Life is(n’t) everything: ROCKETMAN
Life is(n’t) everything: Rocketman
“E quando piove la pioggia cade
Lavando la città di allevatori
E lei è lontana da qualche parte
Nel
suo piumino
E
sogna ruscelli cristallini
Giorni
andati quando ci sporgevamo
Ridendo
a crepapelle pronti a farci scoppiare a vicenda...”
ELTON
JOHN – BERNIE TAUPIN
Classe
1947, Sir Reginald K. Dwight (in arte Elton Hercules John) ha da poco
annunciato l’addio alle scene. E in contemporanea con il suo ultimo
tour, dall’esplicativo titolo Farewell
Yellow Brick Road,
lo fa producendo un biopic
promozionale
sulla sua carriera, presentato fuori concorso all’ultima Croisette
e accolto da enormi ovazioni. Si dubita tuttavia che Rocketman,
insieme ad analoghe operazioni (ne risulta in preparazione un altro
su Boy George) studiate per bissare il clamoroso consenso di Bohemian
Rhapsody,
possa ripeterne il miracolo: e questo, beninteso, non per fattori
estetici. Nell’agiografia dedicata a Freddie Mercury si voleva
restituire l’effigie d’un artista tormentato dalle proprie
radici, per un bel pezzo rinnegate, e dalla graduale non meno
inquieta consapevolezza della propria omosessualità: perfetti
ingredienti per trasformare l’esistenza della star in feuilleton
romanzato,
maledettismi compresi, col rischio di trascurare il rapporto tra divo
e palco, elemento dapprima accennato e solo nell’epilogo
generosamente restituito. Proprio l’inglese Dexter Fletcher,
chiamato a sopperire Bryan Singer nella direzione di Bohemian,
nel mettere in scena il percorso umano di Elton John sceglie di
giocare la carta più confacente a tale operazione: un musical
semi-onirico, in cui ventidue brani tra i più noti della sua vasta
produzione, all’occorrenza reinterpretati dal cast, fanno da
commento a un tripudio di coreografie, luci, costumi, lustrini, décor
all’insegna
del kitsch. L’esito può dirsi felicemente compiuto, benché i
luoghi canonici sugli artisti musicali e le loro debolezze siano un
calcolato azzardo. Sin dall’incipit il regista non smentisce la
regola, introducendo l’Elton dei primi anni Novanta, sulle
melodiche note per archi di Goodbye
Yellow Brick Road,
abbigliato come un diavolo pennuto e sgargiante e gli immancabili
appariscenti occhialoni, che pare aggirarsi dietro le quinte d’un
palco raggiungendo invece una seduta di disintossicazione per
alcolisti. Va da sé che mentre il protagonista s’accinge ad
affrontare i demoni del passato, e ripercorrere le orme che l’hanno
trascinato agli eccessi, dall’alcol alla droga (“Sono un
sessuomane e un bulimico”), la narrazione opta inesorabile per il
flashback tornando alla Londra degli anni Cinquanta. Qui, all’interno
d’un ménage
familiare
operaio, anaffettivo e litigioso, il piccolo Reginald scopre per caso
la naturale vocazione per il piano (con la frivola madre che
acconsente alle lezioni di musica per levarselo di torno), sognando
di dirigere l’orchestra che esegue il brano indicato dal titolo.
