal giovane Martin (Jeffrey Hunter), un mezzo indiano che il protagonista deve malvolentieri accettare come aiuto: Martin è nipote adottivo di Ethan, che non gradisce di sentirsi chiamare “zio” da un mezzosangue, anche se in entrambe le culture alligna la medesima violenza, e la spietata durezza dei pellerossa è uno specchio in cui Ethan può misurare la propria.
Considerare in qualche modo Hardcore come rifacimento implicito (ma non troppo) di Sentieri selvaggi, significa prefigurare alcune successive opere registiche di Schrader, a loro volta remake dichiarati o indiretti di altri film come nei casi di American Gigolo e Il bacio della pantera. Oltre ai riferimenti cinematografici, Schrader sostiene di avere incluso anche rimandi biblici, in particolare quello con Mosè che traversa il deserto per condurre il popolo eletto alla Terra Promessa. In ogni caso, il prezzo della vendetta è univoco, e per usare le parole del cineasta:

“Il prezzo della vendetta è che non si ha rifugio (…); quando ci si abbandona a queste forme estreme di comportamento, occorre pagare un prezzo e, inoltre, sebbene si agisca per il benessere della società, questo non significa che esse concederanno il perdono.”

Prima che a George C. Scott, per il ruolo di protagonista in Hardcore, Schrader pensa inizialmente a Warren Beatty, che sulle prime accetta ma poi rinuncia, ritenendo di essere troppo giovane per la parte; le sue intromissioni in fase di sceneggiatura, nel frattempo, complicano non poco le tappe di lavorazione, non ultima quella riguardante il finale del film, che l’attore vuole modificare senza che Schrader ne sia convinto.
Il ruolo ricade infine su Scott, che dà una delle interpretazioni migliori della sua carriera, ma anche con lui nascono problemi a causa del suo carattere poco conciliante e incline all’alcol; in una di queste occasioni, pur di convincerlo a concludere le riprese, Schrader promette a Scott di non dirigere più altri film, essendo questi convinto della sua imperizia registica, ma solo un anno dopo Hardcore il regista accetta di realizzare American Gigolo, pensando a John Travolta per il ruolo principale assegnato, alla fine, a Richard Gere.
Si tratta di un’altra vicenda che ha il suo centro nella predestinazione, concetto affrontato qui in forma anche più esplicita. A dispetto di Hardcore, in cui l’evento abbraccia una collettività unita da codici comuni, prima d’interessare un suo singolo rappresentante alle prese con un milieu antipodico, in American Gigolo l’assunto è centrato da subito su un’unica figura, pure destinata a muoversi poco a poco in un ambente ostile. 

Francesco Saverio Marzaduri


1 In questo senso, non risulta casuale la presenza dello specchio, spesso ricorrente nel cinema di Schrader: inteso in una duplice chiave concreta e allegorica, esso contribuisce ad accentuare la purificazione dei personaggi. 
2 A questo proposito, non è casuale la scelta di Schrader circa il nome del protagonista: dorn è un termine che significa “aculeo”, pungiglione, punta avvelenata; il che suggerisce che quello di Jake non sia un personaggio mite. 
3 Schrader ha sostenuto che la sequenza in oggetto nasconde un riferimento cinematografico che rinvia a Sadismo di Donald Cammell e Nicolas Roeg, film – a detta dello stesso – tonificante dal punto di vista visivo. 
4 In numerosi film di Schrader figurano sequenze che per costruzione e significato si somigliano molto; l’unica differenza riguarda la loro collocazione entro lo sviluppo narrativo riconducibile alla scelta di campo opposta dell’autore, tale da fare di queste sequenze una serie di “chiasmi ribaltati”. Hardcore non sfugge a quest’aspetto: difatti, Jake è ripreso nella camera d’albergo davanti alla tivù che trasmette un programma religioso, in cui alcuni ragazzi intonano un inno, laddove in uno dei momenti iniziali lo zio di Kristen spegne disgustato l’apparecchio che trasmette un chiassoso programma pieno di ragazzi che ballano vestiti da Santa Claus. Entrambe le sequenze sono confrontabili in base a una diversa chiave di lettura, riguardante però la solita collisione tra due differenti mondi e culture: lo zio è disgustato di fronte al consumismo e ai facili costumi delle grandi città, che poco a poco intaccano la sobrietà di cittadine come Grand Rapids e contagiano i più giovani. Invece, Jake è inquadrato mentre guarda la tivù a Los Angeles, cioè dal luogo che ripudia, che lo ripudia e con cui, tuttavia, è consapevole di doversi confrontare. 
5 Nella stessa sequenza, non manca uno sberleffo di Schrader ai precetti religiosi, come se l’ambiente della pornografia si facesse beffe delle sacre dottrine: le maîtresse del bordello in cui Jake affronta Tod dicono di chiamarsi come le tre virtù teologali, ossia Speranza, Fede e Carità. 
6 Nel progetto in origine – racconta il regista – il finale era diverso: ritrovata dal genitore, Kristen restava uccisa in un incidente stradale, in maniera completamente autonoma dalla pornografia; dunque, Jake compiva la sua discesa negli inferi per tentare di redimere la figlia e, una volta che la ragazza moriva, tornava a casa per vivere nel ricordo di quanto appreso. Il finale della versione definitiva è stato imposto dalla Columbia, casa di produzione del film, pensando a una conclusione più ritmata riguardante la redenzione di Kristen; Schrader ritiene che, a conti fatti, né lui né George C. Scott fossero pienamente soddisfatti del risultato. 
7 Da fanatico fordiano qual è, anche John Milius, produttore del film e come Schrader appartenente alla leva dei Movie Brats, ritiene Hardcore una sorta di cripto-rifacimento di Sentieri selvaggi, quando per Schrader il suo film è infinitamente più intimo e disperato.

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