L’isola (non) trovata: UN MONDO PERFETTO

L’isola (non) trovata: Un mondo perfetto 


Lungo la propria carriera di autore, Clint Eastwood realizza due film a poco più di dieci anni di distanza, dissimili per forma, vicenda narrativa e (apparentemente) genere d’appartenenza: Honkytonk Man e Un mondo perfetto. Entrambe le opere sembrerebbero partire da un medesimo principio di necessità, esposto nella rappresentazione di un viaggio che, nel corso delle vicende, ha modo di tramutarsi in un “percorso d’iniziazione”.
In Honkytonk Man – tardivo road movie di grande suggestione, miracolosamente in bilico tra commedia e dramma – il viaggio è compiuto da Red Stovall (interpretato dallo stesso attore-regista), un cantautore tisico e male in arnese diretto verso Nashville, la nota Mecca della musica country & western. Ad accompagnare il protagonista e a sostenerlo nel suo sogno, è il giovanissimo nipote Whit (Kyle Eastwood), nel quale Red vede un erede. Anche solo descrivere la trama in poche righe, forse, è sufficiente a evidenziare una cospicua serie di fattori riguardanti da vicino il viaggio come rito d’iniziazione, ma in larga parte propri del viaggio quale “sogno americano”.
Honkytonk Man sembra ricollegarsi alla tradizione di un cinema americano di tipo popolare, costellato di elementi classici del western, frammisti a nitidi echi letterari. In realtà, come spesso si verifica in opere cinematografiche riconducibili a una tendenza, ogni aspetto messo in risalto dal film rimanda a un’epopea specifica, riferendosi ad un aspetto della cultura americana rivisitato con puntiglio, simbolicamente ricostruito come un’operazione-nostalgia velata di patine malinconiche. La pellicola rielabora, il più fedelmente possibile, l’ambientazione dei primi anni Trenta cara allo Steinbeck e al John Ford di Furore. L’America è presa nel vortice della crisi economica e alcune zone – in primis l’Oklahoma – sono teatro di devastanti tempeste di sabbia e di conseguenti, biblici esodi nel deserto verso la Terra Promessa, flussi migratori che spingono molti agricoltori verso la costa californiana – già all’epoca ritenuta terra di prosperità e guadagni. Appunto, l’incipit di Honkytonk Man muove da questi principi, mostrando una tormenta di polvere nel mezzo della quale il protagonista si presenta alla sua famiglia di contadini, ubriaco fradicio, al volante di una decappottabile.

Siamo, infatti, nell’Oklahoma sfiancata dalle ‘Dust Bowls’, le tempeste di polvere care a Woody Guthrie, terribili castighi di Dio che mettevano in ginocchio le già provate economie contadine. Il film parte proprio con una di queste tempeste di polvere: a farne le spese è la famiglia della sorella di Stovall, troppo numerosa per emigrare, coi pochi dollari risparmiati, verso la California.”

Già questo basterebbe a evidenziare un gran numero di simboli legati al viaggio, ben radicati nella cultura degli Stati Uniti. Fattori che Mario Molinari, in una recensione del film, elenca con puntualità e che stemperano l’evocazione del “sogno americano” in un clima di amara malinconia, sconfinando nel pessimismo in più di un’occasione.

La commedia picaresca, il viaggio ‘iniziatico’, le generazioni a confronto, il mito del successo, quello della Frontiera, la vita errabonda e libera attraverso i grandi spazi, la grama esistenza dei contadini, la Grande Crisi degli anni ’30, la musica come mezzo per la realizzazione di se stessi…”

Riproposti in una cristallina trasparenza, i medesimi ingredienti fanno capolino in Un mondo perfetto. Per quanto il sottogenere del road movie si possa dire concluso, ciascun elemento ad esso inerente si ripresenta assolvendo una funzione di rite de passage dichiarato. Nel disegno di un trapasso dalla giovinezza alla maturità, emozionante o doloroso, Un mondo perfetto costituisce con Honkytonk Man un dittico: in ambo le opere, i viaggi sono effettuati da un adulto e un bambino. Tuttavia, in Honkytonk Man, il percorso d’iniziazione trae la propria conclusione nella morte di Red e nella conseguente scelta del nipote Whit a diventare un folk singer, perpetuando la tradizione di artista iniziata dallo zio. Per contro, in Un mondo perfetto, il viaggio non è definito, e tale diventa nel corso della narrazione, partendo con il rapimento di un bambino da parte di un evaso, trasformandosi poco a poco in un’amicizia che assume le connotazioni del rapporto padre-figlio.
Come già accennato, numerosi sono gli echi letterari radicati nella cultura nordamericana, che si riaffacciano in ambito socio-culturale come schema narrativo; uno tra essi concerne la parabola del bambino il cui apprendistato si compie al fianco di un malvivente, nel quale il giovane si convince di trovare un indelebile modello di vita – salvo ricredersi successivamente.
Un contesto simile apparenta molti celebri romanzi d’avventura, americani ed europei, quasi accogliendoli in un unico filone – da Oliver Twist a L’isola del tesoro in poi. Ma il rapporto paterno-filiale non sempre si esplica tra l’adulto e il bambino, mantenendosi altresì invariato in un confronto tra personaggi adulti, rigorosamente maschili. Da questo punto di vista, utili tornano le osservazioni di Leslie A. Fiedler:

Il rapporto fra i protagonisti è variamente configurato: servo e padrone, padre adottivo (buono o malvagio) e figlio adottivo, chi ama e chi è amato. Questo viene sempre contrapposto, implicitamente almeno, al genere di rapporti più appiccicaticci e sentimentali intercorrenti con le donne, siano quelli fra madre e figlio, marito e moglie, o appassionato pretendente e amata. Quando queste coppie d’uomini si permettono espressioni d’affetto (…), in esse viene sempre sottintesa una minaccia, perché tal genere d’amore rischia sempre di sfiorare la sessualità, e la sessualità muterebbe il puro amore antifemminista in una immagine trasposta dell’inversione, che sbigottirebbe il piccolo lettore.”

L’intero corpus della narrativa americana – non va dimenticato – si popola di figure di adolescenti che, nonostante la giovane età, arrivano a conquistare una più adulta visione del mondo: partendo da uno stadio d’incertezza, essi giungono a un pensiero definitivo, sebbene le esperienze da loro vissute non precludano mutamenti. A volte, il sentimento la spunta sulle leggi e l’assunzione di valori umani predomina su qualunque vincolo; altre volte, costretto al trapasso doloroso dell’età adulta, il giovane è spinto a una mancanza di adattamento, ma non di maturazione.
In questa prospettiva, analogo quid si riscontra in opere cinematografiche quali Paper Moon – Luna di carta di Peter Bogdanovich. In tale opera, adulto e ragazzina minacciano perpetuamente di scambiarsi il posto, di fondersi l’un l’altro, di cambiarsi nel loro contrario in modo da scaturire un paradosso: nonostante l’età, il fanciullo traspare più maturo dell’adulto, che da par suo pensa e agisce come un vero dear bad boy di stampo letterario americano.
Una ribellione permanente obbliga il protagonista a rifiutare le scelte offertegli dal mondo: in conseguenza del suo rifiuto, il giovane irriducibile privo di radici si ritrova imprigionato tra due mondi, l’adolescenza e la maturità. Ancora una volta, i romanzi di Mark Twain – in particolare, Le avventure di Huckleberry Finn – fungono da ottimo modello di riferimento nel disegnare percorsi iniziatici di bambini e adolescenti, costantemente bisognosi di rifugio e assediati da una realtà fagocitante ed oppressiva. Ancora, Fiedler pone l’accento su un’altra questione:

Tutti questi libri (praticamente sempre anglosassoni) hanno in comune determinate caratteristiche: hanno tutti protagonisti maschi, adulti o minorenni; tutti parlano di avventure e di isolamento; e, prima o poi, anche di una evasione o una fuga dalla società in un’isola, un bosco, un sotterraneo, una vetta montana, insomma qualche posto in cui non arrivino le madri; quasi sempre includono inoltre un camerata, che è lo spirito del luogo sconosciuto, e che viene presentato, più o meno ambiguamente, allo stesso tempo come un collega di fatiche e una minaccia.”

Riscontrabili soprattutto nel citato Honkytonk Man, come fossero offerti al lettore-spettatore in maniera fedele, in Un mondo perfetto tali assunti si intersecano e si fondono tra loro, aggrovigliandosi in un insieme in cui restano, tuttavia, riconoscibili. Contestualmente trapelano, in esso, indizi e rimandi al road movie anni Settanta. Basti pensare solo alla destinazione del tragitto compiuto da Butch Haynes (Kevin Costner) e dal piccolo Philip Perry (T.J. Lowther): l’Alaska, di cui Butch conserva giusto la cartolina lasciatagli in eredità dal padre. L’Alaska, già una volta meta impossibile della fuga di Bob Dupea (Jack Nicholson) nel finale di Cinque pezzi facili.1 L’Alaska, che in quel film era meta delle due autostoppiste lesbiche a cui Bob Dupea offriva passaggio.
La scelta delle donne di rifugiarsi in Alaska simboleggiava il rifuggire dal contatto umano e il nascondersi dietro un ecologismo male interpretato (le due asserivano di sapere cosa avrebbero trovato in Alaska per aver visto una foto delle sue nevi immacolate e sterili). Ma non è possibile cercare la purezza andandosene, e ciò determinava l’irraggiungibilità della meta nonché l’impossibilità della fuga. In misura analoga, il mondo appare troppo marcio alla radice e troppo poco perfetto perché ci si illuda del contrario.
In Un mondo perfetto vi sono numerosi momenti ove l’itinerario dell’adulto e del bambino si profila come un gioco, alla maniera di un viaggio attraverso il tempo; la soluzione per insegnare al piccolo la realtà della vita è mascherarla nella forma della finzione, il che – suggerisce la tesi del film – determina la maniera migliore per affrontare la realtà senza esserne sopraffatti. Il viaggio si fa lezione di vita, gestita come una pantomima in cui ciascun membro – dagli individui agli oggetti – “recitano” letteralmente una parte.
Da questo punto di vista, è simbolico che l’evasione di Butch e del suo compagno, Terry (Keith Szarabajka), avvenga durante la festa di Halloween. Figlio d’una testimone di Geova, Philip è sottoposto dalla madre alla rigida osservanza dei precetti religiosi; ciò influisce sulla sua grama condizione, che non gli consente di godere delle piccole cose di cui ogni bambino dovrebbe, in teoria, disporre. La malinconia si legge sul volto del fanciullo quando assiste ai rituali infantili di Halloween dalla finestra di casa, mentre i bambini mascherati lo sfottono tirando gavettoni ai vetri. Oltre a Halloween, Philip confessa di non poter festeggiare il Natale, né i compleanni o qualunque altra ricorrenza, di non essersi mai recato al luna park né di avere gustato lo zucchero filato (“L’ho visto una volta, è rosa”, dice il bambino. “No, non è rosa, è bianco”, risponde Butch). In questi termini, il pellegrinaggio adempie alla funzione di rito iniziatico che, più nel dettaglio, è iniziazione a quella fanciullezza di cui Philip non ha goduto. Nel corso del tragitto, il dettame trasmuta in un trapasso dalla condizione di fanciullo a quella di adulto, ben più amara e dolorosa.
Il bambino mostra comprensione, ma anche perplessità per un viaggio iniziato in maniera così stravagante, senza contare che il suo insegnante è un evaso. A questo proposito, Un mondo perfetto si ricongiunge in pieno con Honkytonk Man per un altro aspetto: l’insegnante in oggetto è un cosiddetto irriducibile, che non arretra di fronte a niente per riflettere e agire secondo il modo che gli è più idoneo. Red Stovall – come osserva Alberto Pezzotta – non filosofeggia sulla sua arte, ma è pur sempre un “cattivo maestro” quanto Butch, che per contro si rivela essere un irriducibile più tradizionalista, costretto suo malgrado a violare la legge.
Forse, Butch è dispiaciuto di questa scelta, ma non è tanto stupido da permettere che Philip segua questo esempio. In una scena, il bimbo ruba un costume da fantasma in un negozio, commettendo la sua prima infrazione alla legge. Nel sorprenderlo con il costume, Butch esclama interdetto: “Lo hai rubato!”, e senza indignarsi l’uomo ricorda al bambino che “rubare è sbagliato” (“Se ti serve tanto una cosa, e tu non hai i soldi, la puoi anche prendere in prestito: è quella che si chiama l’eccezione alla regola”). Il furto di Philip esprime altre connotazioni finniane, ma può persino ricordare il Kerouac di Sulla strada, i cui giovani protagonisti esaltano i propri piccoli misfatti come imprese epiche.
Sia in Un mondo perfetto che in Honkytonk Man, la generazione di mezzo rimane la sola a sottrarsi al culto del passato e degli ideali. Non è fuorviante il confronto con un’altra pellicola di tre anni successiva, Verso il sole di Michael Cimino, la cui vicenda echeggia Un mondo perfetto in più d’una circostanza. Analogo è il rapimento, ai danni di un medico di Los Angeles (Woody Harrelson), per mano di un delinquente evaso e affetto da un cancro terminale (Jon Seda). L’improvvisa fuga in terra navajo si traduce in un percorso di purificazione per entrambi i protagonisti, alla ricerca di una salvezza che la generica area della medicina non può garantire. Il film di Cimino – come scrive Paolo Mereghetti – è soprattutto un on the road che si concentra sulla ricerca di una “bellezza” originaria che ha smarrito l’innocenza alla nascita.
Vedi caso, a spingere Butch e Philip nel pellegrinaggio è la ricerca della stessa originaria bellezza: significativa è la scelta dell’Alaska come destinazione, “l’ultima frontiera – afferma Butch – dove sei solo contro la natura”. Purtroppo, l’America mostra sempre meno fisionomie innocenti, sfoggiando altresì quell’identità violenta e repressiva che, gradualmente, sembra avere assorbito la prima. Se la violenza – elemento cardine del road movie – è necessaria a Butch per realizzare il suo scopo, in realtà essa è l’eredità dell’America medesima, fatua e corrotta. Nell’avergli inflitto una punizione severa e ingiusta per avere rubato un’automobile, essa ha sottratto l’infanzia a Butch – come la madre di Philip con il figlio, sia pure in modo indiretto. Come osserva Adriano Piccardi:

Il problema è dunque proprio quello di una ‘normalità’, che contiene la violenza (la peggiore violenza, proprio perché ritenuta, stolidamente, quasi una propria legittima espressione) e la pratica quotidianamente, preparando in tal modo nelle persone che la subiscono la sua continua auto-riproduzione, ma che insieme sa anche generare momenti di felicità, di ‘armonia’, capaci da soli di allontanare temporaneamente (attenzione: non di sconfiggere) la sofferenza.”

A ben vedere, la violenza non è mai inserita fuori dal contesto, né è utilizzata in modo extra-diegetico; necessaria alla realizzazione del tragitto, essa – scrive Piccardi – “si organizza e si predispone a colpire in nome della ragionevolezza e del ritorno alla normalità”. Ciò si verifica in più d’un passaggio. In una scena, Butch e Philip si presentano alla casa di una donna anziana: Butch invita il bambino a recitare la formula “dolcetto o scherzetto” che, durante Halloween, i bambini mascherati recitano di porta in porta, chiedendo dolciumi in cambio. La donna tentenna finché non li riconosce e li rifornisce di cibo e soldi, solo perché Butch le ha mostrato la rivoltella stretta nella cintura. Prima di congedarsi, l’adulto strappa i fili del telefono e commenta: “Mai sottovalutare la gentilezza della gente comune”.
Ancora, per sbarazzarsi della macchina su cui viaggiano, i due protagonisti sostano presso la fattoria di un farmer per sottrargli l’automobile e i vestiti, stesi su un filo ad asciugare. L’agricoltore fa in tempo a raggiungerli e ad aggrapparsi alla portiera dell’auto in corsa, al che Butch estrae la pistola per sparargli. Ma Philip interviene all’istante, mordendo la mano del farmer finché questi non molla la presa. In questo modo, il bambino assolve un duplice scopo, sbarazzandosi dell’intruso e nel contempo salvandogli la vita. Per il momento, Philip non è in grado di assimilare il concetto di violenza, ma avrà modo di capirlo e applicarlo in seguito.
Frattanto, se il tragitto gli viene continuamente presentato sotto la forma di un gioco,2 è giusto che il bambino lo gusti con un brivido d’avventura, godendo di quell’attimo di libertà che, a seguire, sicuramente non gli potrà più capitare. Vento tra i capelli, vastità del paesaggio circostante permettendolo, seduto sul tetto dell’automobile Philip grida a Butch di accelerare a tutta birra, gustando l’ebbrezza della velocità. Non è fuorviante leggere questo passaggio come una prefazione all’analogo momento di Easy Rider in cui i tre protagonisti si esibivano in figure acrobatiche sulle selle dei loro chopper, lungo l’autostrada che tagliava il deserto, figure che simulavano il volo degli uccelli.3 
Tanto in Easy Rider quanto in Un mondo perfetto trapela un’aura di libertà effimera, propria di un sogno destinato dal principio a frustrarsi in un duro impatto con la realtà. Come nota Piccardi, il profondo legame tra i protagonisti di Un mondo perfetto raggiunge il suo climax nel citato passaggio, facendo presupporre l’idea che “la violenza che Un mondo perfetto rappresenta è tanto più cruda, quanto più dolce è l’illusione dell’amicizia impossibile tra Philip e Butch”. Talvolta, per quanto necessaria al tragitto, perfino la violenza medesima si camuffa nel gioco delle parti.
Nel momento in cui Butch e Philip si procurano il cibo, il piccolo è mascherato da Casper – il celebre fantasmino dei fumetti, amato dai bambini. Per la prima e forse unica volta in vita sua, Philip ha la possibilità di celebrare l’Halloween che non ha mai avuto, sia pure in una circostanza bizzarra. Prima che Butch sottragga l’auto e i vestiti del farmer, l’adulto manda avanti il bambino a controllare che la macchina sia provvista di ogni comfort, inclusa la radio; a Philip viene detto di agire senza dare nell’occhio, come quando si gioca ai cowboy e agli indiani.
Come dire che in caso di avversità, non bisogna essere seri né intimoriti, ma è sufficiente ricorrere allo scherzo. Braccati dalla polizia del Texas, Butch e Philip sostano in un drugstore per rifornirsi di indumenti; alla commessa che chiede a Philip da cosa si è mascherato per Halloween, il fanciullo candidamente risponde: “Da bandito”. Ancora, l’adulto suggerisce al bambino di mascherare nomi e identità per non destare sospetti; adottando questo procedimento, Philip e Butch si presentano a chiunque incontrano rispettivamente come “Buzz” e “Edgar Poe” – altra icastica citazione letteraria, dedicata all’autore di una grande avventura di viaggio quale Storia di Arthur Gordon Pym.
A ben vedere, questo insegnamento all’insegna della mascherata determina l’origine del rapporto d’amicizia tra l’adulto e il bambino, fin dalle prime scene del film. Intrufolatosi con Terry in casa di Philip, nel primo vis-à-vis col fanciullo, Butch gli chiede di raccogliere la rivoltella, poi di puntargliela contro e di esclamare: “In alto le mani!” Philip obbedisce un po’ titubante, al che Butch commenta sghignazzando: “Perfetto!” Fin dall’inizio, l’amicizia tra i due protagonisti è segnata dal gioco della pantomima, in cui al bambino si richiede di calarsi nel ruolo di malvivente; il paradosso vuole che a chiederglielo sia un malvivente vero.
Analogo momento ritorna poco dopo, quando Butch sosta di fronte a un emporio. Prima di scendere, l’uomo suggerisce al fanciullo di puntare l’arma verso Terry, ordinando di sparargli in caso di mosse inconsulte. In questo caso, addirittura il paradosso si moltiplica per tre: il malvivente domanda al finto “brigante” di tenere a bada un altro malvivente. Il gioco sarà destinato a non lasciare più traccia nella scena in casa dei braccianti negri; per l’ultima volta, Butch chiede al bambino di puntare la pistola al padrone di casa, ma stavolta glielo ordina. La realtà ha sterzato verso il dramma, accantonando quanto di giocoso definiva lo scambio tra i protagonisti, rinunciando a qualsiasi connotato di finzione. Il momento traspare realistico per quanto improvviso, acquistando una certa intensità dal suo giungere inatteso; caduta la maschera, cessato il gioco, emerge da parte del protagonista un nitido vuoto morale.
In simili frangenti, indicativa è anche la scena in cui la criminologa Sally Gerber (Laura Dern)4 improvvisa una pantomima calandosi nella parte di Butch, onde far luce sui trascorsi dell’evaso e identificare la soluzione migliore per risolvere il problema. È in questo passaggio, quando Sally impersona Butch, che si accentuano particolari sul passato del fuggiasco – le origini, l’infanzia difficile, il motivo che ha spinto Butch a uccidere una prima volta, il perché della sua condanna in riformatorio. Ancora una volta, risulta opportuno esaminare il contesto dall’esterno, il che quasi sempre si rivela il modo migliore per una più decorosa soluzione del problema. Giocare nelle avversità permette di coltivare idee chiare.
Uomini di buona volontà, quali il ranger Red Garnett (Clint Eastwood) e il suo vice Tom (Leo Burmester), sembrano disposti ad adattarsi a questa maniera, laddove il clima paranoico in cui gli Stati Uniti versano non lo è affatto. L’America dipinta dal film non tenta minimamente di scendere ad alcun compromesso, neanche per evitare spargimenti di sangue. Tutto fa pensare, tutto suggerisce, che i risvolti di cui Un mondo perfetto è disseminato condurranno a un epilogo drammatico; peraltro, non si dimentichi che la vicenda si svolge in Texas, nel novembre 1963, a sole due settimane dall’assassinio di Kennedy.
In questa prospettiva, il tiratore scelto Bobby Lee (Bradley Whitford) appare l’incarnazione mostruosa di un ambiente piagato, e non a caso reagisce alla pantomima di Sally con il cinismo e il sarcasmo di chi si vuole sbarazzare dei problemi nella maniera più spicciativa e violenta, senza mediare né riflettere, senza pensare né rimetterci (“Ehi, Butch, perché non ci dici dove sei diretto e ci risparmi la fatica di darti la caccia?”). Per questo motivo, la risposta di Sally risulta troppo acuta per essere recepita in modo opportuno (“Perché dove vado è molto meno importante del perché ci sto andando”).
Il resto è immagine, quando non squallida pubblicità, e ciò riguarda anche figure secondarie, cesellate con ferocia sarcastica sino alla caricatura. Si pensi alle commesse del negozio ove Philip ruba il costume da fantasma, cordiali e con un sorriso fatuo e mieloso stampato sulle labbra, ma soltanto perché il proprietario ha promesso dieci dollari all’impiegata più gentile. Per non parlare della famiglia cui i protagonisti chiedono un passaggio lungo il tragitto, che offre di sé un’immagine radiosa stile American Way of Life, finché i bambini non sporcano l’automobile, mandando in bestia i genitori.
Indimenticabile nella sua brevità è poi la scena che ritrae il governatore, candidato alla presidenza: un pomposo individuo che, nel garantire solidarietà alla madre del bimbo rapito, coglie l’occasione per pubblicizzare sé stesso ai propri fini elettorali. La chiave del successo è apparire rassicuranti di fronte ai flash delle macchine fotografiche, mascherandosi dietro una patina pietista e millantando valori tradizionali che si ritengono accattivanti. Nel grande gioco elettorale, come suggerisce una battuta di Red, “quello che conta è chi conosci e quello che gli devi”, e tuttavia – spiega Roberto Giammanco – il contenuto in superficie resta sempre una “mediocrità, bonaria e fortunata, serena e suadente, che non desta né soggezione né invidia”.5 
Si diceva che il camuffamento non concerne soltanto individui, ma anche oggetti, astratti e concreti.6 A ben guardare, è possibile rintracciare un travestimento perfino nel viaggio dei due protagonisti; basti a confermarlo uno dei primi insegnamenti di Butch al bambino, circa il possibile modo di fronteggiare la realtà ricorrendo alla fantasia.

