L’immagine (del Male) allo specchio: TED BUNDY – FASCINO CRIMINALE
L’immagine (del Male) allo specchio: Ted Bundy – Fascino criminale
E tutti i peccatori santi
Come
le teste sono code
chiamatemi
solo Lucifero
Perché
ho bisogno di un po’ di moderazione
Quindi
se m’incontrate
Abbiate
un po’ di cortesia
Un
po’ di comprensione e di gusto
Siate
educati come vi hanno insegnato
O
disporrò che la vostra anima sia dannata
Piacere
di conoscervi
Spero
indovinerete il mio nome
Ma
ciò che vi lascia interdetti
È
la natura del mio gioco”
THE
ROLLING STONES
L’ultima
volta che il caso Theodore Bundy è stato portato sullo schermo
risale a una decina d’anni fa con Bundy:
An American Icon,
agiografia diretta da Michael Feifer, interpretata da Corin Nemec e
preceduta, un lustro prima, da altri due biopic,
di cui uno televisivo firmato da Paul Shapiro con Billy Campbell
protagonista. Il primo volto a impersonare il maniaco omicida che tra
il 1974 e il ’78 compì una trentina di efferati delitti, fu però
Mark Harmon, in un altro prodotto tv circolato anche in Italia col
titolo Il mostro.
L’avvocato di Bundy, Polly Nelson, nel proprio volume La
difesa del Diavolo avrebbe
dichiarato come quest’ultimo lavoro, che riprendeva semplicemente
ciò ch’era stato dimostrato, fosse “incredibilmente accurato”
e la sua uscita avvenne quando ancora Bundy si trovava nel braccio
della morte. Trent’anni dopo l’esecuzione, il regista Joe
Berlinger torna a far luce su una delle figure più agghiaccianti
della cronaca statunitense degli anni Settanta, oggetto di citazioni
e rimandi nonché prototipo per molte figure di serial killer in
narrativa (basti ricordare che Thomas Harris ci s’è parzialmente
ispirato per Hannibal “The Cannibal”). Il progetto di Berlinger
annovera anche un documentario in quattro puntate targato Netflix,
Conversazioni con un
killer – The Ted Bundy Tapes,
che lavora sul materiale audio registrato in carcere dallo stesso
omicida, ma a dare spunto a Ted
Bundy – Fascino criminale,
anziché l’inchiesta del reporter Richard W. Larsen, è un libro,
The Phantom Prince,
che una segretaria della divisione medica universitaria, Elizabeth
Kloepfer (con lo pseudonimo Kendall), dedicò alla propria vita col
compagno. Si va così dal primo incontro a Seattle alla dolorosa
scoperta della catena di delitti, lungo un tourbillon
di angosce e sensi di colpa che la
portarono alla depressione e all’alcolismo, rimarcati dal morboso
fascino che Ted – continuando a proclamarsi innocente e
paragonandosi a Papillon – per anni esercitò su di lei. Sicché,
come le immagini introduttive da subito mostrano, la narrazione
sceglie di adottare il punto di vista di Liz, talvolta cambiando i
nomi dei coinvolti ed escludendo quelli delle vittime, indicati in
una dicitura conclusiva (ma l’elenco potrebbe essere più lungo).
Omettendo come nel format
dell’86 infanzia e
primi anni di vita del maniaco, Berlinger – all’attivo come film
maker per autentiche
storie di omicidi – segue una cadenza sensibile al salto temporale,
in cui l’ultima visita della Kendall all’ex compagno nel 1989,
con la quale l’agiografia si chiude, torna a vent’anni prima
cedendo il posto al flashback in un continuo andirivieni. Tutto fa
pensare che quell’aitante, misterioso giovanotto, che s’avvicina
a una giovane madre single davanti al juke-box d’un locale, non
possa essere la figura “estremamente, incredibilmente
malvagia e vile” descritta dal titolo originale. E l’autore
depista il pubblico per diversi minuti prima di mostrare il primo
arresto nello Utah nel ’75, quando un’auto
della polizia trova Bundy in possesso di alcune prove incriminanti
(una torcia, una fune, un paio di guanti e una spranga), ma pur non
rinunciando a qualche tocco di suspense (Liz scopre che la sua
bambina è scomparsa, e poi la trova in cucina con Ted che prepara la
colazione), la view
adottata è quella d’un
sociologo che si limita alla descrizione imparziale dei fatti.
