L’isola (non) trovata: UN MONDO PERFETTO
L’isola (non) trovata: Un mondo perfetto
Lungo la propria carriera di autore, Clint Eastwood realizza due film a
poco più di dieci anni di distanza, dissimili per forma, vicenda
narrativa e (apparentemente) genere d’appartenenza: Honkytonk
Man e Un mondo perfetto. Entrambe le opere sembrerebbero
partire da un medesimo principio di necessità, esposto nella
rappresentazione di un viaggio che, nel corso delle vicende, ha modo
di tramutarsi in un “percorso d’iniziazione”.
In
Honkytonk Man – tardivo road movie di grande
suggestione, miracolosamente in bilico tra commedia e dramma – il
viaggio è compiuto da Red Stovall (interpretato dallo stesso
attore-regista), un cantautore tisico e male in arnese diretto verso
Nashville, la nota Mecca della musica country & western.
Ad accompagnare il protagonista e a sostenerlo nel suo sogno, è il
giovanissimo nipote Whit (Kyle Eastwood), nel quale Red vede un
erede. Anche solo descrivere la trama in poche righe, forse, è
sufficiente a evidenziare una cospicua serie di fattori riguardanti
da vicino il viaggio come rito d’iniziazione, ma in larga parte
propri del viaggio quale “sogno americano”.
Honkytonk
Man sembra ricollegarsi alla tradizione di un cinema americano di
tipo popolare, costellato di elementi classici del western, frammisti
a nitidi echi letterari. In realtà, come spesso si verifica in opere
cinematografiche riconducibili a una tendenza, ogni aspetto messo in
risalto dal film rimanda a un’epopea specifica, riferendosi ad un
aspetto della cultura americana rivisitato con puntiglio,
simbolicamente ricostruito come un’operazione-nostalgia velata di
patine malinconiche. La pellicola rielabora, il più fedelmente
possibile, l’ambientazione dei primi anni Trenta cara allo
Steinbeck e al John Ford di Furore. L’America è presa nel
vortice della crisi economica e alcune zone – in primis
l’Oklahoma – sono teatro di devastanti tempeste di sabbia e di
conseguenti, biblici esodi nel deserto verso la Terra Promessa,
flussi migratori che spingono molti agricoltori verso la costa
californiana – già all’epoca ritenuta terra di prosperità e
guadagni. Appunto, l’incipit di Honkytonk Man muove da
questi principi, mostrando una tormenta di polvere nel mezzo della
quale il protagonista si presenta alla sua famiglia di contadini,
ubriaco fradicio, al volante di una decappottabile.
“Siamo,
infatti, nell’Oklahoma sfiancata dalle ‘Dust Bowls’, le
tempeste di polvere care a Woody Guthrie, terribili castighi di Dio
che mettevano in ginocchio le già provate economie contadine. Il
film parte proprio con una di queste tempeste di polvere: a farne le
spese è la famiglia della sorella di Stovall, troppo numerosa per
emigrare, coi pochi dollari risparmiati, verso la California.”
Già
questo basterebbe a evidenziare un gran numero di simboli legati al
viaggio, ben radicati nella cultura degli Stati Uniti. Fattori che
Mario Molinari, in una recensione del film, elenca con puntualità e
che stemperano l’evocazione del “sogno americano” in un clima
di amara malinconia, sconfinando nel pessimismo in più di
un’occasione.
“La
commedia picaresca, il viaggio ‘iniziatico’, le generazioni a
confronto, il mito del successo, quello della Frontiera, la vita
errabonda e libera attraverso i grandi spazi, la grama esistenza dei
contadini, la Grande Crisi degli anni ’30, la musica come mezzo per
la realizzazione di se stessi…”
Riproposti
in una cristallina trasparenza, i medesimi ingredienti fanno capolino
in Un mondo perfetto. Per quanto il sottogenere del road
movie si possa dire concluso, ciascun elemento ad esso inerente
si ripresenta assolvendo una funzione di rite de passage
dichiarato. Nel disegno di un trapasso dalla giovinezza alla
maturità, emozionante o doloroso, Un mondo perfetto
costituisce con Honkytonk Man un dittico: in ambo le opere, i
viaggi sono effettuati da un adulto e un bambino. Tuttavia, in
Honkytonk Man, il percorso d’iniziazione trae la propria
conclusione nella morte di Red e nella conseguente scelta del nipote
Whit a diventare un folk singer, perpetuando la tradizione di
artista iniziata dallo zio. Per contro, in Un mondo perfetto,
il viaggio non è definito, e tale diventa nel corso della
narrazione, partendo con il rapimento di un bambino da parte di un
evaso, trasformandosi poco a poco in un’amicizia che assume le
connotazioni del rapporto padre-figlio.
Come
già accennato, numerosi sono gli echi letterari radicati nella
cultura nordamericana, che si riaffacciano in ambito socio-culturale
come schema narrativo; uno tra essi concerne la parabola del bambino
il cui apprendistato si compie al fianco di un malvivente, nel quale
il giovane si convince di trovare un indelebile modello di vita –
salvo ricredersi successivamente.
Un
contesto simile apparenta molti celebri romanzi d’avventura,
americani ed europei, quasi accogliendoli in un unico filone – da
Oliver Twist a L’isola del tesoro in poi. Ma il
rapporto paterno-filiale non sempre si esplica tra l’adulto e il
bambino, mantenendosi altresì invariato in un confronto tra
personaggi adulti, rigorosamente maschili. Da questo punto di vista,
utili tornano le osservazioni di Leslie A. Fiedler:
“Il
rapporto fra i protagonisti è variamente configurato: servo e
padrone, padre adottivo (buono o malvagio) e figlio adottivo, chi ama
e chi è amato. Questo viene sempre contrapposto, implicitamente
almeno, al genere di rapporti più appiccicaticci e sentimentali
intercorrenti con le donne, siano quelli fra madre e figlio, marito e
moglie, o appassionato pretendente e amata. Quando queste coppie
d’uomini si permettono espressioni d’affetto (…), in esse viene
sempre sottintesa una minaccia, perché tal genere d’amore rischia
sempre di sfiorare la sessualità, e la sessualità muterebbe il puro
amore antifemminista in una immagine trasposta dell’inversione, che
sbigottirebbe il piccolo lettore.”
L’intero
corpus della narrativa americana – non va dimenticato – si
popola di figure di adolescenti che, nonostante la giovane età,
arrivano a conquistare una più adulta visione del mondo: partendo da
uno stadio d’incertezza, essi giungono a un pensiero definitivo,
sebbene le esperienze da loro vissute non precludano mutamenti. A
volte, il sentimento la spunta sulle leggi e l’assunzione di valori
umani predomina su qualunque vincolo; altre volte, costretto al
trapasso doloroso dell’età adulta, il giovane è spinto a una
mancanza di adattamento, ma non di maturazione.
In
questa prospettiva, analogo quid si riscontra in opere
cinematografiche quali Paper Moon – Luna di carta di Peter
Bogdanovich. In tale opera, adulto e ragazzina minacciano
perpetuamente di scambiarsi il posto, di fondersi l’un l’altro,
di cambiarsi nel loro contrario in modo da scaturire un paradosso:
nonostante l’età, il fanciullo traspare più maturo dell’adulto,
che da par suo pensa e agisce come un vero dear bad boy di
stampo letterario americano.
Una
ribellione permanente obbliga il protagonista a rifiutare le scelte
offertegli dal mondo: in conseguenza del suo rifiuto, il giovane
irriducibile privo di radici si ritrova imprigionato tra due mondi,
l’adolescenza e la maturità. Ancora una volta, i romanzi di Mark
Twain – in particolare, Le avventure di Huckleberry Finn –
fungono da ottimo modello di riferimento nel disegnare percorsi
iniziatici di bambini e adolescenti, costantemente bisognosi di
rifugio e assediati da una realtà fagocitante ed oppressiva. Ancora,
Fiedler pone l’accento su un’altra questione:
“Tutti
questi libri (praticamente sempre anglosassoni) hanno in comune
determinate caratteristiche: hanno tutti protagonisti maschi, adulti
o minorenni; tutti parlano di avventure e di isolamento; e, prima o
poi, anche di una evasione o una fuga dalla società in un’isola,
un bosco, un sotterraneo, una vetta montana, insomma qualche posto in
cui non arrivino le madri; quasi sempre includono inoltre un
camerata, che è lo spirito del luogo sconosciuto, e che viene
presentato, più o meno ambiguamente, allo stesso tempo come un
collega di fatiche e una minaccia.”
Riscontrabili
soprattutto nel citato Honkytonk
Man, come
fossero offerti al lettore-spettatore in maniera fedele, in Un
mondo perfetto
tali assunti si intersecano e si fondono tra loro, aggrovigliandosi
in un insieme in cui restano, tuttavia, riconoscibili.
Contestualmente trapelano, in esso, indizi e rimandi al road
movie anni
Settanta. Basti pensare solo alla destinazione del tragitto compiuto
da Butch Haynes (Kevin Costner) e dal piccolo Philip Perry (T.J.
Lowther): l’Alaska, di cui Butch conserva giusto la cartolina
lasciatagli in eredità dal padre. L’Alaska, già una volta meta
impossibile della fuga di Bob Dupea (Jack Nicholson) nel finale di
Cinque
pezzi facili.1
L’Alaska, che in quel film era meta delle due autostoppiste
lesbiche a cui Bob Dupea offriva passaggio.
La
scelta delle donne di rifugiarsi in Alaska simboleggiava il rifuggire
dal contatto umano e il nascondersi dietro un ecologismo male
interpretato (le due asserivano di sapere cosa avrebbero trovato in
Alaska per aver visto una foto delle sue nevi immacolate e sterili).
Ma non è possibile cercare la purezza andandosene, e ciò
determinava l’irraggiungibilità della meta nonché l’impossibilità
della fuga. In misura analoga, il mondo appare troppo marcio alla
radice e troppo poco perfetto perché ci si illuda del contrario.
In
Un mondo perfetto vi sono numerosi momenti ove l’itinerario
dell’adulto e del bambino si profila come un gioco, alla maniera di
un viaggio attraverso il tempo; la soluzione per insegnare al piccolo
la realtà della vita è mascherarla nella forma della finzione, il
che – suggerisce la tesi del film – determina la maniera migliore
per affrontare la realtà senza esserne sopraffatti. Il viaggio si fa
lezione di vita, gestita come una pantomima in cui ciascun membro –
dagli individui agli oggetti – “recitano” letteralmente una
parte.
Da
questo punto di vista, è simbolico che l’evasione di Butch e del
suo compagno, Terry (Keith Szarabajka), avvenga durante la festa di
Halloween. Figlio d’una testimone di Geova, Philip è sottoposto
dalla madre alla rigida osservanza dei precetti religiosi; ciò
influisce sulla sua grama condizione, che non gli consente di godere
delle piccole cose di cui ogni bambino dovrebbe, in teoria, disporre.
La malinconia si legge sul volto del fanciullo quando assiste ai
rituali infantili di Halloween dalla finestra di casa, mentre i
bambini mascherati lo sfottono tirando gavettoni ai vetri. Oltre a
Halloween, Philip confessa di non poter festeggiare il Natale, né i
compleanni o qualunque altra ricorrenza, di non essersi mai recato al
luna park né di avere gustato lo zucchero filato (“L’ho visto
una volta, è rosa”, dice il bambino. “No, non è rosa, è
bianco”, risponde Butch). In questi termini, il pellegrinaggio
adempie alla funzione di rito iniziatico che, più nel
dettaglio, è iniziazione a quella fanciullezza di cui Philip non ha
goduto. Nel corso del tragitto, il dettame trasmuta in un trapasso
dalla condizione di fanciullo a quella di adulto, ben più amara e
dolorosa.