BUTCH: Ehi, sei mai stato su una macchina del tempo? Ma sì… Secondo te, questa cos’è?
PHILIP: Un’automobile.
BUTCH: Stai vedendo la cosa nel modo sbagliato: questa è una macchina del tempo del XX secolo, io sono il comandante e tu il navigatore. Lì davanti c’è il futuro… Lì dietro, beh…Quello è il passato… Se la vita va troppo piano, e ti vuoi proiettare nel futuro, devi dare tutto gas… Ecco, così (preme col piede sull’acceleratore)… E se vuoi rallentare, spingi col piede sul freno e la fai rallentare (preme sul freno)… Questo è il presente, Philip: goditelo finché dura!… (ride) Sì, stiamo viaggiando nel tempo attraverso il Texas… Dobbiamo trovare una Ford, mio padre guidava solo le Ford, lo sai?…

Tale insegnamento determina per Philip l’inizio del suo rite de passage, e non meno importante è un primo indizio riguardante il padre di Butch, il vero oggetto della fuga – come si avrà modo di precisare. Da un punto di vista squisitamente letterario, il percorso dei due amici richiama quello de I saccheggiatori di William Faulkner7 – vedi caso, effettuato in automobile – e di L’arpa d’erba di Truman Capote. Ma il complesso, a sua volta, è in luogo del viaggio in zattera dei protagonisti di Huckleberry Finn. Scrive Fiedler:

Loro appropriata dimora è la zattera, che viene trasportata sull’onda della marea del tempo nella storia, come un dono delle non-cristiane potenze naturali (…). Ma l’essenza della vita sulla zattera è l’irrealtà. ‘Il movimento della zattera è molle, scivola via liscia e silenziosa…’ scrive Mark Twain in Vagabondo in Italia. ‘Sotto il suo influsso riposante… l’esistenza finisce col sembrare un sogno… un’estasi profonda e tranquilla’. Eppure il sogno della vita sul fiume, per Mark Twain, minaccia sempre di mutarsi in un incubo.”

Come gli ricorda Butch, Philip è il navigatore della “zattera”, mentre l’adulto riveste il ruolo di “comandante”; a sottolinearlo è la scena in cui il bambino legge la mappa del tragitto seguendo le indicazioni del compagno, che si complimenta con lui (“Sei un gran navigatore, Philip, sei anche più bravo di Terry!”). Come la zattera, l’automobile funge da rifugio per i protagonisti, consapevoli che mettere il piede fuori da essa è compromettente.
Non esiste rifugio, ma solo azione: il mondo è l’esatto opposto di ciò che l’idillio illustra, sebbene i pericoli riflettano un’idea di drammatica realtà che si è costruita di volta in volta. La situazione non si discosta tanto dalla società senza legge descritta da Twain, tanto più se il sogno di Huckleberry e Jim racchiude un incubo e, in qualunque ambito e circostanza, intorno a loro si tramano o si attuano violenze.
All’inizio Philip non sembra recepire la situazione, e ciò lo accosta alla figura di Giona, il profeta della Bibbia inghiottito dalla balena: il bambino arriva a capire soltanto nel corso del tragitto, in seguito alle diverse esperienze in cui l’adulto e il bambino si imbattono. Non a caso, pure il richiamo a Giona è presente. Durante il percorso, Butch e Philip incrociano il caravan che è sulle loro tracce. Butch fa in tempo ad accorgersi che “c’è della gente dentro, come Giona, quello della Bibbia”. Identificati i passeggeri dell’auto, il caravan si getta all’inseguimento del fuggiasco e dell’ostaggio – il quale, mascherato da fantasma, porge un saluto con la mano.
L’inseguimento, che termina con un naufragio del caravan in una macchia di alberi, si può leggere come una parodia di Moby Dick e del suo carattere epico; in realtà, esso ha più l’aria di una burrasca con la radura in luogo del mare e l’erba al posto dell’acqua. Come è noto, l’opera di Melville è scritta nel segno dell’iperbole: in ogni fattore, il viaggio esplicita dimensioni iperboliche, a partire dall’oggetto della caccia – una balena bianca intesa quale sinistra presenza.
Nella scena fa capolino l’iperbole di un’iperbole: se la realtà mascherata risulta più facile a comprendersi agli occhi di un fanciullo, persino un caravan può apparire camuffato da “balena d’argento” quando in effetti ha tutta l’aria d’un gigantesco cetaceo. All’inseguimento dell’individuo è la balena simboleggiata dal caravan, leggibile al contempo come un Pequod provvisto d’equipaggio – il ranger, il suo vice, la criminologa, il tiratore scelto e i due autisti.
Il rocambolesco inseguimento traspare come parodia della caccia che, nell’opera di Melville, determinava il viaggio e viceversa, trasfigurando nell’inseguimento di un quid più implicito. Un mondo perfetto presenta un’equazione in cui ogni membro è all’inseguimento di qualcosa: Red e i suoi uomini danno la caccia a Butch per riportarlo a un ordine precostituito, seppure non del tutto corretto; Butch è alla ricerca di un ordine d’altro tipo, magari giusto per quanto inesistente, che si può ottenere ricorrendo all’esercizio della violenza. I conti tornano, ciò grossomodo riassume una delle caratteristiche più prolifiche del road movie.
Si accennava, poc’anzi, a un rimando alla figura biblica di Giona. In Moby Dick – spiega acutamente Fiedler – il profeta è identificato con il protagonista del romanzo, Ishmael, pure alle prese con un viaggio di tipo iniziatico. A bordo del Pequod, nell’amalgamarsi con un equipaggio interamente maschile, Ishmael si imbatte in una passerella di fattori – l’amicizia virile, l’amore di Queequeg, la vendetta di Ahab – atti a segnarlo profondamente e a farlo diventare uomo. A esperienza dibattuta, dopo avere sfiorato la morte, il giovane abbandona un carattere schivo per acquistare la salvezza e la saggezza della maturità. Scrive Fiedler:

Eppure, c’è un’ironia che supera tutte le altre. Se Queequeg muore per Ishmael, lo stesso si può dire di Ahab; anche se, beninteso, il primo muore sacrificandosi deliberatamente, e l’altro per la sua cieca hybris. Tuttavia, è la distruzione di Ahab a salvare la vita di Ishmael, è la manifestazione della furia di Ahab a insegnare a Ishmael l’amore. Se, come Ishmael afferma a un certo punto, una baleniera è stata la sua Harvard e la sua Yale, Ahab fu suo supremo maestro.”

Philip non rischia la vita come Ishmael, sebbene sia in compagnia di un evaso ritenuto “pericoloso” dalla legge. Nondimeno, come il protagonista di Moby Dick, il bambino arriva ad un percorso di maturazione segnato da tutta una sequela di momenti caratteristici, apparentemente minimi, ma molto indicativi nell’esplicare il rite de passage. Prendiamo la scena in cui l’automobile dei due amici parte da sola per un probabile guasto ai freni; nell’abitacolo c’è il bambino, rimasto da solo per un istante. Nei paraggi è situata un’altra vettura, i cui proprietari sono intenti a fare un picnic.
Philip è in comprensibile panico, non conoscendo i comandi della vettura, né la posizione del freno e dell’acceleratore. Come nella scena dell’inseguimento, tale passaggio si può leggere come una burrasca, ove il mare ha lasciato il posto all’erba; l’automobile percorre il sentiero proprio come una barca. Mantenendo la calma, Butch “pilota” a distanza il bimbo, il quale riesce a pigiare il piede sul freno nell’istante in cui la macchina, in direzione di Butch, sta per investire l’uomo. Al termine dell’impresa, Butch commenta: “Sei stato grande, Philip! Io non avevo dubbi”.
Come già accennato, uno degli echi della narrativa americana concerne la parabola del giovane la cui maturità si effettua tramite una figura dalle connotazioni non troppo positive, nella quale il discepolo è convinto di trovare un fermo modello di riferimento, prima di avere la possibilità di ricredersi. Analogamente, Philip abbandona il lato infantile allorquando intuisce che la realtà, per come si illustra, a lungo andare non può più essere scambiata per gioco: l’indebita e improvvisa intromissione del reale finisce per scompaginare i confini della finzione.
Camuffata o meno, la violenza rimane sempre la stessa; il viaggio quale fuga include una violenza indotta, che finisce col prevalere in circostanze molteplici, nella fattispecie casuali. Per quanto necessaria, essa trasforma in sogno un’illusione, e viceversa

La libertà è soltanto una grande illusione che si può solamente inseguire ma non certo raggiungere in un paese caratterizzato dalla violenta intolleranza (…)”

Ciò è sottolineato in due momenti specifici. In uno, ad esempio, Butch e Philip si imbattono nella famiglia cui chiedono un passaggio, prima che Butch decida di “prendere in prestito” la loro macchina. Nel discutere con Philip, l’uomo commenta: “Se si fossero messi a discutere, avrei dovuto sparargli. E che fine avrebbe fatto quella famiglia?” Certo, non vi è dubbio – per adoperare la sua espressione – che essere un buon padre sia “la cosa migliore per un uomo”; pur tuttavia, se Butch delinea quel paterno modello di riferimento di cui Philip è privo e nel quale quest’ultimo ripone la fiducia, quel modello sembra il primo a non credere nei suoi insegnamenti, né in una presumibile perfezione del mondo.
Il solo strumento volto a garantire all’individuo la sopravvivenza o la libertà – se di libertà si può parlare – è la violenza nelle sue molteplici sfaccettature. Non necessariamente essa effettua il suo corso, ma se ne può avvertire la latenza tramite gesti e situazioni – mostrare la rivoltella, minacciare, gridare. Se in queste forme il mondo appare sempre meno perfetto, un bambino di soli sei anni non può non rimanerne investito.

