L’evento musicale e la sua restituzione: dal “rockumentary” alle dirette planetarie

L’evento musicale e la sua restituzione: dal rockumentary alle dirette planetarie 


La diffusione di radio e cinematografo, la prima in termini di accessibilità domestica e il secondo di nuovo luogo sociale, permisero di concepire e poi attuare la trasmissione sinestetica di un evento; il concetto di trasmissione mutò paradigma, complice anche il miglioramento dei sistemi di registrazione e riproduzione fonica e, da ultimo, il cinema sonoro. Sino ad allora la comunicazione era rimasta sostanzialmente un problema di trasmissione – orale o scritta, in chiaro o in codice – d’un testo di natura verbale, così come mediata l’informazione relativa a un avvenimento. 

Supportata da fattori visivi e sonori, accentuata dalle scoperte che condussero alla fonoregistrazione (si pensi alle prime trasmissioni radiofoniche integrali di concerti sinfonici e opere liriche), tale mediazione si sforzò di offrire un’oggettiva ri-presentazione dell’evento; restava tuttavia una mediazione, incapace di superare l’impossibilità sinestetica, sia pure spostandosi a un maggior livello di analisi e ad uno più profondo di riflessione in seguito all’avvento del cinema sonoro. In seguito, la diffusione dei media elettronici modificò irreversibile il quadro delle possibilità, rimettendo in discussione i capisaldi da cui prescindeva qualsiasi forma di mediazione: azione (l’evento nella propria irripetibilità), spazio (il luogo o l’area deputati all’evento), tempo (la durata dell’evento presentato, il dilatarsi o comprimersi dell’arco temporale idoneo alla fruizione), cui a loro volta seguivano concezioni di rilevanza non meno fondamentale: trasmissione (l’evento nel suo compiersi a scopo divulgativo), fruizione (la ricezione dell’evento presso il pubblico), partecipazione (l’interazione del pubblico). 
In conseguenza della rottura concettuale imposta dal medium televisivo e dalla sua espansione, anziché documentato in relativa integrità ed oggettività attraverso ricostruzioni destinate a fruizioni successive, qualunque evento era percepito nell’insieme di attimi che determinavano l’effettivo svolgersi, nel medesimo istante in cui aveva luogo. Anche il concetto di luogo subì un’irreversibile crisi di senso e, in identico modo, vennero a cadere le distanze e le barriere percettive necessarie a una certa mediazione sull’evento ai fini d’una sua ri-presentazione. Le possibilità e specificità del nuovo mezzo rendevano concettualmente possibile l’organizzazione dell’evento allo scopo d’una sua documentazione e trasmissione, mettendo in crisi parecchi modelli: di relazione, di comportamento sociale e – sul versante comunicativo – di quello legato alla documentazione sinestetica d’un qualsiasi evento (come dimostra l’immediata diffusione del digitale terrestre). 
Tanto il cinema imponeva modalità di fruizione destinate a uno spazio altro rispetto a quello domestico, legate a specifiche deroghe di comportamento, quanto la televisione consentiva una fruizione esattamente antitetica: agendo nell’usualità, s’è posta a propria volta quale produttore di quotidianità, laddove il cinedocumentario – in quanto cinema – agiva sull’immaginario conferendo agli eventi, anche reali, un’aura mitica indipendentemente dai criteri estetici della loro ri-presentazione. Anziché luogo di percezione diretta, la sala cinematografica era pur sempre luogo di compresenza, di condivisa e rituale fruizione dell’evento; il pubblico del cinematografo, anche quello dei cinedocumentari, era un pubblico, mentre quello televisivo un’utenza
Analizzare il rockumentary come fenomeno, prima che come genere – considerando in particolare le pellicole prodotte dalla fine degli anni Sessanta alla metà dei Settanta – significa perciò, fatalmente, esaminarne l’omogeneità alla luce di questa crisi di modello (organizzativo, produttivo, operativo, fruitivo), ché l’inevitabile dialettica scaturita da tale crisi ha lasciato segni evidenti. Se dalla fine degli anni Settanta in avanti tale dialettica si sarebbe progressivamente alterata, lo sbilanciamento a favore del nuovo medium accentuato e la crisi di modello accelerata, il medium televisivo – grazie al costante miglioramento delle proprie tecnologie – è stato prima in grado di avvicinare, poi di eguagliare ed infine superare le possibilità operative del medium concorrente (complici le continue, mirabolanti scoperte e applicazioni elettroniche, nonché il virtualmente infinito novero di possibilità). 
