Il western-ossimoro: I FRATELLI SISTERS
Il western-ossimoro: I fratelli Sisters
La pietra tombale che apriva e chiudeva Gli spietati pareva aver dato al Western, con ogni probabilità il più epico dei generi
cinematografici, la sua circolare e definitiva chiusura. Il che non
ha impedito in anni seguenti di tornare su quei sentieri selvaggi
confezionando prodotti che, senza aggiungere né sottrarre elementi
al consolidato panorama, si pongono con alterni risultati quali
ulteriori postille. Capita d’incappare in lavori come Terra
di confine,
Le
tre sepolture,
L’assassinio
di Jesse James per mano del codardo Robert Ford o,
in zona riadattamento, Quel
treno per Yuma e
I magnifici 7.
Numerose sono le esplorazioni a noi inedite nel genere, talora
destinate alle piattaforme (O
Matador – L’assassino),
senza contare le originali rivisitazioni dei Coen, l’ultima, La
ballata di Buster Scruggs,
prodotta appunto da Netflix. E, perché no, si può pure segnalare
un’operina all
black,
Posse
– La leggenda di Jessie Lee,
divertito omaggio alla blaxploitation
diretto
e interpretato dal figlio d’arte Mario Van Peebles. Ma in
quest’ultima incursione nel western, I
fratelli Sisters,
ottavo lungometraggio del regista-sceneggiatore Jacques Audiard e sua
prima produzione statunitense, si direbbe che il cineasta francese
giochi l’oculata carta della destrutturazione in ogni risvolto
della vicenda, rimescolando le carte col fermo proposito di porre la
parola “fine” alla stessa operazione-smitizzazione. Lavorando a
quattro mani con Thomas Bidegain su uno script
che trae spunto da un recente romanzo di Patrick deWitt, Audiard, più
che seguire l’esempio di Altman e non dimentico del proprio
raffinato estro, sembrerebbe mirare al prototipo di Tarantino,
disseminando citazioni classiche e cinefili innesti. A cominciare dai
tagliagole protagonisti, mercenari al soldo del “Commodoro”
Rutger Hauer – misterioso e silenzioso burattinaio dai molteplici
affari – che l’incipit fotografa subito come facce uguali e
contrarie della stessa medaglia, uno (Joaquin Phoenix) folle ed
esaltato, l’altro (John C. Reilly) stanco e dimesso. Guidando lo
spettatore, con didascalie toponomastiche, lungo la costa della
California dalle montagne dell’Oregon fino a San Francisco, il loro
peregrinare in piena gold
rush
alla ricerca d’un chimico, la cui formula segreta è l’enigmatico
MacGuffin
dell’apologo, assiduamente inverte i caratteri del duo in un
crescendo di inseguimenti, sparatorie e imboscate che la nitida
fotografia del belga Benoît
Debie
e uno scenario naturale scisso tra Romania e Spagna catturano con
insolita originalità. E se nella prima metà la narrazione alterna
il tragitto dei Sisters a quello dell’esploratore
Jake
Gyllenhaal (sua
la voce off
per quasi tutta la durata) che, raggiunto il chimico, decide a un
certo punto di esserne socio, spetta alla seconda parte sciogliere i
nodi psicologici dei due sguardi speculari. Ne scaturisce che
l’impulsivo e scontroso è null’altro che un debole immaturo,
mentre il riflessivo sensibile, orfano di un’esistenza stabile e
tranquilla, è la mente cui tocca il delicato confronto finale che li
trarrebbe in salvo. In quest’ultimo personaggio, efficacemente reso
da un Reilly che vince nella gara di bravura (come già con Steve
Coogan in Stanlio
& Ollio),
non manca una nota freudiana che rivela il legame con Phoenix,
sottolineandone il rimorso per non aver ammazzato il padre, suo
incubo ricorrente, ucciso dall’altro (ma pure il complice
Gyllenhaal
ha
qualche complementare scheletro edipico). È tale quid
a fare de I
fratelli Sisters un
lavoro più interessato a scavare nelle sfaccettature dei personaggi,
sulla filosofica falsariga d’un Monte Hellman, che non a seguirne
le imprese. E per quanto le lezioni dei maestri traspaiano evidenti,
da Huston (l’utopia che vanifica il sogno di ricchezza) a Leone (la
modernità che travolge ambienti e persone), di suggestivo interesse
è la contaminazione del genere col disaster
movie:
si prenda il segmento che immortala i protagonisti nello stagno
ridotto a un intruglio, da cui emerge la controindicazione della
chimica (il progresso) verso la deriva d’un inquinamento che azzera
la wilderness.
Audiard padroneggia simbologie e annesse morali ecologiste con la
contrapposizione della citata formula ed un più utile spazzolino da
denti in legno, ma anche con un duplice taglio di capelli a entrambi
i fratelli, che sancisce l’inizio dell’avventura – prima d’una
graduale presa di coscienza – e il suo epilogo, che da uno
sconfinamento verso la progredita civiltà e i suoi comfort
s’avvia verso un insospettato ritorno a casa, in odor di Cimino. E
al contempo, verso un desiderio di tornare al grembo materno
(incarnato da una segnata Carol Kane sul modello Lillian Gish),
suggerito peraltro dall’innato bisogno d’amore del maggiore dei
Sisters (che di nome fa Eli, altro rimando) con un’impacciata
prostituta. S’aggiungano inusuali tocchi registici (Phoenix in
penombra che si rivolge all’obiettivo) insieme a documentaristici
frame
senza
filtro, tesi a trasportare lo spettatore nel vivo degli eventi
conferendo un’aura di straniamento, e si comprenderà perché
quest’opera affascinante – un western-ossimoro, ribadito dal
titolo originale – ha conquistato il Leone d’argento all’ultima
Mostra di Venezia. Qualcosa di completamente avulso dai prodotti
dello star
system:
che infatti una fila di adolescenti, nella stessa sala dove si
trovava chi scrive, ha abbandonato a metà proiezione.
Francesco Saverio Marzaduri
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