L’insieme che ne risulta è straziante. Logico che un bambino non possa reggere all’emergere di una tale massa mostruosa; logico che, anche non volendolo veramente, possa sparare a colui che di tale crudeltà sembra essere il responsabile. E qui il sogno davvero finisce, il cuore di tenebra si è mostrato in tutto il suo orrore, proclamando risibile ogni velleità di riscatto, per chiunque (…)”

La realtà è tanto confusa e marcia da non riuscire più nemmeno a distinguere la differenza tra “minaccia” e “fatto” che, in un altro momento emblematico, Butch spiega a modo suo al compagno d’evasione Terry. Butch gli rompe il naso, ricordandogli che un’azione è più eloquente di tanti discorsi superflui. Pure, un simile scambio di battute trapela come un insegnamento: Philip resta interdetto di fronte al suo rapitore, convinto che il suo atteggiamento violento possa riversarsi su lui da un momento all’altro.

Questo scambio di battute conciso, brechtiano, costituisce la prima di una serie di lezioni per Philip, e rappresenta l’esatto opposto delle lezioni standard del cinema americano, tipo ‘segui ciò che ti dice il cuore’ o ‘la vita è breve, quindi gustala fino in fondo’. È una lezione molto più sobria, severa, di quella a cui siamo abituati negli Stati Uniti, più prossima al tipo di franchezza che si trova nel cinema francese, ma più sottile, più astutamente inserita nell’azione.”

Butch non nuocerebbe mai a Philip, tanto la sua condizione familiare è analoga a quella dell’evaso. Parafrasando Fiedler, come Huckleberry Finn mente e scappa e si nasconde per amore di Nigger Jim, lo stesso fa Butch per amore del bambino: come la creatura di Twain, Butch ha esteso l’interesse per sé medesimo fino a comprendere anche quello di un altro. Come osserva Fiedler, tuttavia, il malvivente è la copia grottesca dell’adolescente medesimo, da cui questi fugge, incurante che proprio il malvivente è il suo modello di riferimento più diretto. In Un mondo perfetto, Butch rappresenta “l’innocenza deformata a immagine della colpa” di Philip, ciò che il bambino potrebbe diventare una volta adulto.
Eppure, Butch non pare tanto la rappresentazione di un Injun Joe o di un Pa’ Finn, piuttosto il calco di un angelo protettivo, volto a preservare il bimbo da avversità o da violenze stupide, spesso immotivate. In una scena, intrufolatosi nella casa di Philip, Terry schiaffeggia il bimbo senza motivo e tenta di violentarne la madre, finché non sopraggiunge Butch a renderlo inoffensivo con un calcione. Durante il tragitto, Terry colpisce il bambino ripetute volte per il sadico gusto di farlo; va da sé che l’uomo ucciderà il compagno d’evasione, salvando Philip dalla sua violenza.
Al contempo, Butch rappresenta per il fanciullo l’ombra minacciosa e l’anima redentrice, l’angelo custode nella misura in cui lo sono Becky Thatcher per Tom Sawyer, Nigger Jim per Huckleberry Finn e Queequeg per Ishmael. Se evidente risulta che Philip veda nel rapitore la figura paterna, tale è il legame del bambino con l’adulto da indurre Butch a ricoprire questo ruolo con il debito trasporto. Anche in questa circostanza il gioco delle parti fa capolino, di nuovo il riferimento è a Huckleberry Finn.
Alla cameriera che serve la cena ai due protagonisti, insospettita dalla loro provenienza, Butch racconta una bugia in cui dichiara di essere il padre adottivo del bimbo, confermando tuttavia una sincera mansione paterna.

La sua madre biologica è viva, lo ha dato in adozione a me e a mia moglie… Che poi è morta… Lei è… Era la… La matrigna di Buzz… Quindi, è lei sua madre… Era sua madre, la matrigna… Ma è morta…”

Per salvaguardare un sogno di libertà e sopravvivenza, Huckleberry Finn è indotto a mentire per non compromettersi in situazioni da cui riesce a salvare la pelle, ma dalle quali non può sentirsi escluso a lungo andare. A differenza di Huckleberry o di Tom Sawyer, le cui bugie accentuano troppi particolari di fantasia per risultare convincenti, Butch snocciola menzogne più asciutte, prive di qualunque irrealtà, che gli consentono di farla franca finché una svolta improvvisa non rimescola le carte.
Nella circostanza, Butch capisce che la cameriera lo sta corteggiando e di conseguenza gli basta poco per attaccare bottone. Nella scena successiva, l’uomo è intento a fare all’amore con la donna, finché Philip non sbircia involontariamente da una finestra, interrompendo il rapporto. In questa parentesi, il bambino deve affrontare la scoperta della sessualità, determinante la conclusione del periodo infantile e l’avvio all’età adulta. Un quid similare è presente anche in Honkytonk Man, nel divertente intermezzo che illustra il nipote di Red in una casa di tolleranza, ove il ragazzo ha la sua prima esperienza amorosa sotto il patrocinio dello zio.
Non tanto la sessualità, di per sé ricorrente nel disegno dell’iniziazione, quanto la sua vera e propria scoperta da parte del bambino è cardine della narrativa americana. Come osserva Franco la Polla, questo tema è insito nei romanzi di alcune grandi firme del Novecento – da Faulkner a Capote, da Thomas Wolfe a Carson McCullers, da Harper Lee sino al più recente William Styron. Nel sorprendere Butch che fa l’amore con la cameriera, Philip scopre il sesso per caso nella posizione che Henry James – ricorda La Polla – definirebbe “di privilegio”.
Nondimeno, non può non tornare alla mente il Joe Christmas di Luce d’agosto, altro osservatore esterno di un rapporto sessuale nel quale uno dei partner è la madre.

A cinque anni egli ha ormai l’abitudine di intrufolarsi ogni giorno nella camera della donna per assaggiare la pasta dentifricia che ella vi tiene. Ma quando, impossibilitato a fuggire per l’arrivo della donna, si nasconde dietro una tenda, ancora col tubetto in mano, egli non si rende conto di quello che sta accadendo: la donna è entrata con un giovane assistente medico e ciò che i due stanno facendo non tocca, o almeno non sembra toccare, il piccolo Joe più di quanto non lo potrebbero toccare due persone che parlassero una lingua sconosciuta. Allo stesso modo egli non si accorge di avere, nella foga e nella trepidazione del momento, ingerito una forte quantità di dentifricio.”

Come numerosi antieroi adolescenti della letteratura nordamericana, Philip appartiene alla rigida e bacchettona tradizione del Sud, prezioso terreno di conservazione che vive del passato, intriso della condizione repressiva che vieta ai bambini la scoperta di tabù delicati. Per giunta, Philip è figlio di una testimone di Geova e, dunque, è figlio della religione e del conservatorismo, laddove il sesso – come spiega La Polla – è “un chiaro segnale dell’ordine sociale che, a livello psicologico, regola il mondo del Sud”.
Curioso che Un mondo perfetto illustri alcuni accenni twainiani amalgamandoli a topoi cui Twain preferiva rimanere estraneo. Come ricorda Fiedler, di rado il problema della sessualità è affrontato in Twain, il quale si limita a giocare con l’età dei suoi piccoli eroi – per la verità, più adulti dei grandi – ponendo il mondo dell’infanzia sul medesimo asse di quello adulto, omettendo l’adolescenza appunto per evitare di affrontare il tabù. In compenso, come ricorda La Polla:

Il pattern della Fuga, non presentando una forza d’urto diretta come l’altro ma essendo anzi passibile di una presentazione in forma apparentemente disimpegnata (le più o meno allegre avventure di alcuni ragazzi di frontiera), fu in pratica il centro delle più importanti opere twainiane.”

Nel disegno del viaggio tra uomini, uno degli schemi più abitualmente utilizzati è la presunta omosessualità fra i componenti, talvolta celata; in un autore come Melville, tale latenza è riscontrabile nel rapporto tra Ishmael e Queequeg o in quello fra lo schiavo negro Babo e il suo padrone Don Benito nel Benito Cereno. Ma il viaggio di Butch e Philip è segnato in realtà dall’amicizia, dal rispetto e dalla confidenza reciproca. Emblematica la sequenza in cui Philip deve cambiarsi d’abito e si vergogna di spogliarsi di fronte a Butch, intimorito che l’adulto si accorga del suo “pisello striminzito” e lo sfotta. Butch però rassicura il bambino (“È giusto, per uno della tua età”), che torna a sorridere e può denudarsi senza paura.
La scena si può leggere come un omaggio a Twain, o come un affettuoso sberleffo; eppure, Eastwood e lo sceneggiatore John Lee Hancock giocano con la sessualità dei protagonisti nella formula più classica del paradosso. In un ulteriore passaggio di Un mondo perfetto, il tema del sesso riappare in antinomia con la Purezza. Ripreso il viaggio, infatti, Philip pone a Butch domande inerenti all’argomento, senza smarrire la propria aura candida. Da par suo, l’adulto non nasconde imbarazzo, dimenticando per un istante che Philip ha solo sei anni, e certe cose della vita risultano estranee per quell’età.

PHILIP: Sei arrabbiato con me?
BUTCH: No.
PHILIP: L’hai baciata, eh?
BUTCH: Sì, più o meno.
PHILIP: Perché?
BUTCH: Perché è piacevole. Mai visto la mamma baciare un uomo?
PHILIP: No.

La conversazione langue, smozzicata in frasi che sembrano essere di convenienza, raggelate da silenzi imbarazzanti. La scena può rimandare alla scoperta del sesso in due romanzi quali Una morte in famiglia di James Agee e Il buio oltre la siepe, affrontata in maniere molto simili, sia pure con differente epilogo. Nel primo, la scoperta è fatta dal piccolo Rufus – rimasto all’improvviso orfano di padre – che porge una domanda a suo zio Andrew circa la maternità della madre: la risposta violenta e inattesa dello zio specifica l’evidente terrore per l’argomento, scaturito dall’educazione puritana e repressiva del Sud. “Tipica reazione – osserva La Polla – di una morale inculcata e non completamente vissuta”, il terrore è accentuato dalla scoperta del sesso da parte del bambino.
Nel secondo, la piccola Scout Finch domanda a zio Jack “che cos’è una puttana”. A dispetto di Andrew, zio Jack non è un reticente e non risponde in modo aggressivo. Pur non nascondendo un certo imbarazzo, egli si limita a raccontare un aneddoto inerente al tema. “I bambini sono bambini” – ammonisce Atticus, il padre della bambina – ma possono individuare prima degli adulti una risposta evasiva”. Allo stesso modo, in Un mondo perfetto Butch non utilizza giri di parole e propende per una trattazione dell’argomento a livello di una burla, siglando con una battuta che si risolve in una liberatoria risata da parte sua e di Philip.

PHILIP: Perché le hai baciato il didietro?
BUTCH: Beh, è difficile da spiegare... Lo so che ti è sembrato strano… (sorride) Eh, che cavolo… Lo so che ti è sembrato strano…
PHILIP: Tu la ami?
BUTCH: Chi?
PHILIP: La signora che ti ha cucinato l’hamburger.
BUTCH: (sospira) Eh, sì, Philip. Sì, la amo. Le ho baciato il didietro, no?