Il
bambino mostra comprensione, ma anche perplessità per un viaggio
iniziato in maniera così stravagante, senza contare che il suo
insegnante è un evaso. A questo proposito, Un mondo perfetto si
ricongiunge in pieno con Honkytonk Man per un altro aspetto:
l’insegnante in oggetto è un cosiddetto irriducibile, che non
arretra di fronte a niente per riflettere e agire secondo il modo che
gli è più idoneo. Red Stovall – come osserva Alberto Pezzotta –
non filosofeggia sulla sua arte, ma è pur sempre un “cattivo
maestro” quanto Butch, che per contro si rivela essere un
irriducibile più tradizionalista, costretto suo malgrado a violare
la legge.
Forse,
Butch è dispiaciuto di questa scelta, ma non è tanto stupido da
permettere che Philip segua questo esempio. In una scena, il bimbo
ruba un costume da fantasma in un negozio, commettendo la sua prima
infrazione alla legge. Nel sorprenderlo con il costume, Butch esclama
interdetto: “Lo hai rubato!”, e senza indignarsi l’uomo ricorda
al bambino che “rubare è sbagliato” (“Se ti serve tanto una
cosa, e tu non hai i soldi, la puoi anche prendere in prestito: è
quella che si chiama l’eccezione alla regola”). Il furto di
Philip esprime altre connotazioni finniane, ma può persino ricordare
il Kerouac di Sulla strada, i cui giovani protagonisti
esaltano i propri piccoli misfatti come imprese epiche.
Sia
in Un mondo perfetto che in Honkytonk Man, la
generazione di mezzo rimane la sola a sottrarsi al culto del passato
e degli ideali. Non è fuorviante il confronto con un’altra
pellicola di tre anni successiva, Verso il sole di Michael
Cimino, la cui vicenda echeggia Un mondo perfetto in più
d’una circostanza. Analogo è il rapimento, ai danni di un medico
di Los Angeles (Woody Harrelson), per mano di un delinquente evaso e
affetto da un cancro terminale (Jon Seda). L’improvvisa fuga in
terra navajo si traduce in un percorso di purificazione per
entrambi i protagonisti, alla ricerca di una salvezza che la generica
area della medicina non può garantire. Il film di Cimino – come
scrive Paolo Mereghetti – è soprattutto un on the road che
si concentra sulla ricerca di una “bellezza” originaria che ha
smarrito l’innocenza alla nascita.
Vedi
caso, a spingere Butch e Philip nel pellegrinaggio è la ricerca
della stessa originaria bellezza: significativa è la scelta
dell’Alaska come destinazione, “l’ultima frontiera – afferma
Butch – dove sei solo contro la natura”. Purtroppo, l’America
mostra sempre meno fisionomie innocenti, sfoggiando altresì
quell’identità violenta e repressiva che, gradualmente, sembra
avere assorbito la prima. Se la violenza – elemento cardine del
road movie – è necessaria a Butch per realizzare il suo
scopo, in realtà essa è l’eredità dell’America medesima, fatua
e corrotta. Nell’avergli inflitto una punizione severa e ingiusta
per avere rubato un’automobile, essa ha sottratto l’infanzia a
Butch – come la madre di Philip con il figlio, sia pure in modo
indiretto. Come osserva Adriano Piccardi:
“Il
problema è dunque proprio quello di una ‘normalità’, che
contiene la violenza (la peggiore violenza, proprio perché ritenuta,
stolidamente, quasi una propria legittima espressione) e la pratica
quotidianamente, preparando in tal modo nelle persone che la
subiscono la sua continua auto-riproduzione, ma che insieme sa anche
generare momenti di felicità, di ‘armonia’, capaci da soli di
allontanare temporaneamente (attenzione: non di sconfiggere) la
sofferenza.”
A
ben vedere, la violenza non è mai inserita fuori dal contesto, né è
utilizzata in modo extra-diegetico; necessaria alla realizzazione del
tragitto, essa – scrive Piccardi – “si organizza e si
predispone a colpire in nome della ragionevolezza e del ritorno alla
normalità”. Ciò si verifica in più d’un passaggio. In una
scena, Butch e Philip si presentano alla casa di una donna anziana:
Butch invita il bambino a recitare la formula “dolcetto o
scherzetto” che, durante Halloween, i bambini mascherati recitano
di porta in porta, chiedendo dolciumi in cambio. La donna tentenna
finché non li riconosce e li rifornisce di cibo e soldi, solo perché
Butch le ha mostrato la rivoltella stretta nella cintura. Prima di
congedarsi, l’adulto strappa i fili del telefono e commenta: “Mai
sottovalutare la gentilezza della gente comune”.
Ancora,
per sbarazzarsi della macchina su cui viaggiano, i due protagonisti
sostano presso la fattoria di un farmer per sottrargli
l’automobile e i vestiti, stesi su un filo ad asciugare.
L’agricoltore fa in tempo a raggiungerli e ad aggrapparsi alla
portiera dell’auto in corsa, al che Butch estrae la pistola per
sparargli. Ma Philip interviene all’istante, mordendo la mano del
farmer finché questi non molla la presa. In questo modo, il
bambino assolve un duplice scopo, sbarazzandosi dell’intruso e nel
contempo salvandogli la vita. Per il momento, Philip non è in grado
di assimilare il concetto di violenza, ma avrà modo di capirlo e
applicarlo in seguito.
Frattanto,
se il tragitto gli viene continuamente presentato sotto la forma di
un gioco,2
è giusto che il bambino lo gusti con un brivido d’avventura,
godendo di quell’attimo di libertà che, a seguire, sicuramente non
gli potrà più capitare. Vento tra i capelli, vastità del paesaggio
circostante permettendolo, seduto sul tetto dell’automobile Philip
grida a Butch di accelerare a tutta birra, gustando l’ebbrezza
della velocità. Non è fuorviante leggere questo passaggio come una
prefazione all’analogo momento di Easy
Rider in
cui i tre protagonisti si esibivano in figure acrobatiche sulle selle
dei loro chopper,
lungo l’autostrada che tagliava il deserto, figure che simulavano
il volo degli uccelli.3
Tanto
in Easy Rider quanto in Un mondo perfetto trapela
un’aura di libertà effimera, propria di un sogno destinato dal
principio a frustrarsi in un duro impatto con la realtà. Come nota
Piccardi, il profondo legame tra i protagonisti di Un mondo
perfetto raggiunge il suo climax nel citato passaggio,
facendo presupporre l’idea che “la violenza che Un mondo
perfetto rappresenta è tanto più cruda, quanto più dolce è
l’illusione dell’amicizia impossibile tra Philip e Butch”.
Talvolta, per quanto necessaria al tragitto, perfino la violenza
medesima si camuffa nel gioco delle parti.
Nel
momento in cui Butch e Philip si procurano il cibo, il piccolo è
mascherato da Casper – il celebre fantasmino dei fumetti, amato dai
bambini. Per la prima e forse unica volta in vita sua, Philip ha la
possibilità di celebrare l’Halloween che non ha mai avuto, sia
pure in una circostanza bizzarra. Prima che Butch sottragga l’auto
e i vestiti del farmer, l’adulto manda avanti il bambino a
controllare che la macchina sia provvista di ogni comfort,
inclusa la radio; a Philip viene detto di agire senza dare
nell’occhio, come quando si gioca ai cowboy e agli indiani.
Come
dire che in caso di avversità, non bisogna essere seri né
intimoriti, ma è sufficiente ricorrere allo scherzo. Braccati dalla
polizia del Texas, Butch e Philip sostano in un drugstore per
rifornirsi di indumenti; alla commessa che chiede a Philip da cosa si
è mascherato per Halloween, il fanciullo candidamente risponde: “Da
bandito”. Ancora, l’adulto suggerisce al bambino di mascherare
nomi e identità per non destare sospetti; adottando questo
procedimento, Philip e Butch si presentano a chiunque incontrano
rispettivamente come “Buzz” e “Edgar Poe” – altra icastica
citazione letteraria, dedicata all’autore di una grande avventura
di viaggio quale Storia di Arthur Gordon Pym.
A
ben vedere, questo insegnamento all’insegna della mascherata
determina l’origine del rapporto d’amicizia tra l’adulto e il
bambino, fin dalle prime scene del film. Intrufolatosi con Terry in
casa di Philip, nel primo vis-à-vis col fanciullo, Butch gli
chiede di raccogliere la rivoltella, poi di puntargliela contro e di
esclamare: “In alto le mani!” Philip obbedisce un po’
titubante, al che Butch commenta sghignazzando: “Perfetto!” Fin
dall’inizio, l’amicizia tra i due protagonisti è segnata dal
gioco della pantomima, in cui al bambino si richiede di calarsi nel
ruolo di malvivente; il paradosso vuole che a chiederglielo sia un
malvivente vero.
Analogo
momento ritorna poco dopo, quando Butch sosta di fronte a un emporio.
Prima di scendere, l’uomo suggerisce al fanciullo di puntare l’arma
verso Terry, ordinando di sparargli in caso di mosse inconsulte. In
questo caso, addirittura il paradosso si moltiplica per tre: il
malvivente domanda al finto “brigante” di tenere a bada un altro
malvivente. Il gioco sarà destinato a non lasciare più traccia
nella scena in casa dei braccianti negri; per l’ultima volta, Butch
chiede al bambino di puntare la pistola al padrone di casa, ma
stavolta glielo ordina. La realtà ha sterzato verso il dramma,
accantonando quanto di giocoso definiva lo scambio tra i
protagonisti, rinunciando a qualsiasi connotato di finzione. Il
momento traspare realistico per quanto improvviso, acquistando una
certa intensità dal suo giungere inatteso; caduta la maschera,
cessato il gioco, emerge da parte del protagonista un nitido vuoto
morale.
In
simili frangenti, indicativa è anche la scena in cui la criminologa
Sally Gerber (Laura Dern)4
improvvisa una pantomima calandosi nella parte di Butch, onde far
luce sui trascorsi dell’evaso e identificare la soluzione migliore
per risolvere il problema. È in questo passaggio, quando Sally
impersona
Butch, che si accentuano particolari sul passato del fuggiasco – le
origini, l’infanzia difficile, il motivo che ha spinto Butch a
uccidere una prima volta, il perché della sua condanna in
riformatorio. Ancora una volta, risulta opportuno esaminare il
contesto dall’esterno, il che quasi sempre si rivela il modo
migliore per una più decorosa soluzione del problema. Giocare nelle
avversità permette di coltivare idee chiare.
Uomini
di buona volontà, quali il ranger Red Garnett (Clint Eastwood) e il
suo vice Tom (Leo Burmester), sembrano disposti ad adattarsi a questa
maniera, laddove il clima paranoico in cui gli Stati Uniti versano
non lo è affatto. L’America dipinta dal film non tenta minimamente
di scendere ad alcun compromesso, neanche per evitare spargimenti di
sangue. Tutto fa pensare, tutto suggerisce, che i risvolti di cui Un
mondo perfetto è disseminato condurranno a un epilogo
drammatico; peraltro, non si dimentichi che la vicenda si svolge in
Texas, nel novembre 1963, a sole due settimane dall’assassinio di
Kennedy.
In
questa prospettiva, il tiratore scelto Bobby Lee (Bradley Whitford)
appare l’incarnazione mostruosa di un ambiente piagato, e non a
caso reagisce alla pantomima di Sally con il cinismo e il sarcasmo di
chi si vuole sbarazzare dei problemi nella maniera più spicciativa e
violenta, senza mediare né riflettere, senza pensare né rimetterci
(“Ehi, Butch, perché non ci dici dove sei diretto e ci risparmi la
fatica di darti la caccia?”). Per questo motivo, la risposta di
Sally risulta troppo acuta per essere recepita in modo opportuno
(“Perché dove vado è molto meno importante del perché ci sto
andando”).
