Light of Doris Day

Light of Doris Day 


Per curiosa casualità, solo pochi giorni prima della scomparsa di Doris Day, chi scrive è incappato nella messa in onda dun documentario di una rubrica, Vite da star, fatta di approfondimenti sulle leggende hollywoodiane, incentrato nello specifico sulla “fidanzata dAmerica”. Nessuno dice che sia stata una grande attrice, e forse, pur disponendo d’un bel timbro vocale e venduto milioni di dischi, neppure una cantante eccelsa. Eppure il sorriso raggiante, il biondo carré, il carattere ora spigliato e vivace, ora intraprendente ed esuberante, erano tratti bastevoli a radiografare un’America e un’epoca che avrebbero avuto tutto il tempo di intorbidire, in seguito, quell’innocenza all’acqua di rose. A ribadire l’effimera longevità di tale candido ottimismo, senza bisogno di addentrarsi nella sfera personale della diva o sul divario di quest’ultima col mutamento del milieu di Hollywood e del suo pubblico, è una filmografia perlopiù costituita da commedie e musical, generi nei quali l’attrice-cantante nativa di Cincinnati e d’origine mitteleuropea mostrava con maggior disinvoltura le proprie qualità. Non sorprende che la sua figura pulita fosse apprezzata da firme quali Michael Curtiz, Stanley Donen, Gene Kelly, così come breve è stato il salto verso il mélo, grazie al quale Doris avrebbe sfiorato, pur senza vincerla, la statuetta con Amami o lasciami, storia di una danzatrice che raggiunge il successo come cantante, grazie all’intervento di un gangster con cui ha un tormentato rapporto. Pellicola che peraltro permise alla Day di tornare a recitare col vecchio ammiratore James Cagney, già suo partner in The West Point Story. E anche se non vi è cinefilo che sullo schermo non ne associ il talento d’attrice a Hitchcock e a L’uomo che sapeva troppo – e ovviamente al brano incluso in colonna Whatever will be (que sera sera), destinato a diventare un classico – ineluttabile quanto ingiusto è ripensare a tutti quei ruoli, quei segmenti e quei titoli che ne rendono inconfondibile la bionda icona. Ecco dunque sfilare una Calamity Jane ben lontana dal ruspante prototipo mascolino, ma schiettamente verace, in Non sparare, baciami!. O la ragazzina di Tè per due che, nel riadattamento di No, No, Nanette, riesce a strappare al ricco zio l’ingente somma per finanziare uno spettacolo di rivista di cui essere protagonista. E ancora, in 10 in amore, la docente di giornalismo che dà una lezione d’umiltà (complici i buoni sentimenti) al cinico giornalista Clark Gable; la segretaria zitella de Il visone sulla pelle che accetta di trascorrere una vacanza alle Bermuda col ricco playboy Cary Grant; la madre pre-femminista di Non mangiate le margherite alle prese con una famiglia scatenata e il marito David Niven sul punto di tradirla; o l’arredatrice de Il letto racconta... che, grazie a un duplex galeotto, s’incontra-scontra con un compositore (il Rock Hudson con cui Doris avrebbe recitato in altri due film, stringendo una salda amicizia) in fotogrammi che li raffigurano insieme anche se in stanze diverse, frame citato e parodiato in tante commedie successive. Escludendo la verve brillante dell’attrice, che spesso le consentì di lavorare con gli stessi partner, si direbbe che molti dei suddetti prodotti, nella discontinuità o meno della loro sostanza alla prova del tempo, si ricordino più per i loro titoli, in certi casi divenuti modi di dire, che per la loro intrinseca qualità. Nondimeno, Quel certo non so che o Non mandarmi fiori!, merito anche dell’apporto di geniali sceneggiatori (Carl Reiner o Julius J. Epstein) e della regia di Norman Jewison, mantengono tuttora una spanna in più fungendo da archetipo per quella sophisticated comedy che futuri commedianti in ascesa avrebbero ereditato. Quanto a dire che l’impronta lasciata dalla star, destinata a trasformare la propria ormai stereotipata effigie in qualcosa d’insolito e maturo per tempi prossimi al cambiamento (si pensi a La mia spia di mezzanotte), non è degna dell’oblio a cui gli stessi Stati Uniti che l’avevano eletta a simulacro l’avrebbero poi relegata, convincendola a optare per il sin lì parodiato format televisivo (il fortunato show che recava il suo nome). Si diceva, però, che se nessuno dei ruoli menzionati fosse tuttora degno di segnalazione, anche a causa del tasso eccessivo di saccarosio, pensa quello di Jo McKenna, la madre di famiglia suo malgrado vittima d’un intrigo spionistico insieme al marito, a rammentarne le inattese doti drammatiche e, con l’immortale urlo che sventa un attentato alla Royal Albert Hall, rubare la scena a James Stewart consegnandola alla memoria, ancor prima del motivo intonato di lì a poco e successivamente riproposto altrove. Un successo che col simil-hitchcockiano Merletto di mezzanotte, pur notevole, non riesce a convincere pubblico e critica in egual modo. Ma tanto basterebbe, assieme al fatto di aver sopperito alla Marilyn da poco scomparsa in Fammi posto tesoro, a dir d’un personaggio e una carriera destinati sullo schermo a un tenero (e sbiadito) ricordo, nonostante l’alterno esito. Que sera sera, appunto. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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