Nella spiegazione del sesso a un bambino, il film è più vicino a Harper Lee che non a James Agee. Come nota La Polla, nella scrittrice il modo di condurre il pattern ricorda Twain da vicino: si pensi alla componente sessuale “divergente” che determina il rapporto tra i due adolescenti, Dill e Scout. Inoltre, ne Il buio oltre la siepe è presente quella figura paterna di cui un ingente numero di adolescenti della narrativa americana è sovente alla ricerca.

Lo splendido, perfetto Atticus Finch non potrebbe essere respinto da nessun figlio: egli è, anzi, ciò che tanti figli hanno cercato per anni. (…) Il Padre che mancava a Tom, e ancor più a Huck, che Eugene Gant, gigante solitario, implorava, che cercarono Henry Sutpen, Quentin Compson, la Peyton Loftis di Lie Down in Darkness di William Styron e gli altri mille sfortunati eroi del Sud, quel padre non manca in To Kill a Mockingbird.

Butch Haynes è molto simile a Atticus, il “padre perfetto” che ciascun figlio desidererebbe avere. Laddove però Atticus risulta troppo perfetto per apparire convincente, non presentando un difetto che lo scalfisca – e oltretutto è un avvocato – Butch è un malvivente, troppo inserito, sia pur non sempre volontariamente, in una spirale di violenza per risultare figura positiva agli occhi di un bambino o di chiunque incontra sul tragitto.
In compenso, Philip si ricollega a personaggi di estro twainiano privi di modello paterno; addirittura, nel bambino si può leggere un equivalente maschile della Peyton di Una notte di tenebra: una born loser che la ricerca del padre conduce alla rovina, vittima di quella società competitiva da cui rifugge, nel cui desiderio di libertà si individua la frustrazione. Ancora, Philip può ricordare il Colin protagonista di L’arpa d’erba di Capote, o forse lo Eugene Gant di Angelo, guarda il passato o il George Webber de La ragnatela e la roccia, entrambi di Thomas Wolfe.
Nella ricerca del genitore, tutt’e tre le figure muovono verso un Nord più progredito rispetto al paese d’origine. Rimanendo in ambito wolfiano, Butch è un equivalente del Nebraska Crane de La ragnatela e la roccia, l’amico in cui George intravede un sostituto della figura paterna – ma Nebraska è una creatura del Sud, la ricerca del padre è sempre identificata con la fuga verso Nord. Personaggi autobiografici, Eugene e George dirigono a settentrione senza trovare ciò che cercano, intenzionati a lasciare alle spalle il proprio mondo pur sapendo che le loro radici sono lì.
Ciò si ritrova nel discorso di Butch a Philip sul viaggio come fuga nel tempo (“Lì davanti c’è il futuro… Lì dietro, beh…Quello è il passato…”). Se però il pellegrinaggio dei due personaggi di Wolfe contrasta con le divergenze tra Nord e Sud, ciò non si evince in Un mondo perfetto, il cui schema narrativo più che altro si concentra sulla fuga improvvisata dei due amici. Fuga, come si è detto, delineante per Philip l’esclusiva possibilità di sfiorare una maturità dolorosa, abbandonando per un istante l’infanzia.
Specialmente nell’accostamento del film a Huckleberry Finn, il viaggio dei protagonisti trova un’aura di sogno impossibile, destinato inevitabilmente al fallimento. A riguardo, un’osservazione di Fiedler ben si adatta alla fuga di Butch e Philip e all’impossibilità di essa.

Il problema di Huck non è perciò quello di capire il suo destino, ma di accettarlo; e Huckleberry Finn è la storia dei suoi tentativi di sfuggire a quel destino (…); ma non sa dove arriverà nella sua fuga, tranne che la sua meta è il nulla, semplicemente un’anti-società, di cui egli è uno zero, un fantasma privo di vero nome.”

In Un mondo perfetto, il problema di capire il proprio destino non affligge Butch né Philip, il quale durante il tragitto si rende conto di quanto sia vicino alla sorte cui Butch va incontro. Seppure in modo rancido, ciò rientra nel percorso d’iniziazione, ma sancisce l’utopia della fuga da un mondo imperfetto, l’impossibilità di riscontrare un’ipotetica perfezione. La fuga è inutile quanto l’evasione di Butch, nel finale tutto rientra nella “normalità”: nessun mondo è perfetto come lo si desidera, nessuna società può realizzare il destino tanto di Butch e Philip quanto di ogni immaginabile Huck Finn. Impossibile è la meta da raggiungere: l’Alaska è lontana, la purezza innocente lo è di più.
Se ancora si riscontrano figure che irriducibilmente cercano di sfuggire alla sola norma possibile, esse appaiono spettri privi di nome e identità, fantasmi come il costume indossato da Philip quasi per l’intero viaggio.
Può darsi che Michael Wood abbia ragione nell’affermare che l’eroe non crede sino in fondo in una società regolata dalle donne, per la maggior parte depositarie di valori tradizionali – il matrimonio e la religione, la casa e la famiglia. E può darsi che Wood non abbia del tutto torto a ritenere la casa come ciò che ogni irriducibile dovrebbe desiderare, sia pur non convinto di riuscire ad accettare.

L’America non è tanto una casa per qualcuno, quanto il sogno universale di una casa, un desiderio le cui attrattive dipendono dal suo rimanere a livello di desiderio. Il cinema riporta a casa i ragazzi, ma si ferma appena li ha riportati: la casa infatti, questo ideale così esaltato e così assolutamente americano, è una specie di morte e una giustificazione indiretta di tutti quei vagabondaggi che per così tanto tempo te ne hanno tenuto lontano.”

In questa prospettiva, risulta più facile comprendere la sequenza finale di un film come Sentieri selvaggi: Ethan Edwards (John Wayne) riporta a casa la nipote rapita dagli Indiani, rifiutando di rientrare nella comunità. Nel suo viaggio per ritrovare la fanciulla, Ethan ha dovuto giocoforza mettere in conto l’uso di violenza e ricorrere ad essa, elemento opportuno all’irriducibile per sopravvivere in ambiente avverso – la wilderness, in questo caso, di lì a poco destinata a scomparire insieme alla frontiera, al suo mito, ai suoi corpi e ai suoi luoghi. Sebbene necessaria, la scia di violenza lasciata dall’irriducibile annulla ogni plausibile reinserimento nel mondo civile.
Ethan rimane per un istante sulla soglia, prima di allontanarsi definitivamente nel deserto, mentre la porta di casa si chiude dietro di lui. Come nel film di Ford, così in Un mondo perfetto la violenza è entità integrante del vagabondo, di cui è impensabile un ritorno alla normalità; intessuto di valori tradizionali, il mondo civile è l’esatto opposto del modello di vita scelto dall’irriducibile. Con ogni probabilità Butch corrisponde al vagabondo libero e autosufficiente; non certo Philip che, durante una sosta notturna presso un campo di granturco, confessa all’amico di volere tornare a casa, intristito dalla nostalgia.

BUTCH: Che cosa hai?
PHILIP: Io voglio andare a casa.
BUTCH: Se volevi tornare a casa, perché non sei rimasto al negozio oggi?
PHILIP: Perché sì.
BUTCH: Perché sì cosa?
PHILIP: Perché ho rubato. Mi metteranno in prigione e andrò all’Inferno.
BUTCH: (ride) è la stessa cosa, Philip. Non c’è differenza. Ci torni presto a casa. Te lo giuro, va bene?

Nelle parole di Butch s’intuisce una forma di esorcismo per quel nucleo che, da tempo, ha smesso di coltivare, vuoi per libera scelta o perché indotto a tale scelta. Nelle parole di Butch non si può non avvertire una nostalgia di fondo, ma l’esperienza del tragitto e il conseguente brivido dell’avventura risultano fattori ottenibili solo all’interno d’una comunità interamente maschile; le figure femminili appaiono fuori contesto, poiché interrompono o troncano l’idillio. Come sottolinea Pezzotta, nel contesto in cui si inserisce Un mondo perfetto, si tratta di

Un mondo tutto al maschile, che passa attraverso l’apprendimento dell’uso delle armi e il superamento del complesso di avere il pene piccolo: fin dal primo incontro, Haynes invita Philip a maneggiare la rivoltella, e poi lo rassicura che il suo ‘pisello’ è ‘normale’, per uno della sua età. E per riguardo a Philip, Haynes rinuncia – dopo anni di prigione – a concludere con la cameriera vogliosa.”

Se nella narrativa americana più classica ciò costituisce denominatore comune per molti autori – si pensi al Melville di Moby Dick e di Benito Cereno, al Poe di Gordon Pym, ove il Pequod, il Saint Dominique e il Grampus sono per statuto, in quanto navi, universi privi di figure femminili – ecco che nel cinema tali modelli riappaiono in quanto pattern fondativi, congeniti alla cultura statunitense. Per dirla con Wood, “le sole famiglie credibili appaiono nel contesto di un passato elegiaco, perché il cinema esalta, tipicamente, la comunità non attraverso la famiglia ma attraverso il cameratismo virile”.
Nell’affermare che non esiste differenza tra Inferno materiale e spirituale, Butch rimanda di nuovo alla figura di irriducibile per antonomasia del romanzo americano, Huckleberry Finn. Non è illecito, infatti, leggere Un mondo perfetto come una trasposizione del testo di Twain, anche se molto libera; tanti sono gli assiomi che inducono a vedere nell’odissea dei due protagonisti una replica del viaggio di Huck e dell’amico Nigger Jim. Addirittura, il sogno di libertà che spinge Butch a fuggire risulta dettato, più o meno, dalle medesime motivazioni che inducono Huck a fuggire. Scrive Fiedler:

Avendo respinto il mondo delle madri, Huck è condannato ad andare veramente “all’inferno”, a perdersi nei bassifondi della violenza, una violenza così universale che non la si giudica, ma la si respira come un’atmosfera. è un mondo in cui si sopravvive in virtù del proprio spirito o della stupidità altrui (…)”

Non a caso, nelle parole di Butch che assembra casa e Inferno nello stesso mosaico, si riscontra un rimando al piccolo paria indeciso tra quel che dovrebbe e quel che vorrebbe fare, e che infine si convince della scelta di andare all’Inferno.

Non più libero pensatore che selvaggio, egli non solo conosce ma, in astratto, crede alle norme, in forza delle quali non potrebbe sopravvivere un istante, nell’infra-società senza legge dove vive. Perciò egli distingue costantemente, dentro di sé fra quel che ‘dovrebbe fare’ e quel che sente di ‘dover fare’; e tale distinzione dà forza alla crisi morale del libro.”