Il
resto è immagine, quando non squallida pubblicità, e ciò riguarda
anche figure secondarie, cesellate con ferocia sarcastica sino alla
caricatura. Si pensi alle commesse del negozio ove Philip ruba il
costume da fantasma, cordiali e con un sorriso fatuo e mieloso
stampato sulle labbra, ma soltanto perché il proprietario ha
promesso dieci dollari all’impiegata più gentile. Per non parlare
della famiglia cui i protagonisti chiedono un passaggio lungo il
tragitto, che offre di sé un’immagine radiosa stile American
Way of Life, finché i bambini non sporcano l’automobile,
mandando in bestia i genitori.
Indimenticabile
nella sua brevità è poi la scena che ritrae il governatore,
candidato alla presidenza: un pomposo individuo che, nel garantire
solidarietà alla madre del bimbo rapito, coglie l’occasione per
pubblicizzare sé stesso ai propri fini elettorali. La chiave del
successo è apparire rassicuranti di fronte ai flash delle macchine
fotografiche, mascherandosi dietro una patina pietista e millantando
valori tradizionali che si ritengono accattivanti. Nel grande gioco
elettorale, come suggerisce una battuta di Red, “quello che conta è
chi conosci e quello che gli devi”, e tuttavia – spiega Roberto
Giammanco – il contenuto in superficie resta sempre una
“mediocrità, bonaria e fortunata, serena e suadente, che non desta
né soggezione né invidia”.5
Si
diceva che il camuffamento non concerne soltanto individui, ma anche
oggetti, astratti e concreti.6
A ben guardare, è possibile rintracciare un travestimento perfino
nel viaggio dei due protagonisti; basti a confermarlo uno dei primi
insegnamenti di Butch al bambino, circa il possibile modo di
fronteggiare la realtà ricorrendo alla fantasia.
BUTCH:
Ehi, sei mai stato su una macchina del tempo? Ma sì… Secondo te,
questa cos’è?
PHILIP:
Un’automobile.
BUTCH:
Stai vedendo la cosa nel modo sbagliato: questa è una macchina del
tempo del XX secolo, io sono il comandante e tu il navigatore. Lì
davanti c’è il futuro… Lì dietro, beh…Quello è il passato…
Se la vita va troppo piano, e ti vuoi proiettare nel futuro, devi
dare tutto gas… Ecco, così (preme col piede
sull’acceleratore)… E se vuoi rallentare, spingi col piede sul
freno e la fai rallentare (preme sul freno)… Questo è il presente,
Philip: goditelo finché dura!… (ride) Sì, stiamo
viaggiando nel tempo attraverso il Texas… Dobbiamo trovare una
Ford, mio padre guidava solo le Ford, lo sai?…
Tale
insegnamento determina per Philip l’inizio del suo rite
de passage,
e non meno importante è un primo indizio riguardante il padre di
Butch, il vero oggetto della fuga – come si avrà modo di
precisare. Da un punto di vista squisitamente letterario, il percorso
dei due amici richiama quello de I
saccheggiatori
di William Faulkner7
– vedi caso, effettuato in automobile – e di L’arpa
d’erba
di Truman Capote. Ma il complesso, a sua volta, è in luogo del
viaggio in zattera dei protagonisti di Huckleberry
Finn.
Scrive Fiedler:
“Loro
appropriata dimora è la zattera, che viene trasportata sull’onda
della marea del tempo nella storia, come un dono delle non-cristiane
potenze naturali (…). Ma l’essenza della vita sulla zattera è
l’irrealtà. ‘Il movimento della zattera è molle, scivola via
liscia e silenziosa…’ scrive Mark Twain in Vagabondo
in Italia.
‘Sotto il suo influsso riposante… l’esistenza finisce col
sembrare un sogno… un’estasi profonda e tranquilla’. Eppure il
sogno della vita sul fiume, per Mark Twain, minaccia sempre di
mutarsi in un incubo.”
Come
gli ricorda Butch, Philip è il navigatore della “zattera”,
mentre l’adulto riveste il ruolo di “comandante”; a
sottolinearlo è la scena in cui il bambino legge la mappa del
tragitto seguendo le indicazioni del compagno, che si complimenta con
lui (“Sei un gran navigatore, Philip, sei anche più bravo di
Terry!”). Come la zattera, l’automobile funge da rifugio per i
protagonisti, consapevoli che mettere il piede fuori da essa è
compromettente.
Non
esiste rifugio, ma solo azione: il mondo è l’esatto opposto di ciò
che l’idillio illustra, sebbene i pericoli riflettano un’idea di
drammatica realtà che si è costruita di volta in volta. La
situazione non si discosta tanto dalla società senza legge descritta
da Twain, tanto più se il sogno di Huckleberry e Jim racchiude un
incubo e, in qualunque ambito e circostanza, intorno a loro si
tramano o si attuano violenze.
All’inizio
Philip non sembra recepire la situazione, e ciò lo accosta alla
figura di Giona, il profeta della Bibbia inghiottito dalla balena: il
bambino arriva a capire soltanto nel corso del tragitto, in seguito
alle diverse esperienze in cui l’adulto e il bambino si imbattono.
Non a caso, pure il richiamo a Giona è presente. Durante il
percorso, Butch e Philip incrociano il caravan che è sulle loro
tracce. Butch fa in tempo ad accorgersi che “c’è della gente
dentro, come Giona, quello della Bibbia”. Identificati i passeggeri
dell’auto, il caravan si getta all’inseguimento del fuggiasco e
dell’ostaggio – il quale, mascherato da fantasma, porge un saluto
con la mano.
L’inseguimento,
che termina con un naufragio del caravan in una macchia di
alberi, si può leggere come una parodia di Moby Dick e del
suo carattere epico; in realtà, esso ha più l’aria di una
burrasca con la radura in luogo del mare e l’erba al posto
dell’acqua. Come è noto, l’opera di Melville è scritta nel
segno dell’iperbole: in ogni fattore, il viaggio esplicita
dimensioni iperboliche, a partire dall’oggetto della caccia – una
balena bianca intesa quale sinistra presenza.
Nella
scena fa capolino l’iperbole di un’iperbole: se la realtà
mascherata risulta più facile a comprendersi agli occhi di un
fanciullo, persino un caravan può apparire camuffato da “balena
d’argento” quando in effetti ha tutta l’aria d’un gigantesco
cetaceo. All’inseguimento dell’individuo è la balena
simboleggiata dal caravan, leggibile al contempo come un Pequod
provvisto d’equipaggio – il ranger, il suo vice, la criminologa,
il tiratore scelto e i due autisti.
Il
rocambolesco inseguimento traspare come parodia della caccia che,
nell’opera di Melville, determinava il viaggio e viceversa,
trasfigurando nell’inseguimento di un quid più implicito.
Un mondo perfetto presenta un’equazione in cui ogni membro è
all’inseguimento di qualcosa: Red e i suoi uomini danno la caccia a
Butch per riportarlo a un ordine precostituito, seppure non del tutto
corretto; Butch è alla ricerca di un ordine d’altro tipo, magari
giusto per quanto inesistente, che si può ottenere ricorrendo
all’esercizio della violenza. I conti tornano, ciò grossomodo
riassume una delle caratteristiche più prolifiche del road movie.
Si
accennava, poc’anzi, a un rimando alla figura biblica di Giona. In
Moby Dick – spiega acutamente Fiedler – il profeta è
identificato con il protagonista del romanzo, Ishmael, pure alle
prese con un viaggio di tipo iniziatico. A bordo del Pequod,
nell’amalgamarsi con un equipaggio interamente maschile, Ishmael si
imbatte in una passerella di fattori – l’amicizia virile, l’amore
di Queequeg, la vendetta di Ahab – atti a segnarlo profondamente e
a farlo diventare uomo. A esperienza dibattuta, dopo avere sfiorato
la morte, il giovane abbandona un carattere schivo per acquistare la
salvezza e la saggezza della maturità. Scrive Fiedler:
“Eppure,
c’è un’ironia che supera tutte le altre. Se Queequeg muore per
Ishmael, lo stesso si può dire di Ahab; anche se, beninteso, il
primo muore sacrificandosi deliberatamente, e l’altro per la sua
cieca hybris.
Tuttavia, è la distruzione di Ahab a salvare la vita di Ishmael, è
la manifestazione della furia di Ahab a insegnare a Ishmael l’amore.
Se, come Ishmael afferma a un certo punto, una baleniera è stata la
sua Harvard e la sua Yale, Ahab fu suo supremo maestro.”
Philip
non rischia la vita come Ishmael, sebbene sia in compagnia di un
evaso ritenuto “pericoloso” dalla legge. Nondimeno, come il
protagonista di Moby Dick, il bambino arriva ad un percorso di
maturazione segnato da tutta una sequela di momenti caratteristici,
apparentemente minimi, ma molto indicativi nell’esplicare il rite
de passage. Prendiamo la scena in cui l’automobile dei due
amici parte da sola per un probabile guasto ai freni; nell’abitacolo
c’è il bambino, rimasto da solo per un istante. Nei paraggi è
situata un’altra vettura, i cui proprietari sono intenti a fare un
picnic.
Philip
è in comprensibile panico, non conoscendo i comandi della vettura,
né la posizione del freno e dell’acceleratore. Come nella scena
dell’inseguimento, tale passaggio si può leggere come una
burrasca, ove il mare ha lasciato il posto all’erba; l’automobile
percorre il sentiero proprio come una barca. Mantenendo la calma,
Butch “pilota” a distanza il bimbo, il quale riesce a pigiare il
piede sul freno nell’istante in cui la macchina, in direzione di
Butch, sta per investire l’uomo. Al termine dell’impresa, Butch
commenta: “Sei stato grande, Philip! Io non avevo dubbi”.
Come
già accennato, uno degli echi della narrativa americana concerne la
parabola del giovane la cui maturità si effettua tramite una figura
dalle connotazioni non troppo positive, nella quale il discepolo è
convinto di trovare un fermo modello di riferimento, prima di avere
la possibilità di ricredersi. Analogamente, Philip abbandona il lato
infantile allorquando intuisce che la realtà, per come si illustra,
a lungo andare non può più essere scambiata per gioco: l’indebita
e improvvisa intromissione del reale finisce per scompaginare i
confini della finzione.
Camuffata
o meno, la violenza rimane sempre la stessa; il viaggio quale fuga
include una violenza indotta, che finisce col prevalere in
circostanze molteplici, nella fattispecie casuali. Per quanto
necessaria, essa trasforma in sogno un’illusione, e viceversa
“La
libertà è soltanto una grande illusione che si può solamente
inseguire ma non certo raggiungere in un paese caratterizzato dalla
violenta intolleranza (…)”
Ciò
è sottolineato in due momenti specifici. In uno, ad esempio, Butch e
Philip si imbattono nella famiglia cui chiedono un passaggio, prima
che Butch decida di “prendere in prestito” la loro macchina. Nel
discutere con Philip, l’uomo commenta: “Se si fossero messi a
discutere, avrei dovuto sparargli. E che fine avrebbe fatto quella
famiglia?” Certo, non vi è dubbio – per adoperare la sua
espressione – che essere un buon padre sia “la cosa migliore per
un uomo”; pur tuttavia, se Butch delinea quel paterno modello di
riferimento di cui Philip è privo e nel quale quest’ultimo ripone
la fiducia, quel modello sembra il primo a non credere nei suoi
insegnamenti, né in una presumibile perfezione del mondo.
Il
solo strumento volto a garantire all’individuo la sopravvivenza o
la libertà – se di libertà si può parlare – è la violenza
nelle sue molteplici sfaccettature. Non necessariamente essa effettua
il suo corso, ma se ne può avvertire la latenza tramite gesti e
situazioni – mostrare la rivoltella, minacciare, gridare. Se in
queste forme il mondo appare sempre meno perfetto, un bambino di soli
sei anni non può non rimanerne investito.