Sfuggendo a un climax
domestico
incapace di comprenderlo e amarlo (il padre è un austero pilota
della RAF, fanatico del jazz quanto privo di slanci amorevoli), il
ragazzino stupisce l’insegnante eseguendo Mozart senza spartito
grazie a un orecchio musicale straordinario, e spinto dall’unica
persona convinta delle sue capacità, ovvero la nonna, vince
giovanissimo una borsa di studio alla Royal Academy. Ed eccolo,
nell’epoca dell’amato rock’n’roll (è la mamma a donargli un
vinile di Elvis), esibirsi come pianista provetto in un locale con
tanto di acconciatura rockabilly,
e poi – in uno dei molteplici salti temporali di cui Rocketman
è
costellato – accendere il pubblico con Saturday
Night’s Alright For Fighting e
con esso danzare per le strade. La cornice, in sostanza, è quella
d’un rutilante psicodramma in cui ciascun brano contemplato, talora
dimentico dell’uscita cronologica, assurge a tassello per definire
un disegno filologico, fedele e appassionato della rockstar. Anche se
molto è omesso della sua carriera (e infatti l’iniziale versione
del film è più lunga), l’agiografia non trascura gli inizi di
Elton annoverando le prime esibizioni coi Bluesology, ex Corvettes,
che accompagnano cantanti soul e rhythm & blues – durante le
quali la futura star conosce i primi turbamenti sessuali –
all’incontro con Elton Dean, sassofonista da cui prende il nome
d’arte, e col manager Ray Williams, al quale si presenta col
cognome John rimirando un’immagine dei Beatles. Segue la conoscenza
con lo scettico discografico Dick James (cui Reginald accenna Daniel,
I
Guess That’s Why They Call It The Blues e
Sad
Songs),
che lo ritiene deprimente, e, complice un’inserzione della Liberty
Records, col compositore Bernie Taupin che con lui stringe un lungo
sodalizio. Scacciati dall’amichetta di Elton, dopo che i due
riparano dalla madre di questi, si assiste alla nascita di Your
Song che
Taupin ascolta, rapito dal sentimento intimo e personale dell’amico
nell’intonarla; e c’è il momento in cui, durante una festa
hippy, il Nostro canta malinconico Tiny
Dancer,
prima di compiere il grande balzo a Los Angeles e, davanti a mostri
sacri della musica, infiammare la platea con Crocodile
Rock raggiungendo
la prima posizione in classifica. Quando poi il divo, ormai
affermato, conosce l’avido manager John Reid e se ne innamora (con
Take
Me To The Pilot a
commentarne il carnale tête-à-tête),
l’edulcorato carosello segue una progressione attenta a
sottolineare la superficie dell’artista,
tra shopping compulsivi e progressive paranoie, dove la terra
dell’abbondanza culmina
in una depressione innescata dall’insicurezza. Ne esce il ritratto,
tra l’eccessivo e il patetico, d’una psiche capricciosa in
perenne fuga da un ego irrisolto e in lotta con un Edipo frustrato,
dove le puntuali, sgargianti mascherate – marchio di fabbrica negli
show – mal celano una solitudine interiore non superata. Prova ne
sia l’incontro da adulto con l’arcigno genitore, che Elton rimira
in lacrime trasmettere ai fratellastri l’amore mai avuto, mentre al
primogenito chiede di autografare l’album d’esordio, Empty
Sky,
come Arthur anziché “papà”. O le incomprensioni con la madre –
che da par suo rinfaccia al figlio i sacrifici fatti per consentirgli
la musica – alla quale dichiara la propria omosessualità per
telefono, restando di stucco nell’apprendere che già lo sa
(“Nessuno ti amerà mai come si deve”). Così di fronte a
un’altra vicenda su un gay egocentrico e irrequieto, che non poco
ha in comune col Mercury di Bohemian
– anche
se più attiguo al modello di Liberace – non stupisce che il
registro più imitato sia quello di Ken Russell, e non solo per il
tourbillon
con
cui Elton, tra luci esagerate a smodata velocità e celeri cambi di
travestimento, si esibisce nella Pinball
Wizard immortalata
da Tommy:
si pensi al fallito matrimonio con la musicista tedesca Renate
Blauel, nell’infelice tentativo di darsi un’apparenza “normale”
che, nella reciproca incapacità d’instaurare un dialogo, riporta
al Čajkovskij de L’altra
faccia dell’amore.
Ma è la scena del tentativo di suicidio, in preda a un delirio da
psicofarmaci, a restituire la fragilità di un essere umano su una
tangibile vetta (la stessa che lo porta a immaginare di levitare a
mezz’aria) speculare ad un morale baratro: strillando Rocket
Man,
il fosforescente “uomo razzo” incrocia il proprio ossessivo
spettro (il Reginald fanciullo) sul fondo della piscina, prima di
rappacificarcisi nel prefinale risolvendo i dilemmi interiori con gli
altri fantasmi, ostentati come felliniani simulacri, e dopo che un
attacco di cuore segue al temporaneo divorzio artistico da Taupin. E
se ogni musical ha il suo irrinunciabile lieto fine, il clip di I’m
Still Standing (“Sto
ancora in piedi”), rigirato ex novo, è l’idonea chiosa d’un
eccentrico per induzione e per scelta, che – come specifica una
didascalia finale – ha finalmente trovato chi lo ama come
si deve,
e con oltre 400 milioni di dischi venduti non teme più il
disequilibrio. Quanto della varietà di accenti, sfumature e
sottrazioni si debba all’immedesimazione del gallese Taron Egerton,
nel non facile compito di restituire la carica contagiosa
dell’artista, non s’arresta ai confronti tra le performance
offerte
e gli scatti fotografici, a mo’ di riferimento, sui titoli di coda:
basta il tentativo di seguire, se non ricalcare, l’originale timbro
vocale nelle numerose cover,
e persino il duetto nella (I’m
Gonna) Love Me Again scritta
appositamente per il film, perché spettatore e fan escano
soddisfatti. O perché la vita (non) sia tutto.
Francesco
Saverio Marzaduri
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