Quanto al cinema documentario, a mutare è stato il panorama produttivo e distributivo. Prassi ed estetiche mutarono a loro volta. Aumentarono sia la propensione ai consumi che la loro offerta, e la stessa fruizione di avvenimento si fece consumo sino a cortocircuitare, dopo quello di luogo, anche il concetto di evento. Molti furono i concerti organizzati in funzione della registrazione cinematografica, come in seguito lo furono in funzione della loro programmazione televisiva, alla presenza d’un pubblico non sempre consapevole dell’operazione in atto o addirittura escluso dall’immanenza filmica (ossia non più visibile all’interno del film). Per giungere, da un certo punto in poi, a un normativo recupero testuale della fiction, a informare di sé le immagini destinate al completamento sinestetico della musica, secondo logiche in seguito fatte proprie dall’estetica pantografata del videoclip. 
Di lì in poi il rockumentary come genere cinematografico – la produzione di film destinati alle sale che documentavano e ri-presentavano festival, tournée, concerti rock – s’avviò a una progressiva estinzione. Nel decennio successivo agli anni Settanta la produzione di cinedocumentari rock si è diradata fino ad esaurirsi, sostituita da operazioni affini pensate e prodotte in funzione del piccolo schermo. Il rockumentary cessò di essere genere cinematografico per farsi direttamente e completamente genere televisivo. Finendo, nell’onnipresenza e onniscienza virtuali imposte dai nuovi e dominanti media elettronici, col perdere agli occhi del sistema (produttivo, economico e di controllo culturale) ogni ragione di esistere, non essendo più funzionale alla gestione (produttiva, economica e di controllo culturale) del fenomeno rock, destinato ad assumere connotazioni sempre più di consumo. 
Durante gli anni Ottanta si sono prodotti parecchi cinedocumentari sul rock, ma il numero di tali produzioni prese tuttavia a diminuire in fretta, progressivamente, in proporzione alla crescita delle possibilità televisive e al pieno controllo del nuovo media sulle conseguenti possibilità estetiche e mediatiche. Basterebbe citare lo spettacolo Live Aid, organizzato in beneficenza dal musicista Bob Geldof nel 1985, per mostrare le conseguite possibilità della televisione sul piano mediatico, all’epoca agli inizi e già oggetto di mutamenti, via via destinati a subire perfezionamenti tecnologici non ancora concepibili: tanti mini-concerti in contemporanea tra Londra e Philadelphia, con possibilità d’inserire trasmissioni di altri concerti e collegamenti in diretta con altre località, per un totale incalcolabile di venti ore di trasmissione. Qualcosa che solo l’ipotetica versione integrale dell’intero materiale girato durante certi festival avrebbe potuto eguagliare – ma non superare, per le difficoltà di fruizione cinematografica d’un simile ipotetico prodotto. 
Se si considerano le prime trasmissioni ante litteram in mondovisione e il pubblico potenziale da esse ricoperto, e le si paragona in termini di durata, quantità di materiale musicale documentato per immagini e audience effettiva col programma dell’85, si può avere un’idea della rivoluzione mediatico-musicale nel frattempo avvenuta. Rivoluzione che, a propria volta, non s’è arrestata: tesa a celebrarne la ricorrenza ventennale nel 2005, la riedizione dell’avvenimento – ribattezzato Live 8, giacché tenutosi in undici paesi appartenenti al G8 di quell’anno – ne fornisce la riprova. Se Live Aid non ha rappresentato che lo stadio iniziale del fenomeno, numerosi grandi eventi relativi alla musica rock sarebbero risultati, di lì in avanti, pertinenza esclusiva del medium televisivo. 