“L’insieme
che ne risulta è straziante. Logico che un bambino non possa reggere
all’emergere di una tale massa mostruosa; logico che, anche non
volendolo veramente, possa sparare a colui che di tale crudeltà
sembra essere il responsabile. E qui il sogno davvero finisce, il
cuore di tenebra si è mostrato in tutto il suo orrore, proclamando
risibile ogni velleità di riscatto, per chiunque (…)”
La
realtà è tanto confusa e marcia da non riuscire più nemmeno a
distinguere la differenza tra “minaccia” e “fatto” che, in un
altro momento emblematico, Butch spiega a modo suo al compagno
d’evasione Terry. Butch gli rompe il naso, ricordandogli che
un’azione è più eloquente di tanti discorsi superflui. Pure, un
simile scambio di battute trapela come un insegnamento: Philip resta
interdetto di fronte al suo rapitore, convinto che il suo
atteggiamento violento possa riversarsi su lui da un momento
all’altro.
“Questo
scambio di battute conciso, brechtiano, costituisce la prima di una
serie di lezioni per Philip, e rappresenta l’esatto opposto delle
lezioni standard del cinema americano, tipo ‘segui ciò che ti dice
il cuore’ o ‘la vita è breve, quindi gustala fino in fondo’. È
una lezione molto più sobria, severa, di quella a cui siamo abituati
negli Stati Uniti, più prossima al tipo di franchezza che si trova
nel cinema francese, ma più sottile, più astutamente inserita
nell’azione.”
Butch
non nuocerebbe mai a Philip, tanto la sua condizione familiare è
analoga a quella dell’evaso. Parafrasando Fiedler, come Huckleberry
Finn mente e scappa e si nasconde per amore di Nigger Jim, lo stesso
fa Butch per amore del bambino: come la creatura di Twain, Butch ha
esteso l’interesse per sé medesimo fino a comprendere anche quello
di un altro. Come osserva Fiedler, tuttavia, il malvivente è la
copia grottesca dell’adolescente medesimo, da cui questi fugge,
incurante che proprio il malvivente è il suo modello di riferimento
più diretto. In Un mondo perfetto, Butch rappresenta
“l’innocenza deformata a immagine della colpa” di Philip, ciò
che il bambino potrebbe diventare una volta adulto.
Eppure,
Butch non pare tanto la rappresentazione di un Injun Joe o di un Pa’
Finn, piuttosto il calco di un angelo protettivo, volto a preservare
il bimbo da avversità o da violenze stupide, spesso immotivate. In
una scena, intrufolatosi nella casa di Philip, Terry schiaffeggia il
bimbo senza motivo e tenta di violentarne la madre, finché non
sopraggiunge Butch a renderlo inoffensivo con un calcione. Durante il
tragitto, Terry colpisce il bambino ripetute volte per il sadico
gusto di farlo; va da sé che l’uomo ucciderà il compagno
d’evasione, salvando Philip dalla sua violenza.
Al
contempo, Butch rappresenta per il fanciullo l’ombra minacciosa e
l’anima redentrice, l’angelo custode nella misura in cui lo sono
Becky Thatcher per Tom Sawyer, Nigger Jim per Huckleberry Finn e
Queequeg per Ishmael. Se evidente risulta che Philip veda nel
rapitore la figura paterna, tale è il legame del bambino con
l’adulto da indurre Butch a ricoprire questo ruolo con il debito
trasporto. Anche in questa circostanza il gioco delle parti fa
capolino, di nuovo il riferimento è a Huckleberry Finn.
Alla
cameriera che serve la cena ai due protagonisti, insospettita dalla
loro provenienza, Butch racconta una bugia in cui dichiara di essere
il padre adottivo del bimbo, confermando tuttavia una sincera
mansione paterna.
“La
sua madre biologica è viva, lo ha dato in adozione a me e a mia
moglie… Che poi è morta… Lei è… Era la… La matrigna di
Buzz… Quindi, è lei sua madre… Era sua madre, la matrigna… Ma
è morta…”
Per
salvaguardare un sogno di libertà e sopravvivenza, Huckleberry Finn
è indotto a mentire per non compromettersi in situazioni da cui
riesce a salvare la pelle, ma dalle quali non può sentirsi escluso a
lungo andare. A differenza di Huckleberry o di Tom Sawyer, le cui
bugie accentuano troppi particolari di fantasia per risultare
convincenti, Butch snocciola menzogne più asciutte, prive di
qualunque irrealtà, che gli consentono di farla franca finché una
svolta improvvisa non rimescola le carte.
Nella
circostanza, Butch capisce che la cameriera lo sta corteggiando e di
conseguenza gli basta poco per attaccare bottone. Nella scena
successiva, l’uomo è intento a fare all’amore con la donna,
finché Philip non sbircia involontariamente da una finestra,
interrompendo il rapporto. In questa parentesi, il bambino deve
affrontare la scoperta della sessualità, determinante la conclusione
del periodo infantile e l’avvio all’età adulta. Un quid
similare è presente anche in Honkytonk Man, nel divertente
intermezzo che illustra il nipote di Red in una casa di tolleranza,
ove il ragazzo ha la sua prima esperienza amorosa sotto il patrocinio
dello zio.
Non
tanto la sessualità, di per sé ricorrente nel disegno
dell’iniziazione, quanto la sua vera e propria scoperta da parte
del bambino è cardine della narrativa americana. Come osserva Franco
la Polla, questo tema è insito nei romanzi di alcune grandi firme
del Novecento – da Faulkner a Capote, da Thomas Wolfe a Carson
McCullers, da Harper Lee sino al più recente William Styron. Nel
sorprendere Butch che fa l’amore con la cameriera, Philip scopre il
sesso per caso nella posizione che Henry James – ricorda La Polla –
definirebbe “di privilegio”.
Nondimeno,
non può non tornare alla mente il Joe Christmas di Luce d’agosto,
altro osservatore esterno di un rapporto sessuale nel quale uno dei
partner è la madre.
“A
cinque anni egli ha ormai l’abitudine di intrufolarsi ogni giorno
nella camera della donna per assaggiare la pasta dentifricia che ella
vi tiene. Ma quando, impossibilitato a fuggire per l’arrivo della
donna, si nasconde dietro una tenda, ancora col tubetto in mano, egli
non si rende conto di quello che sta accadendo: la donna è entrata
con un giovane assistente medico e ciò che i due stanno facendo non
tocca, o almeno non sembra toccare, il piccolo Joe più di quanto non
lo potrebbero toccare due persone che parlassero una lingua
sconosciuta. Allo stesso modo egli non si accorge di avere, nella
foga e nella trepidazione del momento, ingerito una forte quantità
di dentifricio.”
Come
numerosi antieroi adolescenti della letteratura nordamericana, Philip
appartiene alla rigida e bacchettona tradizione del Sud, prezioso
terreno di conservazione che vive del passato, intriso della
condizione repressiva che vieta ai bambini la scoperta di tabù
delicati. Per giunta, Philip è figlio di una testimone di Geova e,
dunque, è figlio della religione e del conservatorismo, laddove il
sesso – come spiega La Polla – è “un chiaro segnale
dell’ordine sociale che, a livello psicologico, regola il mondo del
Sud”.
Curioso
che Un mondo perfetto illustri alcuni accenni twainiani
amalgamandoli a topoi cui Twain preferiva rimanere estraneo.
Come ricorda Fiedler, di rado il problema della sessualità è
affrontato in Twain, il quale si limita a giocare con l’età dei
suoi piccoli eroi – per la verità, più adulti dei grandi –
ponendo il mondo dell’infanzia sul medesimo asse di quello adulto,
omettendo l’adolescenza appunto per evitare di affrontare il tabù.
In compenso, come ricorda La Polla:
“Il
pattern
della Fuga, non presentando una forza d’urto diretta come l’altro
ma essendo anzi passibile di una presentazione in forma
apparentemente disimpegnata (le più o meno allegre avventure di
alcuni ragazzi di frontiera), fu in pratica il centro delle più
importanti opere twainiane.”
Nel
disegno del viaggio tra uomini, uno degli schemi più abitualmente
utilizzati è la presunta omosessualità fra i componenti, talvolta
celata; in un autore come Melville, tale latenza è riscontrabile nel
rapporto tra Ishmael e Queequeg o in quello fra lo schiavo negro Babo
e il suo padrone Don Benito nel Benito Cereno. Ma il viaggio
di Butch e Philip è segnato in realtà dall’amicizia, dal rispetto
e dalla confidenza reciproca. Emblematica la sequenza in cui Philip
deve cambiarsi d’abito e si vergogna di spogliarsi di fronte a
Butch, intimorito che l’adulto si accorga del suo “pisello
striminzito” e lo sfotta. Butch però rassicura il bambino (“È
giusto, per uno della tua età”), che torna a sorridere e può
denudarsi senza paura.
La
scena si può leggere come un omaggio a Twain, o come un affettuoso
sberleffo; eppure, Eastwood e lo sceneggiatore John Lee Hancock
giocano con la sessualità dei protagonisti nella formula più
classica del paradosso. In un ulteriore passaggio di Un mondo
perfetto, il tema del sesso riappare in antinomia con la Purezza.
Ripreso il viaggio, infatti, Philip pone a Butch domande inerenti
all’argomento, senza smarrire la propria aura candida. Da par suo,
l’adulto non nasconde imbarazzo, dimenticando per un istante che
Philip ha solo sei anni, e certe cose della vita risultano estranee
per quell’età.
PHILIP:
Sei arrabbiato con me?
BUTCH:
No.
PHILIP:
L’hai baciata, eh?
BUTCH:
Sì, più o meno.
PHILIP:
Perché?
BUTCH:
Perché è piacevole. Mai visto la mamma baciare un uomo?
PHILIP:
No.
La
conversazione langue, smozzicata in frasi che sembrano essere di
convenienza, raggelate da silenzi imbarazzanti. La scena può
rimandare alla scoperta del sesso in due romanzi quali Una morte
in famiglia di James Agee e Il buio oltre la siepe,
affrontata in maniere molto simili, sia pure con differente epilogo.
Nel primo, la scoperta è fatta dal piccolo Rufus – rimasto
all’improvviso orfano di padre – che porge una domanda a suo zio
Andrew circa la maternità della madre: la risposta violenta e
inattesa dello zio specifica l’evidente terrore per l’argomento,
scaturito dall’educazione puritana e repressiva del Sud. “Tipica
reazione – osserva La Polla – di una morale inculcata e non
completamente vissuta”, il terrore è accentuato dalla scoperta del
sesso da parte del bambino.
Nel
secondo, la piccola Scout Finch domanda a zio Jack “che cos’è
una puttana”. A dispetto di Andrew, zio Jack non è un reticente e
non risponde in modo aggressivo. Pur non nascondendo un certo
imbarazzo, egli si limita a raccontare un aneddoto inerente al tema.
“I bambini sono bambini” – ammonisce Atticus, il padre della
bambina – ma possono individuare prima degli adulti una risposta
evasiva”. Allo stesso modo, in Un mondo perfetto Butch non
utilizza giri di parole e propende per una trattazione dell’argomento
a livello di una burla, siglando con una battuta che si risolve in
una liberatoria risata da parte sua e di Philip.
PHILIP:
Perché le hai baciato il didietro?
BUTCH:
Beh, è difficile da spiegare... Lo so che ti è sembrato strano…
(sorride) Eh, che cavolo… Lo so che ti è sembrato strano…
PHILIP:
Tu la ami?
BUTCH:
Chi?
PHILIP:
La signora che ti ha cucinato l’hamburger.
BUTCH:
(sospira) Eh, sì, Philip. Sì, la amo. Le ho baciato il
didietro, no?
