Enigma in rosso: L’UOMO DEL LABIRINTO
Enigma in rosso: L’uomo del labirinto
Allo scrittore e criminologo Donato Carrisi piacciono gli enigmi intricati, e più lo sono – pensa – più devono sorprendere. Pago
del successo conseguito con La
ragazza nella nebbia,
che gli ha fruttato il David di Donatello come miglior regista
esordiente, riadatta alla seconda prova un altro suo romanzo
imbastendo nuovamente una storia di sparizione ai danni di
un’adolescente, tal Samantha Andretti, della quale non si sa più
niente da quindici anni. La costante ricerca s’interseca coi dubbi
e i rimorsi d’un investigatore privato, ancora coi tratti di Toni
Servillo, il cui senso di colpa per non essere riuscito a
rintracciare i sequestratori della giovane fa pendant
con la propria mortale disfunzione cardiaca. Va da sé che il secondo
lungometraggio di Carrisi fa uso, giocoforza, d’un assetto
costantemente frammentato, costituito da tasselli a catena d’un
rebus indecifrabile, mentre l’indagine à
la
Dürrenmatt, modello assai caro al regista-sceneggiatore, s’impelaga
in una cerchia di ambigue creature (una beghina in stampelle di
argentiana eco, la prostituta amica del detective appassionata di
unicorni) contrappuntate da un’accesa fotografia firmata Federico
Masiero, che predilige chiaroscuri rosso-purpurei. Nei suoi
centotrenta minuti di durata, L’uomo
del labirinto
s’infittisce di parentesi allucinate, indizi infantili,
mascheramenti e onirismi d’assortita varietà scanditi da
virtuosismi e ralenti,
ostentando una messinscena dove la maniera, nel proprio marcato modus
operandi,
è cifra per un pubblico ancora disposto a confezioni torbide e
ammiccanti. Peccato che il pilota automatico dilapidi troppo presto
il carburante svelando l’artificio dopo mezzora: la sinistra
apparizione d’un uomo col volto di coniglio e bulbi oculari a forma
di cuore, che a sua volta rinvia al felino-esca ne La
ragazza nella nebbia,
è un deus
ex machina
che, sommato al presunto dedalo mentale d’una Valentina Bellè con
gamba ingessata e flebo infilata nel braccio, restituisce un
campionario di canoni altrove ampiamente dissertati, generoso quanto
ridondante, dubbioso di non far comprendere le zone d’ombra, tanto
da riciclare modelli da Kubrick a Lynch (e pure Sergio Leone). Segno
che
L’uomo del labirinto non
si discosta da una collaudata lezione: se il desiderio di alzare il
tiro per non deludere le attese è un’intenzione lodevole più che
nei bilanci, l’opera seconda non solo è inferiore ma risulta una
copia semi-sbiadita dell’esordio (del quale Carrisi reimpiega il
pattern
del gatto). Tralasciando che già il titolo odora di ripetizione, i
mattatori Servillo e Hoffman – qui anche produttori esecutivi –
assurgono a fili d’Arianna di due concezioni di mistero e verità,
e nel contempo a figure centrali di due blocchi narrativi (o se si
vuole, di due film in uno) destinati a non incrociarsi mai,
conferendo un’impressione di freddezza nella propria calcolata
suspense.
E se la cerebrale matassa si sbroglia nell’epilogo, permettendo a
entrambi i protagonisti d’incontrarsi per la prima e unica volta,
l’espediente delle scatole cinesi che incalzano e depistano come
una matrioska,
gigantesca quanto l’archivio delle persone scomparse incluso nella
vicenda e sui titoli di coda, è una soluzione troppo artefatta per
convincere sul serio; e il sedicente dottore-burattinaio non è forse
il continuum del Flores impersonato da Jean Reno?
Francesco Saverio Marzaduri
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