Quando risorge una stella: Stanlio & Ollio
Durante la trasmissione Laurel & Hardy – Due teste senza cervello,
che la RAI dedicò alla celebre coppia nell’autunno
1985, Alberto Sordi – com’è
noto, la più celebre “voce” di Ollio – testimoniò che il
declino dei due comici cominciò a ridosso dei primi anni Cinquanta,
prima di raggiungere il punto più basso col loro ultimo, infelice
lungometraggio, Atollo
K,
girato tra Francia e Italia. All’insuccesso del film – raccontava
Albertone – seguì un tour internazionale, durante il quale il duo
si esibiva nei propri sketch più noti: eppure il gusto dell’Assurdo,
un tempo magica scintilla, andava affievolendosi fino a ridursi a
umilianti spettacolini da rivista, unico modus
operandi per
le star di sbarcare il lunario spinte dall’indigenza. Nel biopic
che Jon S. Baird dedica alla coppia, tutto questo si ritrova, e
fedelmente, optando il regista per l’ultima parte della carriera a
mo’ di cornice, opposta a un prologo in cui i Nostri, in una fase
del successo già in bilico, discutono animatamente (con Laurel che
minaccia la rescissione contrattuale col simpatizzante fascista Hal
Roach, e Hardy che vanamente cerca di dissuaderlo), mentre s’avviano
sul set de I
fanciulli del West per
la scena del balletto all’ingresso d’un saloon. La riuscita di
Stanlio
& Ollio –
inutile negarlo – scaturisce da un senso di verosimiglianza attenta
a fotografare l’istantanea
di un’epoca in cui i tempi d’oro di quello
humour cedono il passo a nuove leve, nuovi talenti, nuovi fan. A
conciliare con segmenti in cui il duo si esibisce in teatrini che si
svuotano sempre più desolatamente, costretto ad alloggi mortificanti
e non proprio all’altezza della loro fama, sono i nuovi astri d’un
vaudeville
in crescita, di cui Norman Wisdom è principale stella, o del cinema
comico di Gianni e Pinotto (troneggiante su un manifesto che lo
sconsolato Stan rimira), che sembra averli spazzati via. Tale senso
di smarrimento imminente acquista maggior palpabilità nella scena in
cui, essendo Ollie costretto a letto dopo un attacco cardiaco, il
partner è indeciso se rimpiazzarlo o meno – e con chi, poi. Segue
la lunga parentesi dell’ipotetica lavorazione d’una parodia di
Robin Hood, che i due immaginano girata come un’operetta in stile
Fra
Diavolo e
che la carenza di fondi (e lo scarso interesse del produttore Harold
J. Miffin) rende impossibile. E si assiste, nel corso d’un
ricevimento, a frizioni e malumori tra caratteri complementari e
diversi, con Stan accusato di essere un vuoto egoista senza gag né
macchina da scrivere, e “Babe” tacciato di pigrizia e scarso
talento come interprete “serio” (e in effetti, se si esclude la
partecipazione al fallimentare Zenobia
dove Hardy “tradì” Laurel con Harry Langdon, la sola pellicola
in cui recitò da coprotagonista fu Dopo
Waterloo,
al fianco di John Wayne). Ma pur nei contrasti, proprio la
complementarietà fa sì che l’un l’altro si rivelino
un’inconfessata verità, obbligando uno dei due, tra il clamore
d’un pubblico che li applaude come un tempo, a una scelta
rischiosamente consapevole. Benché talora si ceda il passo a
inevitabili romanticherie, l’agiografica verosimiglianza è
rispettata con scrupolo e dovizia: se ci si appassiona agli ultimi
bagliori d’un (ilare) crepuscolo, è solo perché l’amore di
tutti per quei clown irresistibili non s’è mai spento, e la loro
storia è cosa nota. Né mancano i dettagli dei trascorsi d’alcolista
di Stan o della mania per le scommesse di Ollie (presente, come pochi
sanno, anche ne La
gioia della vita di
Frank Capra in cui Hardy concedeva un autoironico cameo).
Complice l’apporto dello sceneggiatore Jeff Pope, Baird non
dimentica d’includere il collaudato artificio realtà-finzione, che
nell’episodio della lite disorienta gli invitati incapaci di
stabilire se assistano o meno a uno sketch. Nonostante l’effettiva
riuscita, dovuta in
primis all’alchimia
mimetica degli interpreti Steve Coogan e John C. Reilly (col secondo,
ingrassato per l’occasione, a uscirne trionfante), ci si chiede
cosa sarebbe stata l’operazione se avesse disposto del tocco
filmologico d’uno Scorsese o di un Bogdanovich, che col recente
documentario The
Great Buster: A Celebration,
dedicato a un altro pilastro della comicità, acclude un tassello al
campionario della celluloide comica che fu. Qui, tornando la mente
anche a quella commedia di Broadway ch’era I
ragazzi irresistibili,
appunto imperniata su due ex stelle del varietà e sulle loro
incomprensioni, si (sor)ride e ci si commuove nel rimpianto d’uno
humour prossimo al congedo, che – come specifica una dicitura
conclusiva – non ha impedito al vecchio Laurel di continuare a
scrivere, anche dopo la morte del partner e dopo il ritiro dalle
scene. Come non ha impedito alla sua opera di essere riscoperta da
futuri maestri della comicità, da Jacques Tati a Jerry Lewis, nonché
allo scrittore Osvaldo Soriano di dedicare alla coppia (e un po’ a
tutta la Hollywood dell’epoca) Triste,
solitario y final.
E, sullo scorrere degli ending
credits,
altrettanto inevitabile è veder riapparire le due stelle – quelle
vere – che danzano nella scena de I
fanciulli del West.
Così ridevano. E così ridevamo anche noi, nati molto dopo, come i
bambini di novant’anni fa.
Francesco Saverio Marzaduri
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