Nella
spiegazione del sesso a un bambino, il film è più vicino a Harper
Lee che non a James Agee. Come nota La Polla, nella scrittrice il
modo di condurre il pattern ricorda Twain da vicino: si pensi
alla componente sessuale “divergente” che determina il rapporto
tra i due adolescenti, Dill e Scout. Inoltre, ne Il buio oltre la
siepe è presente quella figura paterna di cui un ingente numero
di adolescenti della narrativa americana è sovente alla ricerca.
“Lo
splendido, perfetto Atticus Finch non potrebbe essere respinto da
nessun figlio: egli è, anzi, ciò che tanti figli hanno cercato per
anni. (…) Il Padre che mancava a Tom, e ancor più a Huck, che
Eugene Gant, gigante solitario, implorava, che cercarono Henry
Sutpen, Quentin Compson, la Peyton Loftis di Lie
Down in Darkness
di William Styron e gli altri mille sfortunati eroi del Sud, quel
padre non manca in To
Kill a Mockingbird.”
Butch
Haynes è molto simile a Atticus, il “padre perfetto” che ciascun
figlio desidererebbe avere. Laddove però Atticus risulta troppo
perfetto per apparire convincente, non presentando un difetto che lo
scalfisca – e oltretutto è un avvocato – Butch è un malvivente,
troppo inserito, sia pur non sempre volontariamente, in una spirale
di violenza per risultare figura positiva agli occhi di un bambino o
di chiunque incontra sul tragitto.
In
compenso, Philip si ricollega a personaggi di estro twainiano privi
di modello paterno; addirittura, nel bambino si può leggere un
equivalente maschile della Peyton di Una notte di tenebra: una
born loser che la ricerca del padre conduce alla rovina,
vittima di quella società competitiva da cui rifugge, nel cui
desiderio di libertà si individua la frustrazione. Ancora, Philip
può ricordare il Colin protagonista di L’arpa d’erba di
Capote, o forse lo Eugene Gant di Angelo, guarda il passato o
il George Webber de La ragnatela e la roccia, entrambi di
Thomas Wolfe.
Nella
ricerca del genitore, tutt’e tre le figure muovono verso un Nord
più progredito rispetto al paese d’origine. Rimanendo in ambito
wolfiano, Butch è un equivalente del Nebraska Crane de La
ragnatela e la roccia, l’amico in cui George intravede un
sostituto della figura paterna – ma Nebraska è una creatura del
Sud, la ricerca del padre è sempre identificata con la fuga verso
Nord. Personaggi autobiografici, Eugene e George dirigono a
settentrione senza trovare ciò che cercano, intenzionati a lasciare
alle spalle il proprio mondo pur sapendo che le loro radici sono lì.
Ciò
si ritrova nel discorso di Butch a Philip sul viaggio come fuga nel
tempo (“Lì davanti c’è il futuro… Lì dietro, beh…Quello è
il passato…”). Se però il pellegrinaggio dei due personaggi di
Wolfe contrasta con le divergenze tra Nord e Sud, ciò non si evince
in Un mondo perfetto, il cui schema narrativo più che altro
si concentra sulla fuga improvvisata dei due amici. Fuga, come si è
detto, delineante per Philip l’esclusiva possibilità di sfiorare
una maturità dolorosa, abbandonando per un istante l’infanzia.
Specialmente
nell’accostamento del film a Huckleberry Finn, il viaggio
dei protagonisti trova un’aura di sogno impossibile, destinato
inevitabilmente al fallimento. A riguardo, un’osservazione di
Fiedler ben si adatta alla fuga di Butch e Philip e all’impossibilità
di essa.
“Il
problema di Huck non è perciò quello di capire il suo destino, ma
di accettarlo; e Huckleberry
Finn è la
storia dei suoi tentativi di sfuggire a quel destino (…); ma non sa
dove arriverà nella sua fuga, tranne che la sua meta è il nulla,
semplicemente un’anti-società, di cui egli è uno zero, un
fantasma privo di vero nome.”
In
Un mondo perfetto, il problema di capire il proprio destino
non affligge Butch né Philip, il quale durante il tragitto si rende
conto di quanto sia vicino alla sorte cui Butch va incontro. Seppure
in modo rancido, ciò rientra nel percorso d’iniziazione, ma
sancisce l’utopia della fuga da un mondo imperfetto,
l’impossibilità di riscontrare un’ipotetica perfezione. La fuga
è inutile quanto l’evasione di Butch, nel finale tutto rientra
nella “normalità”: nessun mondo è perfetto come lo si desidera,
nessuna società può realizzare il destino tanto di Butch e Philip
quanto di ogni immaginabile Huck Finn. Impossibile è la meta da
raggiungere: l’Alaska è lontana, la purezza innocente lo è di
più.
Se
ancora si riscontrano figure che irriducibilmente cercano di sfuggire
alla sola norma possibile, esse appaiono spettri privi di nome e
identità, fantasmi come il costume indossato da Philip quasi per
l’intero viaggio.
Può
darsi che Michael Wood abbia ragione nell’affermare che l’eroe
non crede sino in fondo in una società regolata dalle donne, per la
maggior parte depositarie di valori tradizionali – il matrimonio e
la religione, la casa e la famiglia. E può darsi che Wood non abbia
del tutto torto a ritenere la casa come ciò che ogni irriducibile
dovrebbe desiderare, sia pur non convinto di riuscire ad accettare.
“L’America
non è tanto una casa per qualcuno, quanto il sogno universale di una
casa, un desiderio le cui attrattive dipendono dal suo rimanere a
livello di desiderio. Il cinema riporta a casa i ragazzi, ma si ferma
appena li ha riportati: la casa infatti, questo ideale così esaltato
e così assolutamente americano, è una specie di morte e una
giustificazione indiretta di tutti quei vagabondaggi che per così
tanto tempo te ne hanno tenuto lontano.”
In
questa prospettiva, risulta più facile comprendere la sequenza
finale di un film come Sentieri selvaggi: Ethan Edwards (John
Wayne) riporta a casa la nipote rapita dagli Indiani, rifiutando di
rientrare nella comunità. Nel suo viaggio per ritrovare la
fanciulla, Ethan ha dovuto giocoforza mettere in conto l’uso di
violenza e ricorrere ad essa, elemento opportuno all’irriducibile
per sopravvivere in ambiente avverso – la wilderness, in
questo caso, di lì a poco destinata a scomparire insieme alla
frontiera, al suo mito, ai suoi corpi e ai suoi luoghi. Sebbene
necessaria, la scia di violenza lasciata dall’irriducibile annulla
ogni plausibile reinserimento nel mondo civile.
Ethan
rimane per un istante sulla soglia, prima di allontanarsi
definitivamente nel deserto, mentre la porta di casa si chiude dietro
di lui. Come nel film di Ford, così in Un mondo perfetto la
violenza è entità integrante del vagabondo, di cui è impensabile
un ritorno alla normalità; intessuto di valori tradizionali, il
mondo civile è l’esatto opposto del modello di vita scelto
dall’irriducibile. Con ogni probabilità Butch corrisponde al
vagabondo libero e autosufficiente; non certo Philip che, durante una
sosta notturna presso un campo di granturco, confessa all’amico di
volere tornare a casa, intristito dalla nostalgia.
BUTCH:
Che cosa hai?
PHILIP:
Io voglio andare a casa.
BUTCH:
Se volevi tornare a casa, perché non sei rimasto al negozio oggi?
PHILIP:
Perché sì.
BUTCH:
Perché sì cosa?
PHILIP:
Perché ho rubato. Mi metteranno in prigione e andrò all’Inferno.
BUTCH:
(ride) è la stessa cosa, Philip. Non c’è differenza. Ci
torni presto a casa. Te lo giuro, va bene?
Nelle
parole di Butch s’intuisce una forma di esorcismo per quel nucleo
che, da tempo, ha smesso di coltivare, vuoi per libera scelta o
perché indotto a tale scelta. Nelle parole di Butch non si può non
avvertire una nostalgia di fondo, ma l’esperienza del tragitto e il
conseguente brivido dell’avventura risultano fattori ottenibili
solo all’interno d’una comunità interamente maschile; le figure
femminili appaiono fuori contesto, poiché interrompono o troncano
l’idillio. Come sottolinea Pezzotta, nel contesto in cui si
inserisce Un mondo perfetto, si tratta di
“Un
mondo tutto al maschile, che passa attraverso l’apprendimento
dell’uso delle armi e il superamento del complesso di avere il pene
piccolo: fin dal primo incontro, Haynes invita Philip a maneggiare la
rivoltella, e poi lo rassicura che il suo ‘pisello’ è ‘normale’,
per uno della sua età. E per riguardo a Philip, Haynes rinuncia –
dopo anni di prigione – a concludere con la cameriera vogliosa.”
Se
nella narrativa americana più classica ciò costituisce denominatore
comune per molti autori – si pensi al Melville di Moby Dick
e di Benito Cereno, al Poe di Gordon Pym, ove il
Pequod, il Saint Dominique e il Grampus sono per statuto, in quanto
navi, universi privi di figure femminili – ecco che nel cinema tali
modelli riappaiono in quanto pattern fondativi, congeniti alla
cultura statunitense. Per dirla con Wood, “le sole famiglie
credibili appaiono nel contesto di un passato elegiaco, perché il
cinema esalta, tipicamente, la comunità non attraverso la famiglia
ma attraverso il cameratismo virile”.
Nell’affermare
che non esiste differenza tra Inferno materiale e spirituale, Butch
rimanda di nuovo alla figura di irriducibile per antonomasia del
romanzo americano, Huckleberry Finn. Non è illecito, infatti,
leggere Un mondo perfetto come una trasposizione del testo di
Twain, anche se molto libera; tanti sono gli assiomi che inducono a
vedere nell’odissea dei due protagonisti una replica del viaggio di
Huck e dell’amico Nigger Jim. Addirittura, il sogno di libertà che
spinge Butch a fuggire risulta dettato, più o meno, dalle medesime
motivazioni che inducono Huck a fuggire. Scrive Fiedler:
“Avendo
respinto il mondo delle madri, Huck è condannato ad andare veramente
“all’inferno”, a perdersi nei bassifondi della violenza, una
violenza così universale che non la si giudica, ma la si respira
come un’atmosfera. è un mondo in cui si sopravvive in virtù del
proprio spirito o della stupidità altrui (…)”
Non
a caso, nelle parole di Butch che assembra casa e Inferno nello
stesso mosaico, si riscontra un rimando al piccolo paria indeciso tra
quel che dovrebbe e quel che vorrebbe fare, e che infine si convince
della scelta di andare all’Inferno.
“Non
più libero pensatore che selvaggio, egli non solo conosce ma, in
astratto, crede alle norme, in forza delle quali non potrebbe
sopravvivere un istante, nell’infra-società senza legge dove vive.
Perciò egli distingue costantemente, dentro di sé fra quel che
‘dovrebbe fare’ e quel che sente di ‘dover fare’; e tale
distinzione dà forza alla crisi morale del libro.”
Non
esiste religione per gli irriducibili come Butch. Se si decide
qualcosa, lo si decide senza programmi, e in ogni caso si va fino in
fondo, altrimenti non si è liberi; l’irriducibile è un ateo, in
un certo qual modo. In Un mondo perfetto, una delle difficoltà
di Butch risiede nello scontrarsi con i precetti della religione cui
Philip è stato educato, ma nei quali forse il bambino non crede sino
in fondo. Nella scena in cui i due amici imboccano un sentiero in
cerca di cibo, Butch dice a Philip “festeggiamo Halloween”, ma il
bimbo risponde che è contrario alla sua religione. Al che Butch
taglia corto (“Philip, io lo chiedo a te. Non lo chiedo a tua
madre, non lo chiedo a Geova. Vai a chiedere i dolcetti o no?”) e,
benché perplesso di fronte alla reazione, Philip acconsente.