L’alternanza di home
movies in 16mm, che
mostrano attimi di felicità in casa Kloepfer, e d’immagini
giornalistico-televisive sugli atroci delitti, con tanto di
testimonianze e interviste, sembrerebbero avvalorare la buona fede di
chi, anni prima, aveva firmato il trittico Paradise
Lost, dove i crimini non
sono mai mostrati ma solo accennati. Ma le intenzioni originarie
stemperano presto la sceneggiatura di Michael Werwie in un ibrido tra
il più convenzionale prodotto giudiziario da piccolo schermo e il
collaudato film carcerario (le evasioni costantemente messe a punto
da Bundy, di cui una in stile Fuga
da Alcatraz). Lo stesso
ritratto dell’omicida offerto dal divetto Zac Efron (qui anche
co-produttore esecutivo), impegnato in un delicato e a tratti
impressionante esercizio di mimesi col vero Bundy, spiazza sovente lo
spettatore, indeciso se quello che ha di fronte sia un genio del Male
o un narciso esibizionista, beffato all’uopo da chi la legge la
conosce meglio (il detective che lo incastra nello Utah e lo fa
trasferire in un carcere in Colorado, o uno sceriffo della Florida
che strumentalizza il caso Bundy per ottenere voti). Ma nel frattempo
il biopic è
già stato trascinato nel medesimo circo mediatico che il
protagonista impiega per fornire di sé un’immagine d’ingiusta
vittima, tentando di volgerlo a suo favore nella schermaglia con
l’inflessibile giudice Cowart (John Malkovich) e trasformando il
processo in una proposta di matrimonio con Carole Ann Boone, l’unica
a credere nella sua innocenza. “Sono più popolare di Disneyworld”,
dichiara spavaldo: il che, nonostante la morale pubblica si scuota e
divida, non impedisce a molte donne intervistate di professarsi
affascinate da lui, e perfino di amarlo. A far le spese
dell’operazione è il primigenio fattore, la verità di Elizabeth,
la cui vulnerabilità, sul labile filo della costernazione e della
vergogna, cela a lungo il motivo di quell’amore “drogato” e del
suo morboso ascendente. Benché solo dopo si sappia che proprio lei
ha dato la soffiata alla polizia mediante l’identikit su un
giornale, Ted Bundy –
Fascino criminale non
riesce a spiegare come il senso di colpa sia innescato
dall’inesprimibile empatia verso una figura contorta, oltreché da
una relazione costruita sulle bugie, e il saperlo da sempre accentua
il pentimento di Liz, che si ritiene responsabile di non aver potuto
salvare alcune vittime (nella realtà, altresì, la collaborazione
tra la Kloepfer e la polizia risulta più corposa). A conti fatti,
l’opera di Berlinger appartiene a quel genere di confezione
cerchiobottista utile a spiegare ogni personaggio controverso e
offrire, magari, qualche spunto in più su un’America malata,
eppure non necessaria a declinare un’accertata verità su tali
malefiche genie. Si ricorre a soluzioni elementari (il cane che si
ritrae da Bundy pietrificato dai suoi occhi inquietanti),
stereotipate (il disegno della figlia di Elizabeth raffigurante uno
squalo-volpe) o déjà vu
(le effusioni tra i due partner
sulle note della 9a di
Beethoven). Lo stesso colpo di scena nell’epilogo, in cui Liz
taglia corto intimando al mostro di “liberarla” dal fardello
della colpa e dirle la verità, è troppo costruito con ingredienti
thrilling ad alta tensione per non risultare retorico, e la scelta
della mozartiana Regina
della Notte a far da
contrappunto sa di maniera. In un climax
sinistro e macabro, curiosa la
scelta d’un barbuto e corpulento Haley Joel Osment (proprio lui: il
bimbo che diceva di veder la gente morta) quale angelo salvatore di
Elizabeth, come lo è ritrovare in colonna musicale quella Crimson
and Clover di Tommy
James & The Shondells già presente in un altro film su un serial
killer, Monster.
E anche se la fedeltà dei fatti è riproposta con dovizia, e sugli
ending credits banalmente
si ricorra ai veri filmati di cronaca (inclusa la nota sentenza del
giudice Cowart), Ted
Bundy – Fascino criminale non
aggiunge né sottrae granché a qualcosa, per fortuna, di ancora
oscuro. Che forse solo l’esergo di Goethe in apertura (“Poche
persone hanno immaginazione per la realtà”) cinge nella propria
sfuggevole ombra.
Francesco
Saverio Marzaduri
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