Non esiste religione per gli irriducibili come Butch. Se si decide qualcosa, lo si decide senza programmi, e in ogni caso si va fino in fondo, altrimenti non si è liberi; l’irriducibile è un ateo, in un certo qual modo. In Un mondo perfetto, una delle difficoltà di Butch risiede nello scontrarsi con i precetti della religione cui Philip è stato educato, ma nei quali forse il bambino non crede sino in fondo. Nella scena in cui i due amici imboccano un sentiero in cerca di cibo, Butch dice a Philip “festeggiamo Halloween”, ma il bimbo risponde che è contrario alla sua religione. Al che Butch taglia corto (“Philip, io lo chiedo a te. Non lo chiedo a tua madre, non lo chiedo a Geova. Vai a chiedere i dolcetti o no?”) e, benché perplesso di fronte alla reazione, Philip acconsente.
Come scrive Gianni Celati, Huckleberry delinea “l’immagine della frontiera, l’eroe che dorme in una botte e non sa nulla dei rituali di normalizzazione che la chiesa e le donne hanno introdotto nella zona di violenza primitiva”. Isolazionista e solitario, individualista ma non egoista, egli incarna l’autentico dear bad boy che non può essere redento. Come accennato, nel romanzo statunitense, enumerabili sono i prototipi di adolescenti che coltivano il pronostico di spingersi a Nord, sia per la scelta di allontanarsi da un Sud arretrato, sia per la ricerca del padre. Il romanzo di Twain si basa su una fuga dalle radici quanto alcuni esempi della letteratura novecentesca.
La narrativa americana si sviluppa intorno quest’asse, ma più o meno tutte le sue creature più indicative sono irriducibili, ed è intuibile una loro a-scrivibilità alla tipologia. Personaggio fondamentalmente simbolico, Huckleberry Finn è figura eponima, classificabile come unica; non ha fratelli e il suo destino è di avere emuli, non figli. Denominatore rigido, Huck non ha eredi diretti. Ciò che per Dill o Peyton rimane soltanto un pronostico, per Huck si fa scelta di vita consapevole: un allontanamento dalla società che induce l’irriducibile a relegarsi ai margini. Per il resto

Condizionati o oppressi, gli adolescenti della tradizione narrativa (…) sono per lo più dei Tom Sawyer il cui ritorno a casa è non soltanto d’obbligo, ma è spesso sperato e vagheggiato da essi stessi (trattandosi di Tom come potrebbe essere altrimenti?). Da un lato l’incertezza del luogo nuovo, dall’altro la sicurezza di un’educazione sociale che immancabilmente preme sulla volontà e sul carattere. Fra i due poli la scelta finale è quasi ovvia.”

Privo di piani predeterminati, l’antieroe prosegue il pellegrinaggio cogliendo il mondo nella sua trasparenza, condizione base per riuscire a sopravvivere. Riadattando i fattori caratterizzanti il vagabondo del romanzo al dropout dello schermo – come nota Giampiero Frasca – “il presupposto fondamentale del movimento del vagabondo è l’assoluta “assenza di direzione”, la mancanza d’identità e di una meta prefissata”. Così come i motivi tipici dell’adolescente, spinto a Nord alla ricerca del padre, a indurre Butch alla fuga sono le condizioni del vagabondo immune dalla civiltà, spinto a vivere senza regola o norma precostituita.
Pure, Philip non presenta un modello di riferimento paterno, e palese risulta il legame di amicizia che intercorre tra Butch e il bambino, sincero per quanto impossibile. Irreale è lo stesso rapporto fra i due, in luogo dell’altra associazione impossibile costituita da Huckleberry Finn, il ragazzo derelitto, e Nigger Jim, il fuggiasco di colore. Se però Huckleberry è un “ragazzo senza mamma”, Butch e Philip sono “ragazzi senza papà”, e lapidaria è la scena che li ritrae nell’atto di scambiare confidenze.

BUTCH: Non conosco nessun Philip con gli occhi marroni. Chi si chiamava così?
PHILIP: Mio padre.
BUTCH: Tu e tuo padre andate d’accordo?
PHILIP: Sì, signore.
BUTCH: Giocate mai a palla o a nascondino, quando siete a casa?
PHILIP: No, signore.
BUTCH: E come mai?
PHILIP: Non sta molto a casa.
BUTCH: Beh, o ci sta o non ci sta. Quando lo hai visto l’ultima volta?

Alla domanda, Philip si limita a scrollare le spalle col capo chino; dunque, Butch rintraccia nel bambino un erede, come Red nel nipote Whit in Honkytonk Man. Lo scambio di battute che segue chiarisce ulteriormente l’analoga condizione che lega i due amici.

BUTCH: Noi abbiamo molte cose in comune: siamo tutt’e due bellissimi, ci piace la Royal Cola e abbiamo un padre che non vale un accidente.
PHILIP: Mamma dice che ritornerà, forse quando avrò dieci anni.
BUTCH: Beh, ti ha detto una bugia. Tutto qui, mmh? Lui non tornerà più. Quelli come noi, Philip, devono stare da soli per correre dietro al destino… (sorride) Tu mi hai capito, vero?

Nella scena in cui avviene lo scambio di battute, Philip non immagina di aver trovato il suo maestro di vita; Butch somiglia ad Huck in più di un aspetto, e a ben vedere anche il fanciullo serba caratteristiche di finniano estro che vieppiù lo legano al rapitore in un profondo vincolo. Come nota Fiedler, Huck è un adolescente spinto alla fuga da un nemico misterioso, un’immagine deformata di ciò che il giovane potrebbe divenire da grande; così pure, inizialmente, a Philip risulta difficile ipotizzare che Butch proietti il suo simulacro futuro.
Non per questo si deve ritenere Butch un individuo pericoloso, quanto piuttosto una vittima predestinata della società, costretto a reagire con quella violenza che la stessa società gli ha inflitto. Butch è il buon selvaggio che agisce con violenza, sì, ma a seconda delle circostanze, e mai per il gusto sadico del gesto. Ecco, dunque, una prima differenza tra l’irriducibile del romanzo di Twain e il protagonista del film. Scrive Fiedler:

Huck, per quante altre colpe abbia, è certamente il ragazzo più contrario alla violenza che appaia nella narrativa americana, e somiglia più a Oliver Twist che al suo compagno Tom Sawyer. A differenza di Tom, non fa mai a pugni; e se, una volta, rivolge un fucile contro il padre forsennato che lo ha minacciato con un coltello, non spara. Non spara mai, neppure per autodifesa (…). Corre, si nasconde, prende un granchio, se la batte e, quando non può far altro, soffre.”

Ribaltando lo schema di analisi di Fiedler, pur non essendo avverso alla violenza, Butch se ne serve per riportare un ordine sovvertito di cose a un equo equilibrio. Egli non è tanto una figura satanica per Philip, quanto un angelo custode volto a scendere in campo in sua difesa, e non sembra l’equivalente di un Pa’ Finn quanto, per contro, dimostra di esserlo il compagno d’evasione Terry. Nella scena dell’inseguimento nei campi, Philip si nasconde per evitare di essere ucciso da Terry; passaggio, questo, ove si respira l’analogo clima di tensione di quando Huckleberry fugge dal delirium tremens del padre, che insegue il figlio credendolo l’angelo della morte. Con ogni probabilità, Philip se la vedrebbe brutta se non intervenisse a difenderlo in extremis Butch, che ricompare di fronte a Terry e gli spara in fronte. Prima di questa scena, molto porta a supporre che anche Butch sia un personaggio negativo, oltre che violento; di nuovo, è sufficiente ricordare il momento in cui Butch spiega in maniera concisa a Terry la differenza tra “minaccia” e “fatto”, rompendogli il naso con scatto inatteso.
Nel confronto tra Butch e Terry, Un mondo perfetto gioca con il binomio del “cattivo” ed il diverso modo di illustrare la violenza: quella sadica si collega a Terry – equivalente del Pa’ Finn, quindi il nemico da cui Philip deve difendersi – e quella intesa a restaurare la normalità si riconduce a Butch, equivalente di un Nigger Jim. Se nel romanzo Huckleberry era figura contraria alla violenza, nel film egli s’è fatto violento per necessità. Come infatti puntualizza Alberto Pezzotta:

Il fatto poi di affiancare a Haynes un compagno sgradevole e violento, da cui prende subito le distanze, lo pone automaticamente dalla parte del bene, anche se resta schierato dal lato sbagliato: ma ciò non per colpa sua, quanto della società, del sistema giudiziario, della mentalità fondamentalista che crede nella punizione e di cui Garnett è esponente sulla via della resipiscenza.”

In un certo senso, si ha l’impressione che Butch risulti più temibile di Terry, che difatti non nasconde un evidente terrore nei confronti del compagno. Butch (come i vascelli di Melville) è infatti un’isola in movimento che basta a sé stessa, e che da ciò trae forza. Solitario e scafato, taciturno e navigato, Butch è antieroe individualista e indipendente come un personaggio da road movie anni Settanta. Non essendo un bieco naturale né uno psicopatico, Butch parla poco e si esprime più a gesti che a parole. Per la maggior parte si tratta di gesti inconsulti o al limite del tic, soprattutto con Terry, che una sola volta anticipa Butch sottraendogli le chiavi della macchina, prima di recarsi a un telefono. “Così non lo lascio qui”, dice Butch a Philip, alla cui domanda “Tu ce lo lasceresti?” l’uomo risponde con beffardo sogghigno: “Ah, certo”.
Le azioni di Butch, silenziose ed eloquenti al contempo, si amalgamano con la capacità dell’uomo di anticipare il prossimo in tutte le circostanze. Un esauriente spunto illustra il momento in cui, nel drugstore, buttando un occhio alla sorridente commessa che lo serve e un occhio al direttore nell’altra stanza, Butch capisce che la radio sta parlando della fuga dell’evaso e della cattura del bimbo. A quel punto, il grasso direttore getta uno sguardo al protagonista, che non smette di fissarlo un istante, e fa per alzare la cornetta; ma Butch lo fa desistere dal proposito, raggelandolo con un’occhiata, un attimo prima di rimettersi gli occhiali scuri e di infilare un fascio di banconote nel reggipetto della commessa.
Miglior esempio fornisce la citata scena in cui, nei pressi di un emporio, Butch intima al bambino di puntare la rivoltella contro il compagno e di sparare nel caso di una sua mossa avventata (“Tu sei proprio fuso!”, è la risposta di Terry). La situazione precipita, ma quando Terry sembra avere la meglio, il meschino sbianca nello scoprire che l’arma è scarica. Di lì a poco, nella scena dell’inseguimento nei campi, Terry schernisce Butch, che stavolta ha caricato la pistola; lo sparo si ode fuoricampo, mentre Philip si dirige alla macchina.
Parafrasando di nuovo Fiedler, un simile scambio di ruoli può rimandare a Melville, autore abile nel miscelare buono e cattivo, fondendoli l’uno nell’altro e trasmutandoli nel loro opposto. Il che, a ben vedere, innesca una serie di equazioni a catena: gli atteggiamenti da irriducibile di Butch ricordano Huckleberry, e così pure Philip ricorda la figura di Twain poiché somiglia a Butch. Nel passaggio dell’inseguimento, effettivamente Philip rimanda ad Huckleberry, laddove Terry è il Pa’ Finn; a questo punto, Butch assume il ruolo di Nigger Jim che non solo scopre il cadavere del Pa’ Finn, ma è egli stesso l’artefice della sua morte.
Lo scambio dei ruoli, fra i due protagonisti di Un mondo perfetto, avviene nel corso dell’intera vicenda, rischiando di aggrovigliarsi in modo non districabile. Butch è un fuggiasco ricercato come Nigger Jim, sebbene somigli più da vicino a Huckleberry; a sua volta, Philip non solo somiglia a Butch, ma pure ad Huckleberry.
Ciò è confermato da un altro aspetto: Butch afferma di aver trascorso l’infanzia in un bordello, e a rimarcarlo è Sally nella sua “pantomima”. Analogamente, Philip è l’unico maschio in un ambiente di figure femminili, la madre e le due sorelle; nel proprio sadismo, Terry vede giusto circa il bambino, e anche in questo caso riesce ad anticipare Butch (“Uno che vive con tre femmine, senza un padre…!”).
Per i motivi accennati, quindi, Butch e Philip sono personaggi appartenenti a un mondo governato da donne, autorità socio-morali per antonomasia. Guarda caso, la “Hannibal” di Twain – ovvero St. Petersburg – è comunità regolata da quei valori tradizionali – matrimonio, casa, famiglia, scuola, chiesa – di cui le madri, le mogli, finanche le fidanzate, sono le depositarie; come afferma Wood, gli uomini in gruppi mirano ad esentarsi da tale condizione, sia pure temporaneamente. Da Twain in avanti, le donne del romanzo rimangono figure di super-io. In Un mondo perfetto, la madre e le sorelle di Philip sembrano ricalcare rispettivamente quella madre senza marito e quelle figlie senza padre da Twain descritte nelle proprie opere, equivalenti delle diverse zia Polly, miss Watson, vedova Douglas e zia Sally.
Butch, si diceva, è pure l’equivalente di Nigger Jim: in un certo senso, la sua colpa è di essere sfuggito alla condizione di schiavitù. A dispetto di Jim, che non conosce la violenza, Butch non ha remore a sferrare cazzotti (se provocato), peraltro scaricando una violenza calcolata e razionale. Come si è detto, Butch non è pericoloso come lo crede la società, per contro realmente piagata; l’uomo è la vittima di una giustizia ingiusta – mai paradosso fu più eloquente – spinto sulla via del male anche per colpa di un passato doloroso. Sally lo chiarisce nella pantomima in cui si cala nel ruolo del protagonista. A fornire l’autentica versione dei fatti è però il ranger Red, che Sally scopre avere mandato Butch in riformatorio.