Come
scrive Gianni Celati, Huckleberry delinea “l’immagine della
frontiera, l’eroe che dorme in una botte e non sa nulla dei rituali
di normalizzazione che la chiesa e le donne hanno introdotto nella
zona di violenza primitiva”. Isolazionista e solitario,
individualista ma non egoista, egli incarna l’autentico dear bad
boy che non può essere redento. Come accennato, nel romanzo
statunitense, enumerabili sono i prototipi di adolescenti che
coltivano il pronostico di spingersi a Nord, sia per la scelta di
allontanarsi da un Sud arretrato, sia per la ricerca del padre. Il
romanzo di Twain si basa su una fuga dalle radici quanto alcuni
esempi della letteratura novecentesca.
La
narrativa americana si sviluppa intorno quest’asse, ma più o meno
tutte le sue creature più indicative sono irriducibili, ed è
intuibile una loro a-scrivibilità alla tipologia. Personaggio
fondamentalmente simbolico, Huckleberry Finn è figura eponima,
classificabile come unica; non ha fratelli e il suo destino è di
avere emuli, non figli. Denominatore rigido, Huck non ha eredi
diretti. Ciò che per Dill o Peyton rimane soltanto un pronostico,
per Huck si fa scelta di vita consapevole: un allontanamento dalla
società che induce l’irriducibile a relegarsi ai margini. Per il
resto
“Condizionati
o oppressi, gli adolescenti della tradizione narrativa (…) sono per
lo più dei Tom Sawyer il cui ritorno a casa è non soltanto
d’obbligo, ma è spesso sperato e vagheggiato da essi stessi
(trattandosi di Tom come potrebbe essere altrimenti?). Da un lato
l’incertezza del luogo nuovo, dall’altro la sicurezza di
un’educazione sociale che immancabilmente preme sulla volontà e
sul carattere. Fra i due poli la scelta finale è quasi ovvia.”
Privo
di piani predeterminati, l’antieroe prosegue il pellegrinaggio
cogliendo il mondo nella sua trasparenza, condizione base per
riuscire a sopravvivere. Riadattando i fattori caratterizzanti il
vagabondo del romanzo al dropout dello schermo – come nota
Giampiero Frasca – “il presupposto fondamentale del movimento del
vagabondo è l’assoluta “assenza di direzione”, la mancanza
d’identità e di una meta prefissata”. Così come i motivi tipici
dell’adolescente, spinto a Nord alla ricerca del padre, a indurre
Butch alla fuga sono le condizioni del vagabondo immune dalla
civiltà, spinto a vivere senza regola o norma precostituita.
Pure,
Philip non presenta un modello di riferimento paterno, e palese
risulta il legame di amicizia che intercorre tra Butch e il bambino,
sincero per quanto impossibile. Irreale è lo stesso rapporto fra i
due, in luogo dell’altra associazione impossibile costituita da
Huckleberry Finn, il ragazzo derelitto, e Nigger Jim, il fuggiasco di
colore. Se però Huckleberry è un “ragazzo senza mamma”, Butch e
Philip sono “ragazzi senza papà”, e lapidaria è la scena che li
ritrae nell’atto di scambiare confidenze.
BUTCH:
Non conosco nessun Philip con gli occhi marroni. Chi si chiamava
così?
PHILIP:
Mio padre.
BUTCH:
Tu e tuo padre andate d’accordo?
PHILIP:
Sì, signore.
BUTCH:
Giocate mai a palla o a nascondino, quando siete a casa?
PHILIP:
No, signore.
BUTCH:
E come mai?
PHILIP:
Non sta molto a casa.
BUTCH:
Beh, o ci sta o non ci sta. Quando lo hai visto l’ultima volta?
Alla
domanda, Philip si limita a scrollare le spalle col capo chino;
dunque, Butch rintraccia nel bambino un erede, come Red nel nipote
Whit in Honkytonk Man. Lo scambio di battute che segue
chiarisce ulteriormente l’analoga condizione che lega i due amici.
BUTCH:
Noi abbiamo molte cose in comune: siamo tutt’e due bellissimi, ci
piace la Royal Cola e abbiamo un padre che non vale un accidente.
PHILIP:
Mamma dice che ritornerà, forse quando avrò dieci anni.
BUTCH:
Beh, ti ha detto una bugia. Tutto qui, mmh? Lui non tornerà più.
Quelli come noi, Philip, devono stare da soli per correre dietro al
destino… (sorride) Tu mi hai capito, vero?
Nella
scena in cui avviene lo scambio di battute, Philip non immagina di
aver trovato il suo maestro di vita; Butch somiglia ad Huck in più
di un aspetto, e a ben vedere anche il fanciullo serba
caratteristiche di finniano estro che vieppiù lo legano al rapitore
in un profondo vincolo. Come nota Fiedler, Huck è un adolescente
spinto alla fuga da un nemico misterioso, un’immagine deformata di
ciò che il giovane potrebbe divenire da grande; così pure,
inizialmente, a Philip risulta difficile ipotizzare che Butch
proietti il suo simulacro futuro.
Non
per questo si deve ritenere Butch un individuo pericoloso, quanto
piuttosto una vittima predestinata della società, costretto a
reagire con quella violenza che la stessa società gli ha inflitto.
Butch è il buon selvaggio che agisce con violenza, sì, ma a seconda
delle circostanze, e mai per il gusto sadico del gesto. Ecco, dunque,
una prima differenza tra l’irriducibile del romanzo di Twain e il
protagonista del film. Scrive Fiedler:
“Huck,
per quante altre colpe abbia, è certamente il ragazzo più contrario
alla violenza che appaia nella narrativa americana, e somiglia più a
Oliver Twist che al suo compagno Tom Sawyer. A differenza di Tom, non
fa mai a pugni; e se, una volta, rivolge un fucile contro il padre
forsennato che lo ha minacciato con un coltello, non spara. Non spara
mai, neppure per autodifesa (…). Corre, si nasconde, prende un
granchio, se la batte e, quando non può far altro, soffre.”
Ribaltando
lo schema di analisi di Fiedler, pur non essendo avverso alla
violenza, Butch se ne serve per riportare un ordine sovvertito di
cose a un equo equilibrio. Egli non è tanto una figura satanica per
Philip, quanto un angelo custode volto a scendere in campo in sua
difesa, e non sembra l’equivalente di un Pa’ Finn quanto, per
contro, dimostra di esserlo il compagno d’evasione Terry. Nella
scena dell’inseguimento nei campi, Philip si nasconde per evitare
di essere ucciso da Terry; passaggio, questo, ove si respira
l’analogo clima di tensione di quando Huckleberry fugge dal
delirium tremens del padre, che insegue il figlio credendolo
l’angelo della morte. Con ogni probabilità, Philip se la vedrebbe
brutta se non intervenisse a difenderlo in extremis Butch, che
ricompare di fronte a Terry e gli spara in fronte. Prima di questa
scena, molto porta a supporre che anche Butch sia un personaggio
negativo, oltre che violento; di nuovo, è sufficiente ricordare il
momento in cui Butch spiega in maniera concisa a Terry la differenza
tra “minaccia” e “fatto”, rompendogli il naso con scatto
inatteso.
Nel
confronto tra Butch e Terry, Un mondo perfetto gioca con il
binomio del “cattivo” ed il diverso modo di illustrare la
violenza: quella sadica si collega a Terry – equivalente del Pa’
Finn, quindi il nemico da cui Philip deve difendersi – e quella
intesa a restaurare la normalità si riconduce a Butch, equivalente
di un Nigger Jim. Se nel romanzo Huckleberry era figura contraria
alla violenza, nel film egli s’è fatto violento per necessità.
Come infatti puntualizza Alberto Pezzotta:
“Il
fatto poi di affiancare a Haynes un compagno sgradevole e violento,
da cui prende subito le distanze, lo pone automaticamente dalla parte
del bene, anche se resta schierato dal lato sbagliato: ma ciò non
per colpa sua, quanto della società, del sistema giudiziario, della
mentalità fondamentalista che crede nella punizione e di cui Garnett
è esponente sulla via della resipiscenza.”
In
un certo senso, si ha l’impressione che Butch risulti più temibile
di Terry, che difatti non nasconde un evidente terrore nei confronti
del compagno. Butch (come i vascelli di Melville) è infatti un’isola
in movimento che basta a sé stessa, e che da ciò trae forza.
Solitario e scafato, taciturno e navigato, Butch è antieroe
individualista e indipendente come un personaggio da road movie
anni Settanta. Non essendo un bieco naturale né uno psicopatico,
Butch parla poco e si esprime più a gesti che a parole. Per la
maggior parte si tratta di gesti inconsulti o al limite del tic,
soprattutto con Terry, che una sola volta anticipa Butch
sottraendogli le chiavi della macchina, prima di recarsi a un
telefono. “Così non lo lascio qui”, dice Butch a Philip, alla
cui domanda “Tu ce lo lasceresti?” l’uomo risponde con beffardo
sogghigno: “Ah, certo”.
Le
azioni di Butch, silenziose ed eloquenti al contempo, si amalgamano
con la capacità dell’uomo di anticipare il prossimo in tutte le
circostanze. Un esauriente spunto illustra il momento in cui, nel
drugstore, buttando un occhio alla sorridente commessa che lo
serve e un occhio al direttore nell’altra stanza, Butch capisce che
la radio sta parlando della fuga dell’evaso e della cattura del
bimbo. A quel punto, il grasso direttore getta uno sguardo al
protagonista, che non smette di fissarlo un istante, e fa per alzare
la cornetta; ma Butch lo fa desistere dal proposito, raggelandolo con
un’occhiata, un attimo prima di rimettersi gli occhiali scuri e di
infilare un fascio di banconote nel reggipetto della commessa.
Miglior
esempio fornisce la citata scena in cui, nei pressi di un emporio,
Butch intima al bambino di puntare la rivoltella contro il compagno e
di sparare nel caso di una sua mossa avventata (“Tu sei proprio
fuso!”, è la risposta di Terry). La situazione precipita, ma
quando Terry sembra avere la meglio, il meschino sbianca nello
scoprire che l’arma è scarica. Di lì a poco, nella scena
dell’inseguimento nei campi, Terry schernisce Butch, che stavolta
ha caricato la pistola; lo sparo si ode fuoricampo, mentre Philip si
dirige alla macchina.
Parafrasando
di nuovo Fiedler, un simile scambio di ruoli può rimandare a
Melville, autore abile nel miscelare buono e cattivo, fondendoli
l’uno nell’altro e trasmutandoli nel loro opposto. Il che, a ben
vedere, innesca una serie di equazioni a catena: gli atteggiamenti da
irriducibile di Butch ricordano Huckleberry, e così pure Philip
ricorda la figura di Twain poiché somiglia a Butch. Nel passaggio
dell’inseguimento, effettivamente Philip rimanda ad Huckleberry,
laddove Terry è il Pa’ Finn; a questo punto, Butch assume il ruolo
di Nigger Jim che non solo scopre il cadavere del Pa’ Finn, ma è
egli stesso l’artefice della sua morte.
Lo
scambio dei ruoli, fra i due protagonisti di Un mondo perfetto,
avviene nel corso dell’intera vicenda, rischiando di aggrovigliarsi
in modo non districabile. Butch è un fuggiasco ricercato come Nigger
Jim, sebbene somigli più da vicino a Huckleberry; a sua volta,
Philip non solo somiglia a Butch, ma pure ad Huckleberry.
Ciò
è confermato da un altro aspetto: Butch afferma di aver trascorso
l’infanzia in un bordello, e a rimarcarlo è Sally nella sua
“pantomima”. Analogamente, Philip è l’unico maschio in un
ambiente di figure femminili, la madre e le due sorelle; nel proprio
sadismo, Terry vede giusto circa il bambino, e anche in questo caso
riesce ad anticipare Butch (“Uno che vive con tre femmine, senza un
padre…!”).