La diffusione delle emittenti televisive, di cui l’americana MTV fu senz’altro quella di maggiore audience, dalla fine degli anni Settanta ha consentito la messa in onda di programmi dedicati al rock, la più parte costituita da videoclip, versione televisiva riveduta dei vecchi promo cinematografici. Cortometraggi spesso appositamente girati, in larga parte ottenuti enucleando materiali da film più lunghi tramite operazioni di ritaglio ed editi nelle sale di specifici circuiti, allo scopo di promuovere un gruppo o un artista, o la sua ultima produzione, talora proiettati a complemento di altri film quali riempitivi del programma e altre volte, dopo esser stati cuciti insieme più o meno all’ingrosso, proiettati come spettacoli cinematografici a sé stanti. A una dimensione “corta” del brano musicale, privilegiata dai nuovi orientamenti musicali, è seguito un genere rockumentary dedicato alle nuove tendenze, ma perlopiù costituito da successioni di brani uno dietro l’altro, misura e formato del rock show televisivo o cinematografico del periodo immediatamente antecedente. 
Questa tendenza fu incoraggiata e fatta propria dalla musica commerciale per intuibili motivi, legati alla maggior facilità di memorizzazione del pubblico di brani più corti rispetto ad altri più lunghi e complessi, alla conseguente maggior possibilità divulgativa dei prodotti musicali, a una loro più agile possibilità di produzione, confezione, smercio. E ad essa s’adeguò con estrema facilità il mezzo televisivo, per il quale una simile restituzione visiva del rock non era mai stato un problema e che ora, grazie al progresso dell’elettronica e delle sue applicazioni, era in grado di effettuare con risultati migliori: sempre più, attraverso specifici programmi e specifiche emittenti, la televisione si diede a diffondere musica rock confezionata per immagini in base a tale formato; col tempo, sempre più s’impose l’abitudine di promuovere dischi visualizzandone i brani di punta in shorts destinati alla fruizione televisiva. 
Alla fine del rockumentary, soppiantato dalla trasmissione in diretta e dall’abolizione di un luogo di condivisione fruitiva, corrispose l’egemonia del videoclip rispetto ad ogni altra forma di visualizzazione musicale relativa al rock. In pratica, risultò dapprima uno straordinario veicolo promozionale, successivamente la conditio sine qua non per giungere al più vasto successo; in quest’ottica, considerate le reciproche possibilità di penetrazione e diffusione, non v’è dubbio che il clip garantisse in termini di ritorno commerciale, cioè di promozione sul mercato, risultati infinitamente migliori rispetto al rockumentary
Una volta che l’industria culturale comprese l’importanza dei nuovi media e intuì le possibilità consentite dall’elettronica, una volta concentrati investimenti e ricerche nel settore da parte delle majors discografiche e cinematografiche, una volta operatasi la connessione tra queste e le emittenti televisive più diffuse e potenti tramite opportune joint ventures e altre forme di scambio, l’industria culturale raggiunse il controllo definitivo dello specifico mercato, controllandone gli accessi. Ma a dispetto di quanto esibivano i rockumentaries, il clip documentava poco o nulla, al più mostrando visualizzazioni musicali precedute e seguite da altre di analoga lunghezza e disparato riferimento; e a parte ciò, vi fu sempre meno spazio per il rock alternativo in un sistema divulgativo d’immagini dominato dalla televisione e da un’elettronica i cui prodigi erano riservato dominio del grande capitale produttivo: sempre meno in quanto le produzioni a basso costo nel settore non potevano competere a livello di esiti con quelle più ricche. Quand’anche avessero potuto, l’accesso alla grande distribuzione televisiva era controllato da alleanze economiche interne all’industria culturale, che promuoveva solo quel che appariva funzionale, su cui investiva e da cui era lecito attendersi un congruo ritorno finanziario; quand’anche fossero riusciti ad accedere alla diffusione, si sarebbero infilati in un rosario di prodotti affini, in programmi di ore in mezzo a sterminati altri, dove la possibilità di essere notati dipendeva dal numero di messe in onda – i cosiddetti “passaggi”, naturalmente a pagamento – e dalla collocazione in programmi di videoclip di richiamo. 