RED: Haynes aveva un padre che era un delinquente abituale, con un debole per le puttane… Una cosa è certa: riempiva di botte chiunque gli desse fastidio, lo fregasse o lo volesse raddrizzare… Se io… Se lo avessero rispedito a casa, avrebbe avuto una fedina penale lunga un chilometro nel giro di un anno… Gatesville non è così terribile… Ho conosciuto dei ragazzi di lì che si sono raddrizzati… Uno si è fatto perfino prete…
SALLY: Io non afferro…
RED: Ah già, tu non afferri… In Texas, quello che conta è chi conosci e che cosa ti deve… Io così faccio il mio lavoro, è così che tu hai avuto il tuo…
SALLY: Sei proprio un duro! Non è vero, Red?
RED: Ho pagato al giudice una bella bistecca, e gli ho detto di mettere dentro quel ragazzo. Gli ho detto che mi sembrava la cosa giusta… Il giudice mi ha dato retta senza nessuna riserva…

Un altro rimando a Huckleberry Finn si fa luce. Per come lo dipinge Red, il padre di Butch può ricordare il Pa’ Finn violento e ignorante da cui il giovane scappa; a dispetto di Pa’ Finn, il padre di Butch non è amico della bottiglia quanto dei facili costumi. Così pure Butch è una figura incastrata tra due opposti: le forze della violenza, che lo hanno moralmente segnato, e le forze della benevolenza, colpevoli di averlo ferito di più, convinte di agire per il suo bene. In questa prospettiva, un personaggio quale Red è un ricalco maschile della vedova Douglas o della zia Polly, dato che come loro agisce convinto di fare “la cosa giusta”.
Il ranger ha causato la prima lunga detenzione di Butch, a sua insaputa, nella speranza di correggere l’allora ragazzo ribelle; ma, pur essendo rude e irascibile, il ranger è dalla parte del bene, e serba molta più anima di quanta non ne dimostri una figura come Bobby Lee. Nel drammatico epilogo, quando la violenza prevale di nuovo, ogni sforzo da parte del ranger risulta inutile; incappando nel medesimo errore di un tempo, l’uomo capisce di essere lui pure un responsabile, per aver voluto troppo agire bene. “Io non so niente, non lo so e non lo voglio sapere!”, è la laconica risposta di Red che chiude il film. Arguto è quanto sostiene Jones:

In questo film, in cui un raggrinzito tutore della legge si rende conto di aver distrutto la vita di un giovane che pensava di aver aiutato (…), c’è una tristezza penetrante, una consapevolezza che emerge dall’esperienza dura e pura del fatto che le persone non sono altro che la somma delle loro decisioni, e che nessuno può essere davvero aiutato a prenderle. Il concetto è riproposto, riaffermato e messo in atto durante tutto il film, e ci colpisce con forza devastante nel climax finale.”

Si arriva alla scena madre del film, che avviene nella casa dei contadini negri presso cui Butch e Philip trovano ospitalità; scena clou in quanto presenta per intero tutte le connotazioni sinora trattate. Mentre stanno facendo colazione, Butch e Philip assistono allo schiaffo che il padrone di casa, Mack (Wayne Dehart), tira al nipote Cleveland (Kevin Woods), solo perché il bambino non ha svolto subito quanto il nonno gli aveva chiesto di fare. Poco dopo, Butch gioca con i bambini, prima di ballare al suono di una vecchia melodia cajun con Lottie (Mary Alice), la moglie di Mack. Durante il brano, Butch confida alla donna che sua madre era una maitresse che “mi faceva stancare ballando e finiva per stremarmi in camera da letto”.
Dopo questo momento distensivo, Butch si accorge che Mack ascolta la radio, che trasmette il notiziario; quando si accenna all’evaso e all’ostaggio, Butch anticipa Mack spegnendo l’apparecchio, costretto a rivelarsi come il fuggiasco braccato (“Vi ammazzo tutti, se fate qualche sciocchezza!”). L’uomo sta per andarsene, quando Cleveland lo implora di trattenersi ancora un po’, ma Mack prende il sopravvento e schiaffeggia di nuovo il nipote. A Butch questa volta va il sangue alla testa, e a sua volta colpisce Mack (“Perché hai picchiato Cleveland, adesso? Perché non ha scattato quando gli hai dato un ordine, eh? Perché è troppo vivace e ti dà fastidio, e non ubbidisce quando gli dici le cose? Mi fai venire il voltastomaco!”).
Non si può non leggere nella reazione di Butch il ricordo di un’infanzia traumatica, in particolare nel suo rivivere a casa di Mack le violenze inflittegli da bambino. Per vendicarsi di un’infanzia sottratta, nonché di un’idea di calorosità piagata e la cui ferita pare destinata a non avere argini, Butch costringe Mack ad abbracciare il nipote pronunciandogli parole d’affetto (“Devi dirlo convinto!”). Infine, Butch di nuovo rimette il disco con la melodia cajun, legando e imbavagliando la famiglia per l’intera durata del brano. Frattanto, Philip assiste impotente e in lacrime alla scena: il fanciullo sta lentamente perdendo la fiducia in colui che cominciava a sentire padre.
Soprattutto, Philip capisce che non c’è più spazio per il gioco, e ciò determina il suo punto di maturazione nell’età adulta; quando forse Butch sta per uccidere gli ospiti, il bimbo gli sottrae la pistola e gli spara. Tale gesto sancisce come Philip abbia imparato la lezione: per ottenere ciò che si vuole è necessaria la violenza; un uomo non è libero senza una pistola alla mano; la realtà dolorosa prevale sulla fantasia, sempre e comunque, sia pure in modo avventato. Ultimo ma non meno importante, colui che Philip credeva un amico è apparso un vero criminale, reo di avere tradito i maturi insegnamenti impartiti al piccolo.
Agli occhi del piccolo, Butch è sembrato l’artefice di quella violenza che ha insozzato la bellezza originaria dell’America, in modo irreversibile smarrendo l’innocenza alla nascita. A sua volta, lo spettatore s’è accorto di tutto ciò da due fattori specifici: non solo Philip ha imparato ad anticipare Butch sottraendogli la rivoltella, ma anche – cosa più grave – ha imparato ad usarla. In sostanza, l’intera scena – come scrive Paolo Cherchi Usai – “si apre in un’atmosfera di solidarietà razziale ma che si stravolge in incubo, poi in tragedia, infine in apologo”. Giudizio analogo serba Piccardi:

Cruciale, nell’economia narrativa e in quella della disposizione dialettica dei temi appena accennati (gentilezza, amicizia, normalità, violenza) è la sequenza che precede quella conclusiva della cattura-esecuzione. (…) Qui Eastwood è implacabile nel mostrarci in tutta la sua ferocia la condizione di un’umanità senza alcuna via d’uscita. Una condizione, per Eastwood, prima di tutto americana, naturalmente.”

Ferito nella fiducia, nel colpire l’amico Philip ha soprattutto rinnegato l’autorità familiare, ritrovandosi nel solco del destino di Butch: per quanto il rituale d’iniziazione si sia compiuto, non per questo il fanciullo ne va fiero. Rifiutando di portare con sé lo scettro delle sue spoglie, Philip getta la pistola nel pozzo e si sbarazza delle chiavi; questo gesto può rimandare al Richard de La veglia all’alba di James Agee, la cui maturità viene toccata dal suo uccidere un serpente con un sasso, e dal conseguente gettare l’arma nello stagno in cui si è tuffato. C’è però un quid di simbolico in più: mentre si allontana per un istante da Butch, nello scavalcare un recinto di filo spinato nel quale è rimasto impigliato, Philip provoca uno strappo al suo costume da fantasma.
Nella scena descritta è possibile rintracciare un’altra equazione circa lo scambio di ruoli. Nel colpire Mack, Butch si comporta come un Huckleberry che si ribella al Pa’ Finn, saturo della sua violenza; quando poi lega e imbavaglia la famiglia del negro, Butch sembra trasformarsi nel Pa’, il che porta Philip a sua volta a divenire Huckleberry, impedendo una violenza che lo stesso Butch, ferito, confessa più tardi “una cosa inutile”. Per quanto l’uomo non appaia violento per natura sino a questa scena, tutto fa pensare che lo diventi solo per un istante. Del dubbio viene però smaltita ogni traccia allorquando Butch confida a Philip: “Beh, io non credo che li avrei uccisi”.
L’evaso ha ammazzato in vita sua, certo, ma per la necessità di difendere le persone a lui più care: sua madre e Philip. Nell’indurre Mack ad abbracciare il nipote, Butch sembra voler fermare il tempo, e riportare il mondo “perfetto” alla normalità mascherandolo dietro un’illusione; tale gesto sancisce la patina irriducibile del personaggio. Tuttavia Butch è irriducibile di tipo tradizionalista, forse persino convinto dei valori da cui rifugge, non esattamente propri di un ideale ribelle. La riprova che Butch agisca sempre contro la ragione comune è la scena in cui l’uomo invita Philip a fare una lista di ciò che il bambino vorrebbe fare, incluso mangiare lo zucchero filato.
Simile passaggio fa capolino nel prefinale: nel momento della cattura, quando l’evaso e l’ostaggio sono circondati dalla polizia, Butch chiede e ottiene che i federali facciano una colletta e raccolgano dolciumi per Philip, “l’amico più grande che ho”. Come osserva Pezzotta, l’irriducibile di Un mondo perfetto somiglia non poco al Kit Carruthers (Martin Sheen) de La rabbia giovane, non a caso un ribelle anomalo, che “non uccide né per il gusto dell’infrazione, né tanto meno per esprimere una sorda rivolta all’ordine costituito”. Pure Butch, in un certo senso, è un conservatore e un buon osservante delle regole sociali.
Inoltre, se nel film di Malick Holly (Sissy Spacek) ama nel proprio compagno di fuga la volontà d’inserirsi in qualche modo ed il tramite – che egli sembra essere – ad una sua crescita, discorso analogo si potrebbe formulare per Philip nei confronti di Butch. In questo senso, Butch è un irriducibile di tipo anomalo, assai distante dai travellers anni Settanta, la cui fuga per la maggior parte dei casi è dettata da una ribellione all’ineluttabilità del sistema. Pur tuttavia, con tali figure Butch conserva più d’un aspetto e incarna la medesima nostalgia di fondo; basti a rimarcarlo il momento in cui dichiara ai poliziotti che lo hanno assediato: “Io devo andare in Messico!”
Proprio quel Messico meta di pellegrinaggio per molti antieroi del cinema di Sam Peckinpah (da Il mucchio selvaggio a Pat Garrett & Billy the Kid, a Getaway!), così come luogo da cui l’irriducibile intraprende la fuga (Voglio la testa di Garcia). Il Messico, determinante il limite della Frontiera e della giurisdizione statunitensi. A ben vedere, in comune con i personaggi di Peckinpah, Butch serba il medesimo pathos leggendario,8 dato che il mito di costoro si congiunge col rimpianto di un’epopea lontana.
Vedi caso, la conferma è data da Butch nel rispondere a Lottie che lo crede una persona ammodo, incapace di azioni violente (“Non sono un brav’uomo, ma non sono neanche il peggiore: sono di una razza a parte”). Come osserva Videtta circa irriducibili di tal razza:

Il loro fascino risiede in una fatalistica consapevolezza di essere una fauna in estinzione. E in fondo la loro scomparsa è più facile da accettare. Essi non incarnano un sogno da esorcizzare, sono figure in qualche modo storiche, la cui immagine viene conservata nei Musei del Midwest.”

Dei road movies anni Settanta, Un mondo perfetto conserva intatta la dimensione atemporale: la fuga di Butch e Philip dura circa un giorno e mezzo. Per quanto le peripezie e le soste e gli incontri dei due amici scandiscano una durata mitica avulsa da quella effettiva, il viaggio del film di Eastwood sembra quasi reale ed effettivo. Certo, Butch e Philip indossano i medesimi indumenti, se è vero che il cambio d’abiti risulta un particolarismo sbagliato ed inutile nei confronti dell’istanza della temporalità.
Inoltre, Butch è un fuggiasco e per definizione non dovrebbe perdere tempo; eppure, l’uomo fa in modo di dilatare o prolungare il tempo a disposizione, come se ne avesse da perdere. In questo Butch mantiene una somiglianza con il classico traveller, essendo quel man of leisure descritto da Videtta che non premedita alcunché, decidendo soltanto all’ultimo momento.

Haynes, invece, sembra avere tutto il tempo del mondo, ama fermare l’azione (le rassicurazioni a Philip sulle dimensioni del pisello avvengono quando la polizia è già sulle loro tracce), convinto certo che esistono cose più importanti (far diventare Philip un uomo, per cominciare), ma anche per gusto del gioco (vedi il ballo con Lottie), della provocazione, e innata tendenza all’autodistruzione.”

A dispetto dell’irriducibile avverso alla legge, di sua spontanea volontà Butch si consegna alla Norma da cui ha tentato di fuggire. “A questo punto, possiamo anche scordarcela l’Alaska”, afferma rassegnato, tenendo la mano di Philip. Un altro rimando letterario si fa luce. Nella resa incondizionata di Butch fa capolino la rassegnazione di Peyton Loftis, nel citato Una notte di tenebra di Styron: la ragazza è vittima di una società violenta quanto di un utopico sogno di libertà. Nello spirare, Peyton si fa versione tragica della frustrazione di Huckleberry, e la sua morte

è la morte dell’umanità personale, delle scelte, della possibilità di realizzare se stessi senza compromessi e incomprensioni. Persino il peccato è commesso in nome di un’originaria purezza.”

Per tragica ironia della sorte, in Un mondo perfetto Butch muore appunto per un estremo elemento di purezza impossibile. Non sapendo che l’evaso non è armato, Bobby Lee spara a Butch, e la pallottola raggiunge il fuggiasco nell’istante in cui consegna a Philip la cartolina-scettro speditagli dal padre dall’Alaska. Se Philip ha intravisto in Butch una proiezione adulta del suo futuro, la cartolina ha sancito in modo inequivocabile un futuro incerto per il bambino, ignaro di essere la prossima preda di un sogno irraggiungibile, a sua volta frustrazione in una società piagata.
L’ultimo scambio di ruoli fra i due personaggi non può avvenire in modo più eloquente. Se Butch è la proiezione del bambino, Philip vestito da fantasma è la proiezione di ciò che l’adulto sta per diventare (“Una cosa è certa: ci credo eccome ai fantasmi, adesso”, commenta Butch).9 Il fanciullo è – nota Pezzotta – “lo spiritello che lo accompagna verso gli inferi, procurandogli anche, con dolcezza, la morte”. Tale paradosso, forse, è una parodia di Huckleberry Finn, nel momento in cui Huckleberry realizza il desiderio di libertà quando viene creduto morto, e tutti quelli che lo conoscono lo prendono per un fantasma. Per non parlare di Tom Sawyer, il quale, ritenuto morto dal paese, assiste di nascosto al suo “funerale” per poi riapparire all’improvviso agli occhi della famiglia.
Davanti ai corpi esanimi dei due lestofanti impeciati e impiumati, “Huckleberry vede un presagio del proprio destino, e piange su se stesso”, immaginando una fine analoga. Allo stesso modo, Philip piange di fronte al corpo di Butch, ripetendo continuamente il nome dell’amico per amore di un passato che non può più tornare. Il bambino non sembra dare alcun peso alla madre quando lei lo riabbraccia: alla donna, il bambino ha preferito Butch. Il finale di Un mondo perfetto presenta anche un’ultima pantomima: dopo che per sfogare la rabbia Red stende con un cazzotto Bobby Lee, rimproverandogli di avere sparato senza preavviso, a sua volta Sally imita il ranger, sferrando un calcio nelle parti basse del federale maschilista, vendicandosi di una sua precedente molestia nel caravan.
Ma la pantomima ha oramai dissolto ogni valenza o connotazione. Quel che rimane di Butch è un corpo disteso sull’erba, un braccio ripiegato sotto la testa, un sorriso felice, gli occhi chiusi. Accanto al cadavere, la maschera da fantasma di Philip e dei dollari svolazzanti. L’inquadratura conclusiva è la medesima dell’incipit, e l’utilizzo dell’immagine ai fini di una precognizione rimanda, ancora, a Easy Rider: come nel film di Hopper, il finale di Un mondo perfetto chiarisce ogni dubbio.
Il film segue un andamento circolare, terminando come era cominciato, come il romanzo di Twain seguiva un procedimento analogo. A dispetto di Twain, la fuga-iniziazione di Philip termina quando un elicottero lo riconduce alla prigione domestica; pur avendo toccato con mano la fine dell’infanzia, il bambino viene restituito al mondo dei ragazzi cosiddetto e controvoglia ricondotto al mondo delle madri, non per scelta indotto a sorreggere la civiltà.

L’ossessione americana della solitudine raggiunge in lui un livello supremo d’espressione, venendo essa accettata, da ultimo, non come una benedizione da ricercarsi, né come una maledizione da scongiurare o fuggire, ma semplicemente come il destino dell’uomo.”

Il romanzo di Twain abbraccia una possibile felicità, mentre Un mondo perfetto è un apologo sull’impossibilità di raggiungere la felicità; dunque, un’altra opera sull’irrealizzabilità del sogno dell’innocenza, destinato alla frustrazione. La morte di Butch semplifica la distruzione definitiva di tale innocenza. Pure la panoramica aerea conclusiva echeggia Easy Rider: a distanza di ventitré anni dal film di Hopper, nulla si direbbe cambiato. La violenza continua ad annientare il sogno in ogni sua forma, falciando gli ultimi irriducibili. La Gran Madre sembra avere perso definitivamente i suoi ultimi figli: the river flows, it flows to the sea… 

Francesco Saverio Marzaduri 


1 In un certo senso, Un mondo perfetto è un film leggibile anche come una prefazione a Cinque pezzi facili di Rafelson, nella misura in cui Honkytonk Man può esserlo per Nashville di Altman.
2 A ben guardare, già Easy Rider illustra il gioco delle maschere come una componente-tipo del viaggio, atta a risaltare la natura estrosa e ribelle del viaggiatore. Si pensi al personaggio di Billy (Dennis Hopper), che “si diverte (da tipico americano) a giocare agli indiani – osserva Videtta – scrutando i cespugli all’intorno come un esperto scout”.
3 Da sempre, come noto, agli uccelli viene associato il senso di libertà per eccellenza; non a caso, la citata scena accompagnata dal brano If You Want to Be a Bird, eseguito dagli Holy Modal Rounders di un non ancora famoso Sam Shepard.
4 Il personaggio di Sally disegna una protofemminista ante litteram di carattere forte, e con una punta di temprata mascolinità, alle porte della rivoluzione sessista che segnerà gli anni Settanta, ironicamente definita da Roberto Giammanco “sodalizio delle Amazzoni”.
5 GIAMMANCO, Roberto: Dialogo sulla società americana. Firenze, La Nuova Italia, 1995. Pag. 67.
6 Eastwood aveva già sperimentato qualcosa di simile in L’uomo nel mirino, poliziesco in bilico tra il road movie e la commedia. In questo film – osserva Alberto Pezzotta – “gli oggetti, crivellati e deformati, sanguinano (l’acqua che zampilla dai tubi, la benzina dai serbatoi) e, letteralmente, gemono: la casa di legno, appena prima di crollare, e soprattutto l’autobus, cui esplodono le quattro gomme, e che si accascia esalando l’anima come un mammuth ferito”.
7 È d’uopo evidenziare, qui, una curiosa coincidenza: ne I saccheggiatori, uno dei due membri del viaggio è un negro di nome Ned. Come nel capolavoro dello stesso Eastwood Gli spietati, dove il compagno di viaggio e di vicissitudini del protagonista è un nero (Morgan Freeman) chiamato, analogamente, Ned.
8 Il momento a casa di Mack, nel quale Butch imbavaglia la famiglia del negro sulla melodia di un vecchio giradischi, curiosamente rimanda a Cane di paglia; ivi, analogamente, il professor David Sumner (Dustin Hoffman) difendeva la sua villa da alcuni assalitori sulle note di un brano scozzese, proveniente da un grammofono.
9 Intesa anche in senso demiurgico, la figura del fantasma è un altro luogo ricorrente nel cinema di Eastwood, se si pensa a film come Lo straniero senza nome, Coraggio… fatti ammazzare, Gunny, Il cavaliere pallido, Debito di sangue, sino a Million Dollar Baby. Per la maggior parte, i personaggi di tali opere sono figure anacronistiche, fuori dal tempo, sopravvissute a se stesse, addirittura senza nome; più o meno esplicitamente, ciò è sufficiente a fare di esse delle figure “spettrali”.

Commenti

Post popolari in questo blog

Questione di sguardi

Rovineremo la festa: THE PALACE

Oltre ogni ragionevole dubbio: la parola a Friedkin