Per
i motivi accennati, quindi, Butch e Philip sono personaggi
appartenenti a un mondo governato da donne, autorità socio-morali
per antonomasia. Guarda caso, la “Hannibal” di Twain – ovvero
St. Petersburg – è comunità regolata da quei valori tradizionali
– matrimonio, casa, famiglia, scuola, chiesa – di cui le madri,
le mogli, finanche le fidanzate, sono le depositarie; come afferma
Wood, gli uomini in gruppi mirano ad esentarsi da tale condizione,
sia pure temporaneamente. Da Twain in avanti, le donne del romanzo
rimangono figure di super-io. In Un mondo perfetto, la
madre e le sorelle di Philip sembrano ricalcare rispettivamente
quella madre senza marito e quelle figlie senza padre da Twain
descritte nelle proprie opere, equivalenti delle diverse zia Polly,
miss Watson, vedova Douglas e zia Sally.
Butch,
si diceva, è pure l’equivalente di Nigger Jim: in un certo senso,
la sua colpa è di essere sfuggito alla condizione di schiavitù. A
dispetto di Jim, che non conosce la violenza, Butch non ha remore a
sferrare cazzotti (se provocato), peraltro scaricando una violenza
calcolata e razionale. Come si è detto, Butch non è pericoloso come
lo crede la società, per contro realmente piagata; l’uomo è la
vittima di una giustizia ingiusta – mai paradosso fu più eloquente
– spinto sulla via del male anche per colpa di un passato doloroso.
Sally lo chiarisce nella pantomima in cui si cala nel ruolo del
protagonista. A fornire l’autentica versione dei fatti è però il
ranger Red, che Sally scopre avere mandato Butch in riformatorio.
RED:
Haynes aveva un padre che era un delinquente abituale, con un debole
per le puttane… Una cosa è certa: riempiva di botte chiunque gli
desse fastidio, lo fregasse o lo volesse raddrizzare… Se io… Se
lo avessero rispedito a casa, avrebbe avuto una fedina penale lunga
un chilometro nel giro di un anno… Gatesville non è così
terribile… Ho conosciuto dei ragazzi di lì che si sono
raddrizzati… Uno si è fatto perfino prete…
SALLY:
Io non afferro…
RED:
Ah già, tu non afferri… In Texas, quello che conta è chi conosci
e che cosa ti deve… Io così faccio il mio lavoro, è così che tu
hai avuto il tuo…
SALLY:
Sei proprio un duro! Non è vero, Red?
RED:
Ho pagato al giudice una bella bistecca, e gli ho detto di mettere
dentro quel ragazzo. Gli ho detto che mi sembrava la cosa giusta…
Il giudice mi ha dato retta senza nessuna riserva…
Un
altro rimando a Huckleberry Finn si fa luce. Per come lo dipinge Red,
il padre di Butch può ricordare il Pa’ Finn violento e ignorante
da cui il giovane scappa; a dispetto di Pa’ Finn, il padre di Butch
non è amico della bottiglia quanto dei facili costumi. Così pure
Butch è una figura incastrata tra due opposti: le forze della
violenza, che lo hanno moralmente segnato, e le forze della
benevolenza, colpevoli di averlo ferito di più, convinte di agire
per il suo bene. In questa prospettiva, un personaggio quale Red è
un ricalco maschile della vedova Douglas o della zia Polly, dato che
come loro agisce convinto di fare “la cosa giusta”.
Il
ranger ha causato la prima lunga detenzione di Butch, a sua insaputa,
nella speranza di correggere l’allora ragazzo ribelle; ma, pur
essendo rude e irascibile, il ranger è dalla parte del bene, e serba
molta più anima di quanta non ne dimostri una figura come Bobby Lee.
Nel drammatico epilogo, quando la violenza prevale di nuovo, ogni
sforzo da parte del ranger risulta inutile; incappando nel medesimo
errore di un tempo, l’uomo capisce di essere lui pure un
responsabile, per aver voluto troppo agire bene. “Io non so niente,
non lo so e non lo voglio sapere!”, è la laconica risposta di Red
che chiude il film. Arguto è quanto sostiene Jones:
“In
questo film, in cui un raggrinzito tutore della legge si rende conto
di aver distrutto la vita di un giovane che pensava di aver aiutato
(…), c’è una tristezza penetrante, una consapevolezza che emerge
dall’esperienza dura e pura del fatto che le persone non sono altro
che la somma delle loro decisioni, e che nessuno può essere davvero
aiutato a prenderle. Il concetto è riproposto, riaffermato e messo
in atto durante tutto il film, e ci colpisce con forza devastante nel
climax
finale.”
Si
arriva alla scena madre del film, che avviene nella casa dei
contadini negri presso cui Butch e Philip trovano ospitalità; scena
clou in quanto presenta per intero tutte le connotazioni sinora
trattate. Mentre stanno facendo colazione, Butch e Philip assistono
allo schiaffo che il padrone di casa, Mack (Wayne Dehart), tira al
nipote Cleveland (Kevin Woods), solo perché il bambino non ha svolto
subito quanto il nonno gli aveva chiesto di fare. Poco dopo, Butch
gioca con i bambini, prima di ballare al suono di una vecchia melodia
cajun con Lottie (Mary Alice), la moglie di Mack. Durante il
brano, Butch confida alla donna che sua madre era una maitresse che
“mi faceva stancare ballando e finiva per stremarmi in camera da
letto”.
Dopo
questo momento distensivo, Butch si accorge che Mack ascolta la
radio, che trasmette il notiziario; quando si accenna all’evaso e
all’ostaggio, Butch anticipa Mack spegnendo l’apparecchio,
costretto a rivelarsi come il fuggiasco braccato (“Vi ammazzo
tutti, se fate qualche sciocchezza!”). L’uomo sta per andarsene,
quando Cleveland lo implora di trattenersi ancora un po’, ma Mack
prende il sopravvento e schiaffeggia di nuovo il nipote. A Butch
questa volta va il sangue alla testa, e a sua volta colpisce Mack
(“Perché hai picchiato Cleveland, adesso? Perché non ha scattato
quando gli hai dato un ordine, eh? Perché è troppo vivace e ti dà
fastidio, e non ubbidisce quando gli dici le cose? Mi fai venire il
voltastomaco!”).
Non
si può non leggere nella reazione di Butch il ricordo di un’infanzia
traumatica, in particolare nel suo rivivere a casa di Mack le
violenze inflittegli da bambino. Per vendicarsi di un’infanzia
sottratta, nonché di un’idea di calorosità piagata e la cui
ferita pare destinata a non avere argini, Butch costringe Mack ad
abbracciare il nipote pronunciandogli parole d’affetto (“Devi
dirlo convinto!”). Infine, Butch di nuovo rimette il disco con la
melodia cajun, legando e imbavagliando la famiglia per
l’intera durata del brano. Frattanto, Philip assiste impotente e in
lacrime alla scena: il fanciullo sta lentamente perdendo la fiducia
in colui che cominciava a sentire padre.
Soprattutto,
Philip capisce che non c’è più spazio per il gioco, e ciò
determina il suo punto di maturazione nell’età adulta; quando
forse Butch sta per uccidere gli ospiti, il bimbo gli sottrae la
pistola e gli spara. Tale gesto sancisce come Philip abbia imparato
la lezione: per ottenere ciò che si vuole è necessaria la violenza;
un uomo non è libero senza una pistola alla mano; la realtà
dolorosa prevale sulla fantasia, sempre e comunque, sia pure in modo
avventato. Ultimo ma non meno importante, colui che Philip credeva un
amico è apparso un vero criminale, reo di avere tradito i maturi
insegnamenti impartiti al piccolo.
Agli
occhi del piccolo, Butch è sembrato l’artefice di quella violenza
che ha insozzato la bellezza originaria dell’America, in modo
irreversibile smarrendo l’innocenza alla nascita. A sua volta, lo
spettatore s’è accorto di tutto ciò da due fattori specifici: non
solo Philip ha imparato ad anticipare Butch sottraendogli la
rivoltella, ma anche – cosa più grave – ha imparato ad usarla.
In sostanza, l’intera scena – come scrive Paolo Cherchi Usai –
“si apre in un’atmosfera di solidarietà razziale ma che si
stravolge in incubo, poi in tragedia, infine in apologo”. Giudizio
analogo serba Piccardi:
“Cruciale,
nell’economia narrativa e in quella della disposizione dialettica
dei temi appena accennati (gentilezza, amicizia, normalità,
violenza) è la sequenza che precede quella conclusiva della
cattura-esecuzione. (…) Qui Eastwood è implacabile nel mostrarci
in tutta la sua ferocia la condizione di un’umanità senza alcuna
via d’uscita. Una condizione, per Eastwood, prima di tutto
americana, naturalmente.”
Ferito
nella fiducia, nel colpire l’amico Philip ha soprattutto rinnegato
l’autorità familiare, ritrovandosi nel solco del destino di Butch:
per quanto il rituale d’iniziazione si sia compiuto, non per questo
il fanciullo ne va fiero. Rifiutando di portare con sé lo scettro
delle sue spoglie, Philip getta la pistola nel pozzo e si sbarazza
delle chiavi; questo gesto può rimandare al Richard de La veglia
all’alba di James Agee, la cui maturità viene toccata dal suo
uccidere un serpente con un sasso, e dal conseguente gettare l’arma
nello stagno in cui si è tuffato. C’è però un quid di
simbolico in più: mentre si allontana per un istante da Butch, nello
scavalcare un recinto di filo spinato nel quale è rimasto
impigliato, Philip provoca uno strappo al suo costume da fantasma.
Nella
scena descritta è possibile rintracciare un’altra equazione circa
lo scambio di ruoli. Nel colpire Mack, Butch si comporta come un
Huckleberry che si ribella al Pa’ Finn, saturo della sua violenza;
quando poi lega e imbavaglia la famiglia del negro, Butch sembra
trasformarsi nel Pa’, il che porta Philip a sua volta a divenire
Huckleberry, impedendo una violenza che lo stesso Butch, ferito,
confessa più tardi “una cosa inutile”. Per quanto l’uomo non
appaia violento per natura sino a questa scena, tutto fa pensare che
lo diventi solo per un istante. Del dubbio viene però smaltita ogni
traccia allorquando Butch confida a Philip: “Beh, io non credo che
li avrei uccisi”.
L’evaso
ha ammazzato in vita sua, certo, ma per la necessità di difendere le
persone a lui più care: sua madre e Philip. Nell’indurre Mack ad
abbracciare il nipote, Butch sembra voler fermare il tempo, e
riportare il mondo “perfetto” alla normalità mascherandolo
dietro un’illusione; tale gesto sancisce la patina irriducibile del
personaggio. Tuttavia Butch è irriducibile di tipo tradizionalista,
forse persino convinto dei valori da cui rifugge, non esattamente
propri di un ideale ribelle. La riprova che Butch agisca sempre
contro la ragione comune è la scena in cui l’uomo invita Philip a
fare una lista di ciò che il bambino vorrebbe fare, incluso mangiare
lo zucchero filato.
Simile
passaggio fa capolino nel prefinale: nel momento della cattura,
quando l’evaso e l’ostaggio sono circondati dalla polizia, Butch
chiede e ottiene che i federali facciano una colletta e raccolgano
dolciumi per Philip, “l’amico più grande che ho”. Come osserva
Pezzotta, l’irriducibile di Un mondo perfetto somiglia non
poco al Kit Carruthers (Martin Sheen) de La rabbia giovane,
non a caso un ribelle anomalo, che “non uccide né per il gusto
dell’infrazione, né tanto meno per esprimere una sorda rivolta
all’ordine costituito”. Pure Butch, in un certo senso, è un
conservatore e un buon osservante delle regole sociali.