Non mancarono strutture indipendenti e reti televisive più autonome, che permisero diffusioni di prodotti meno commerciali, e tuttavia – in un panorama che ha visto prevalere il modello di rete commerciale su altri modelli di rete – simili strutture dovettero accettare compromessi o votarsi alla marginalità. Si creò per gli artisti rock una distinzione di mercato, in cui la parola off manteneva intatto il proprio storico significato di autonomia produttiva e libertà creativa, peraltro accentuando il senso di esclusione dai grandi circuiti e dai grandi incassi. Era sempre possibile superare la demarcazione per quanti avevano talento e qualità, a patto di collaborare col sistema produttivo, accettare la logica di mercato nella sua interezza e rinunciare a consistenti porzioni della propria autonomia. Il paradosso originale del rock – quello di essere musica antitetica al sistema, avente però bisogno di esso per esser prodotto e divulgato – rimase più insoluto che mai. Il che non impedì – come sempre, d’altronde – l’esistenza di artisti e produzioni alternative, l’insorgere di nuove tendenze e nuove forme espressive. 
Il declino del rockumentary e il dominio del clip musicale hanno sanzionato l’abbandono del lungometraggio a favore d’una dimensione breve, ma anche l’abbandono d’ogni pretesa di documentazione dal vero e il trionfo della fiction. Dalla fine degli anni Settanta in poi, l’opzione dominante diventò quella di costruire per immagini attorno al brano musicale delle vere e proprie storie, o comunque di visualizzarlo indipendentemente dall’esecuzione, talvolta pure indipendentemente dai contenuti testuali (in termini, cioè, di pura fantasia compositiva). 
Dal canto loro, le trasmissioni dedicate ai grandi rock-eventi non avevano più alcuna necessità di offrirne costruite ri-presentazioni, optando per documentazioni più o meno integrali in diretta: in una logica di consumo, l’hic et nunc mediatico e le sue implicazioni toglievano interesse alle possibili sintesi a posteriori d’un evento spettacolare. E gli eventi di questo tipo, nel mare magno delle sollecitazioni visive e del proliferare dei palinsesti, in mezzo a centinaia d’altri che ogni giorno ormai si offrivano all’utenza direttamente a domicilio ventiquattr’ore su ventiquattro, in mezzo a ogni altro genere di evento di cui i media elettronici permettevano l’immediata conoscenza, persero l’aura mitica che li permeava, dopo aver perso parecchio del loro significato in termini di cultura antagonista, d’identità giovanile alternativa, di contestazione, di autonomia. In un’era telematica dove ogni evento è ridotto a informazione tra milioni di altre, era la definizione stessa di evento a doversi ricapitolare, e in ogni caso, nei vecchi termini di senso, a non riguardare più alcun programma di consumo e intrattenimento. 
