Una sconfinata seconda giovinezza: IL SIGNOR DIAVOLO
Una sconfinata seconda giovinezza: Il signor Diavolo
Già da un lustro assente dagli schermi (l’ultima infelice prova fu Un
ragazzo d’oro),
e dopo aver firmato tre fiction
televisive, l’ottantunenne Pupi Avati mostra un’inesauribile
voglia di rimettersi in gioco, invidiabile e rara tra i registi
nostrani coetanei. Sicuramente conscio di azzardare presentando di
persona Il
signor Diavolo,
suo quarantesimo film, nelle maggiori città italiane e agli albori
d’una stagione ancora insonnolita dalla pausa estiva, l’ingrigito
Pupi trova la grinta d’un tempo tornando ad un genere a lui
congeniale, quel “gotico padano” di cui in passato fu maestro,
tanto – scriveva Maurizio Porro – da farne un genere tout
court.
Se poco più di quarant’anni sono trascorsi da La
casa dalle finestre che ridono,
sembra altresì non passar inosservata l’antifona che la più
recondita campagna del Nordest (Venezia in questo caso, ma l’operina
è girata tra Comacchio, Roma e Zagarolo) possa essere scrigno di
mostri nascosti e oscure trame. Che ne Il
signor Diavolo,
adattamento dell’omonimo romanzo pubblicato dal cineasta l’anno
prima, suonano (anche) come un monito politico-allegorico
sull’odierno climax
incombente, dove la metà oscura
di
ognuno, impastata di paranoia e fobia, conduce a un Presente in cui
s’affrontano le proprie inquietudini abortite, riverbero d’un
inguaribile malessere. A mo’ di tragica fatalità, il film di Avati
esce in concomitanza con l’improvvisa scomparsa del volto-feticcio
Carlo Delle Piane, cui il cineasta bolognese diceva di aver pensato
per un ruolo da coprotagonista nel successivo lavoro; ma senza voler
fomentare una circostanza già di per sé nefasta, non si può far a
meno di pensare come il sinistro rituale della finzione valichi le
barriere dell’Assurdo immettendo nella realtà il proprio diabolico
zampino. Al di là di consueti vezzi nostalgici (l’indomito affetto
per la campagna), riproposti con usuale tratteggio, ne Il
signor Diavolo una
voluta discrepanza narrativa, complice una sapiente costruzione in
meta-flashback, non si fa problemi nell’incedere da una
convenzionale parentesi idilliaca a una più marcata occasione di
tensione. Quest’ultima, a sua volta, si fa linea rossa (nemmeno
troppo sottile) per l’articolato carosello di ambigue
caratterizzazioni di volta in volta presenti, ciascuna col proprio
scheletro nell’armadio, e tutte ben orchestrate: da Massimo
Bonetti, incredulo giudice istruttore, al tremebondo sacerdote Lino
Capolicchio, da Iskra Menarini, grottesca suora di felliniana eco,
alla madre dolente Chiara Sani. E ancora l’esorcista diabetico
Alessandro Haber, l’infartuato medico Andrea Roncato o il vecchio
sacrestano Gianni Cavina, cui spetta l’atroce gesto del finale. Il
mosaico che ne emerge radiografa un’atmosfera cupa e mortifera,
intensificata dalla scabra fotografia di Cesare Bastelli, in cui
l’inchiesta al centro (un minore ha assassinato un coetaneo nella
convinzione di sopprimere il demonio), inchiesta da condursi
nascostamente in quanto dannosa per il governo De Gasperi in carica
nel ’52, è condotta da un’ignara pedina del Fato, un giovane e
inesperto funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia. La mano di
Avati (qui pure sceneggiatore, insieme al fratello Antonio e al
figlio Tommaso) non cede mai il passo alla provocazione optando per
la dimensione onirico-fantastica, laddove l’indagine poliziesca,
condita di indizi disseminati lungo l’assunto (un’ostia
trafugata, un paio di radici di denti suini, il ritrovamento d’una
neonata mummificata), converge verso la presenza maggiormente
inquietante: la madre della vittima Clara Vestri Musy, ostile
all’establishment,
le cui penombre – restituite dalla recitazione d’una Chiara
Caselli che nella voce ricorda Laura Betti, se non Alida Valli e Erika Blanc –
mantengono inalterata la distanza tra deleterio cicaleccio popolare e
scomoda verità, nonché la dubbia posizione verso la Chiesa e chi
politicamente la sostiene, ostentando, da parte del cattolico Pupi,
un’arditezza insolita. Riutilizzando classici innesti da atmosfera
horror (l’incipit su alcuni bambolotti, cui segue lo sbranamento
d’un bebè), e grazie all’apporto di fidi assistenti quali Sergio
Stivaletti o Giuliano Pannuti, l’autore sembra, con qualche
ragione, riadattare perfino l’iconografia pittorica (Dudovich e
Adriana Bisi Fabbri, ma anche Dalì) a un diabolico gioco di specchi
e simulacri: se l’effigie di Clara è debitrice delle nobildonne
del primo ventennio novecentesco, reminiscenze non sopite appaiono
l’estrema carta d’un inspiegabile sortilegio, mentre la
conseguita (e accertata?) verità è restituita dal Male camuffato da
innocenza – o da chi ne eredita, oltre all’aura diabolica, il
testimone. Ancora una volta, l’anima nera di Poe è sepolta (ma)
viva.
Francesco Saverio Marzaduri
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