Inoltre,
se nel film di Malick Holly (Sissy Spacek) ama nel proprio compagno
di fuga la volontà d’inserirsi in qualche modo ed il tramite –
che egli sembra essere – ad una sua crescita, discorso analogo si
potrebbe formulare per Philip nei confronti di Butch. In questo
senso, Butch è un irriducibile di tipo anomalo, assai distante dai
travellers anni Settanta, la cui fuga per la maggior parte dei
casi è dettata da una ribellione all’ineluttabilità del sistema.
Pur tuttavia, con tali figure Butch conserva più d’un aspetto e
incarna la medesima nostalgia di fondo; basti a rimarcarlo il momento
in cui dichiara ai poliziotti che lo hanno assediato: “Io devo
andare in Messico!”
Proprio
quel Messico meta di pellegrinaggio per molti antieroi del cinema di
Sam Peckinpah (da Il
mucchio selvaggio a
Pat Garrett
& Billy the Kid,
a Getaway!),
così come luogo da cui l’irriducibile intraprende la fuga (Voglio
la testa di Garcia).
Il Messico, determinante il limite della Frontiera e della
giurisdizione statunitensi. A ben vedere, in comune con i personaggi
di Peckinpah, Butch serba il medesimo pathos
leggendario,8
dato che il mito di costoro si congiunge col rimpianto di un’epopea
lontana.
Vedi
caso, la conferma è data da Butch nel rispondere a Lottie che lo
crede una persona ammodo, incapace di azioni violente (“Non sono un
brav’uomo, ma non sono neanche il peggiore: sono di una razza a
parte”). Come osserva Videtta circa irriducibili di tal razza:
“Il
loro fascino risiede in una fatalistica consapevolezza di essere una
fauna in estinzione. E in fondo la loro scomparsa è più facile da
accettare. Essi non incarnano un sogno da esorcizzare, sono figure in
qualche modo storiche, la cui immagine viene conservata nei Musei del
Midwest.”
Dei
road movies anni Settanta, Un mondo perfetto conserva
intatta la dimensione atemporale: la fuga di Butch e Philip dura
circa un giorno e mezzo. Per quanto le peripezie e le soste e gli
incontri dei due amici scandiscano una durata mitica avulsa da quella
effettiva, il viaggio del film di Eastwood sembra quasi reale ed
effettivo. Certo, Butch e Philip indossano i medesimi indumenti, se è
vero che il cambio d’abiti risulta un particolarismo sbagliato ed
inutile nei confronti dell’istanza della temporalità.
Inoltre,
Butch è un fuggiasco e per definizione non dovrebbe perdere tempo;
eppure, l’uomo fa in modo di dilatare o prolungare il tempo a
disposizione, come se ne avesse da perdere. In questo Butch mantiene
una somiglianza con il classico traveller, essendo quel man
of leisure descritto da Videtta che non premedita alcunché,
decidendo soltanto all’ultimo momento.
“Haynes,
invece, sembra avere tutto il tempo del mondo, ama fermare l’azione
(le rassicurazioni a Philip sulle dimensioni del pisello avvengono
quando la polizia è già sulle loro tracce), convinto certo che
esistono cose più importanti (far diventare Philip un uomo, per
cominciare), ma anche per gusto del gioco (vedi il ballo con Lottie),
della provocazione, e innata tendenza all’autodistruzione.”
A
dispetto dell’irriducibile avverso alla legge, di sua spontanea
volontà Butch si consegna alla Norma da cui ha tentato di fuggire.
“A questo punto, possiamo anche scordarcela l’Alaska”, afferma
rassegnato, tenendo la mano di Philip. Un altro rimando letterario si
fa luce. Nella resa incondizionata di Butch fa capolino la
rassegnazione di Peyton Loftis, nel citato Una notte di tenebra di
Styron: la ragazza è vittima di una società violenta quanto di un
utopico sogno di libertà. Nello spirare, Peyton si fa versione
tragica della frustrazione di Huckleberry, e la sua morte
“è
la morte dell’umanità personale, delle scelte, della possibilità
di realizzare se stessi senza compromessi e incomprensioni. Persino
il peccato è commesso in nome di un’originaria purezza.”
Per
tragica ironia della sorte, in Un mondo perfetto Butch muore
appunto per un estremo elemento di purezza impossibile. Non sapendo
che l’evaso non è armato, Bobby Lee spara a Butch, e la pallottola
raggiunge il fuggiasco nell’istante in cui consegna a Philip la
cartolina-scettro speditagli dal padre dall’Alaska. Se Philip ha
intravisto in Butch una proiezione adulta del suo futuro, la
cartolina ha sancito in modo inequivocabile un futuro incerto per il
bambino, ignaro di essere la prossima preda di un sogno
irraggiungibile, a sua volta frustrazione in una società piagata.
L’ultimo
scambio di ruoli fra i due personaggi non può avvenire in modo più
eloquente. Se Butch è la proiezione del bambino, Philip vestito da
fantasma è la proiezione di ciò che l’adulto sta per diventare
(“Una cosa è certa: ci credo eccome ai fantasmi, adesso”,
commenta Butch).9
Il fanciullo è – nota Pezzotta – “lo spiritello che lo
accompagna verso gli inferi, procurandogli anche, con dolcezza, la
morte”. Tale paradosso, forse, è una parodia di Huckleberry
Finn, nel
momento in cui Huckleberry realizza il desiderio di libertà quando
viene creduto morto, e tutti quelli che lo conoscono lo prendono per
un fantasma. Per non parlare di Tom
Sawyer, il
quale, ritenuto morto dal paese, assiste di nascosto al suo
“funerale” per poi riapparire all’improvviso agli occhi della
famiglia.
Davanti
ai corpi esanimi dei due lestofanti impeciati e impiumati,
“Huckleberry vede un presagio del proprio destino, e piange su se
stesso”, immaginando una fine analoga. Allo stesso modo, Philip
piange di fronte al corpo di Butch, ripetendo continuamente il nome
dell’amico per amore di un passato che non può più tornare. Il
bambino non sembra dare alcun peso alla madre quando lei lo
riabbraccia: alla donna, il bambino ha preferito Butch. Il finale di
Un mondo perfetto presenta anche un’ultima pantomima: dopo
che per sfogare la rabbia Red stende con un cazzotto Bobby Lee,
rimproverandogli di avere sparato senza preavviso, a sua volta Sally
imita il ranger, sferrando un calcio nelle parti basse del federale
maschilista, vendicandosi di una sua precedente molestia nel caravan.
Ma
la pantomima ha oramai dissolto ogni valenza o connotazione. Quel che
rimane di Butch è un corpo disteso sull’erba, un braccio ripiegato
sotto la testa, un sorriso felice, gli occhi chiusi. Accanto al
cadavere, la maschera da fantasma di Philip e dei dollari
svolazzanti. L’inquadratura conclusiva è la medesima dell’incipit,
e l’utilizzo dell’immagine ai fini di una precognizione rimanda,
ancora, a Easy Rider: come nel film di Hopper, il finale di Un
mondo perfetto chiarisce ogni dubbio.
Il
film segue un andamento circolare, terminando come era cominciato,
come il romanzo di Twain seguiva un procedimento analogo. A dispetto
di Twain, la fuga-iniziazione di Philip termina quando un elicottero
lo riconduce alla prigione domestica; pur avendo toccato con mano la
fine dell’infanzia, il bambino viene restituito al mondo dei
ragazzi cosiddetto e controvoglia ricondotto al mondo delle
madri, non per scelta indotto a sorreggere la civiltà.
“L’ossessione
americana della solitudine raggiunge in lui un livello supremo
d’espressione, venendo essa accettata, da ultimo, non come una
benedizione da ricercarsi, né come una maledizione da scongiurare o
fuggire, ma semplicemente come il destino dell’uomo.”
Il
romanzo di Twain abbraccia una possibile felicità, mentre Un
mondo perfetto è un apologo sull’impossibilità di raggiungere
la felicità; dunque, un’altra opera sull’irrealizzabilità del
sogno dell’innocenza, destinato alla frustrazione. La morte di
Butch semplifica la distruzione definitiva di tale innocenza. Pure la
panoramica aerea conclusiva echeggia Easy Rider: a distanza di
ventitré anni dal film di Hopper, nulla si direbbe cambiato. La
violenza continua ad annientare il sogno in ogni sua forma, falciando
gli ultimi irriducibili. La Gran Madre sembra avere perso
definitivamente i suoi ultimi figli: the river flows, it flows to
the sea…
1 In un certo senso, Un mondo perfetto è un film leggibile anche come una prefazione a Cinque pezzi facili di Rafelson, nella misura in cui Honkytonk Man può esserlo per Nashville di Altman.
Francesco
Saverio Marzaduri
1 In un certo senso, Un mondo perfetto è un film leggibile anche come una prefazione a Cinque pezzi facili di Rafelson, nella misura in cui Honkytonk Man può esserlo per Nashville di Altman.
2 A
ben guardare, già Easy Rider illustra il gioco delle maschere
come una componente-tipo del viaggio, atta a risaltare la natura
estrosa e ribelle del viaggiatore. Si pensi al personaggio di Billy
(Dennis Hopper), che “si diverte (da tipico americano) a giocare
agli indiani – osserva Videtta – scrutando i cespugli all’intorno
come un esperto scout”.
3 Da
sempre, come noto, agli uccelli viene associato il senso di libertà
per eccellenza; non a caso, la citata scena accompagnata dal brano If
You Want to Be a Bird, eseguito dagli Holy Modal Rounders di un
non ancora famoso Sam Shepard.
4 Il
personaggio di Sally disegna una protofemminista ante litteram
di carattere forte, e con una punta di temprata mascolinità, alle
porte della rivoluzione sessista che segnerà gli anni Settanta,
ironicamente definita da Roberto Giammanco “sodalizio delle
Amazzoni”.
5 GIAMMANCO,
Roberto: Dialogo sulla società americana. Firenze, La Nuova
Italia, 1995. Pag. 67.
6 Eastwood
aveva già sperimentato qualcosa di simile in L’uomo nel mirino,
poliziesco in bilico tra il road movie e la commedia. In
questo film – osserva Alberto Pezzotta – “gli oggetti,
crivellati e deformati, sanguinano (l’acqua che zampilla dai tubi,
la benzina dai serbatoi) e, letteralmente, gemono: la casa di legno,
appena prima di crollare, e soprattutto l’autobus, cui esplodono le
quattro gomme, e che si accascia esalando l’anima come un mammuth
ferito”.
7 È
d’uopo evidenziare, qui, una curiosa coincidenza: ne I
saccheggiatori, uno dei due membri del viaggio è un negro di
nome Ned. Come nel capolavoro dello stesso Eastwood Gli spietati,
dove il compagno di viaggio e di vicissitudini del protagonista è un
nero (Morgan Freeman) chiamato, analogamente, Ned.
8 Il
momento a casa di Mack, nel quale Butch imbavaglia la famiglia del
negro sulla melodia di un vecchio giradischi, curiosamente rimanda a
Cane di paglia; ivi, analogamente, il professor David Sumner
(Dustin Hoffman) difendeva la sua villa da alcuni assalitori sulle
note di un brano scozzese, proveniente da un grammofono.
9 Intesa
anche in senso demiurgico, la figura del fantasma è un altro luogo
ricorrente nel cinema di Eastwood, se si pensa a film come Lo
straniero senza nome, Coraggio… fatti ammazzare, Gunny,
Il cavaliere pallido, Debito di sangue, sino a Million
Dollar Baby. Per la maggior parte, i personaggi di tali opere
sono figure anacronistiche, fuori dal tempo, sopravvissute a se
stesse, addirittura senza nome; più o meno esplicitamente, ciò è
sufficiente a fare di esse delle figure “spettrali”.
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