Tutto ciò ha implicato una trasmutazione del pubblico, in termini fruitivi e di rappresentazione. Destinato alle sale, il rockumentary mostrava il pubblico dell’evento a un pubblico che tale avvenimento riviveva, in sedicesimo, con le medesime caratteristiche rituali, ripresentandone riduzioni a sineddoche o visualizzazioni estese, secondo tipologie, intenzioni semantiche, scelte estetiche; a volte lo riduceva ad apparizioni marginali, altre volte concentrava su di esso maggiori attenzioni; in ogni caso, la sua presenza costituiva un simulacro interno al testo filmico, teso a incrementare la possibilità di aggancio virtuale del pubblico cinematografico all’evento stesso. Una volta ridotto l’evento da cinematografico a televisivo, venuto meno il luogo di condivisione della sua ri-presentazione, il pubblico finì per risultare inutile nelle sue ri-presentazioni. Le trasmissioni televisive dei grandi eventi rock, da Live Aid in poi, non mancarono mai di mostrare il pubblico sempre e soltanto nella propria globalità, nel suo insieme di mani e teste, braccia e corpi all’occorrenza ondeggianti collettivamente al ritmo di un brano, o altrettanto collettivamente impegnato a cantare in coro assieme alle star sul palco, a far scattare accendini per produrre scenografici mari di fiammelle, ad applaudire e vociare. Non si ricordano però trasmissioni di questo tipo in cui il pubblico venga esaminato, intervistato, al limite inquadrato a campioni singolari, in cui l’obiettivo cerchi di penetrare la massa indistinta a cercarne singoli comportamenti o singole fisionomie. La rockstar è sempre l’unica figura a spiccare; il pubblico è solo ciò che ne giustifica l’apparizione in un luogo e un tempo preciso, apparizione destinata non tanto ad esso quanto a telematiche epifanie avulse dal concetto di spazio e tempo. 
Sembrerebbe giustificata l’opinione di alcuni, secondo la quale il rock e l’elettronica hanno di fatto stabilito una tacita alleanza, atta all’edificazione di un supermondo digitale, replica esatta dei sogni, delle fantasie e degli incubi d’ogni fruitore, milioni se non miliardi di fan nel mondo; un’alleanza il cui fine ultimo è dato dall’interconnessione, quasi la creazione d’un mega-ipertesto. I divi del rock risultano sempre più apostoli di un messaggio ideologico, vere e proprie icone che i videoclip rendono simili a eroi del fumetto e dei cartoons, simulacri di un passaggio (quello all’elettronica multimediale di consumo) destinato a cambiare non tanto la percezione del rock, ma la percezione della realtà in toto. Il principio della frammentazione (fruitiva, compositiva ed esecutiva; sensoriale, percettiva e sinestetica; musicale, cinematografica e pubblicitaria), man mano si è replicato su scala virtualmente infinita, al punto da omogeneizzare eventi e spazi pubblicitari, filmati a contenuto sociale e apparizioni divistiche, appelli umanitari ed altro ancora, in un’interconnessione che tutto uniforma e appiattisce. 
Altresì, la novità ha coinciso con la diffusione dell’evento. Se all’inizio, sovente, le località in cui avevano luogo i concerti erano collegate come le emittenti radiofoniche che li trasmettevano, oggi l’evento è mandato in onda, in diretta, sui siti web ad esso dedicati, consentendo virtualmente a milioni di persone di essere spettatori, certo, ma pure d’interagire, scambiarsi opinioni sul concerto, discutere di musica e dei temi intorno al quale è costruito l’evento (musicale nello specifico, ma non solo). In sostanza, oltre che vedere un concerto, è possibile inviare messaggi agli artisti, inoltrare domande, seguire le conferenze stampa, leggere i documenti prodotti dalle organizzazioni impegnate nelle svariate cause che l’evento promuove. Qualcosa ancora una volta d’inedito, che pone sempre più nuove riflessioni circa le possibilità del futuro. 
Se la novità s’è allargata a sviluppi e progressi d’impensabile realizzazione nel trentennio scorso – culminata con la diffusione di programmi e file informatici appositamente dedicati alla musica, che hanno reso possibile la duplicazione a distanza di brani o video musicali mediante la connessione – oggi Internet è il privilegiato canale di fruizione degli spettacoli rock. C’è da scommettere che, a breve, si possa assistere a vere e proprie Woodstock telematiche: il che imporrà ulteriori slittamenti e aggiustamenti di senso relativi alle concezioni di luogo, evento, fruizione, trasmissione, partecipazione. Quale potrà essere il ruolo del cinema in tutto questo, quali nuove forme di sinergia si svilupperanno con esso, lo stabilirà il Tempo. 
In chiusura, chi scrive desidera dedicare queste righe al regista Donn Alan Pennebaker, eponima firma del genere rockumentary, scomparso la scorsa estate. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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