Quando non si trova (più) la via di casa: TUTTO IL MIO FOLLE AMORE
Quando non si trova (più) la via di casa: Tutto il mio folle amore
“Le cose, per il cinema italiano, devono andare davvero maluccio se nemmeno un premio Oscar
riesce a strappare unanimi consensi grazie al suo nuovo film”. Così
il compianto Giovanni Grazzini, nel recensire Sud
di Gabriele Salvatores, disaminava in poche
battute la crisi d’una produzione in cui l’ambizione, coniugata
ad un progressismo già a corto di fiato, non teneva il passo della
denuncia all’origine, e il coraggio delle intenzioni poco poteva
per nobilitarne l’esito. Se si considera quanto tempo e quanta
acqua sotto i ponti siano trascorsi da quel 1993, suona paradossale
che la situazione non solo non sia mutata ma paia sguazzare nel
proprio torpore creativo, abbarbicata a stilemi ormai artefatti in
cui pretesi voli d’autore, piccati per squarci poetici, si riducono
a raffazzonati velleitarismi. Coronamento d’una filmografia
iniziata trentasei anni prima, Tutto il mio
folle amore, diciottesimo lungometraggio di
Salvatores, si presenta come un bignami zeppo di troppa
cinematografia precedente in cui il marchio registico, per quanto
riconoscibile, non supera il déjà vu,
poggiando su caratterizzazioni, situazioni e cliché citofonati ancor
prima dell’avvio. Impiegando per l’ennesima volta il genere che
più gli è usuale, il road movie,
l’autore confeziona un Rain Man
all’italiana in cui la Valeria Golino già interprete del film di
Levinson si ritrova, a sua volta, madre d’un sedicenne affetto
d’autismo. E benché la sceneggiatura a quattro mani di Umberto
Contarello e Sara Mosetti trasponga un romanzo di Fulvio Ervas, che
documenta la vera storia del viaggio d’un padre e del figlio
autistico da Trieste lungo i Balcani, immediato è il paragone con
un’opera abbastanza recente di Gianni Amelio, Le
chiavi di casa, dove un padre spinto dal
rimorso di aver abbandonato il suo bambino affetto da patologia
neuromotoria sfruttava l’occasione di un viaggio a Berlino per
farne la conoscenza. In Tutto il mio folle
amore non è chiaro cosa induca il “Modugno
della Dalmazia” Claudio Santamaria, cantante di terz’ordine
truccato come il Mimmo nazionale, a rincontrare il figlio, ma non
pochi sono gli spunti che fanno dell’ultima fatica di Salvatores un cripto-riadattamento di
Piange... il telefono;
tuttavia, il legame affettivo che obbliga il giovane Vincent a
saltare di sottecchi sull’auto del padre, costringendolo a una
rocambolesca avventura inseguiti dalla madre e dal babbo adottivo, si
cela nell’omonimo brano di Don McLean (mitica sigla dello
sceneggiato tv Lungo il fiume e sull’acqua)
che Santamaria accenna all’ex consorte nel vano tentativo di
riavvicinarla, cui il figlio, individuando nel motivo l’affettivo
cordone ombelicale, risponde entusiasta. È in quest’elemento-chiave
che il marchio del regista si esplica meglio, come la scelta di
ripescare Pink Moon di
Nick Drake a mo’ di tenero contrappunto, mentre al navigato Mauro
Pagani si chiede di firmare la colonna sonora. Se la musica gioca una
componente di rilievo nella produzione di Salvatores, riportandola
ancora una volta sul binario della nostalgia, l’ingrediente non
basta a colmare novantasette minuti di prevedibilità: la fune con
cui Willy lega a sé Vincent, speculare nell’incipit alla briglia
con cui mamma Elena non riesce a tenere il ragazzo su un cavallo
(nonché metafora che si ripresenta, fra i due, sul traghetto
dell’epilogo), è una simbologia sin troppo ovvia nel proprio
disegno di rinforzo genitoriale. E il dialogo al computer tra padre e
figlio – in cui il giovane confessa quanto la voce gli impedisce, e
l’adulto si rilascia al pentimento – tenta la via del patetico ma
rischia il più involontario e controproducente umorismo. Altrettanto
infelicemente giocata è la carta del feticcio-Abatantuono, gigione
senza freni ed editore (improbabile) dai contorni freudiani. E se il
titolo viene dalla canzone con cui il “monnezzaro” Modugno apriva
e chiudeva il segmento pasoliniano Che cosa
sono le nuvole?, il tentativo di riproporre
modelli nobili ma vetusti non cancella l’impressione di un’operina
in odor di Kusturica fuori tempo, illustrata con paesaggi da
cartolina e movimenti di macchina leziosi (quando non lambiccati,
come le tende svolazzanti che rimarcano la vicinanza tra i forzati
compagni di viaggio) che talora, come nella parentesi della sala da
ballo, sembra perfino saccheggiare Bertolucci. Nessuno dice che non
si possa cucinare un buffet con avanzi e condirlo di aromi letterari
(per calmarlo, Mario legge a Vincent Storia di
Arthur Gordon Pym, il quale s’imbarcava
clandestinamente ritrovandosi a vivere una serie di disavventure);
c’è però da chiedersi quanto e se questo cinema, alla ricerca
d’un pubblico ancora ben disposto, necessiti di patetici espedienti
per conferire un barlume non tanto di coraggio – non essendo
l’ambizione quel che si rimprovera a Salvatores – quanto di
sincerità, nella gestazione di assunti che richiedono una maggior
sensibilità di tocco. Fine a sé stessa è la sgradevolezza di certi
dettagli (Vincent che ricopre il vetro della doccia coi propri
escrementi), mentre sa di fatuo l’immancabile, drammatica parentesi
sentimentale in cui il ragazzo “scopre” il contatto fisico con
una circense slava. Se non si pretende troppo, verrebbe voglia di
salutare Tutto il mio folle amore come
un prodotto coraggioso nello sposare la fiction a un arcinoto
paradigma, ma dato il nome del cineasta si è sempre più convinti
che talenti un tempo notevoli, bruciati dall’inflazione del
consenso, rivelino la propria caducità (l’amaro finale di
Kamikazen – Ultima notte a Milano,
il vero cult di Salvatores, la diceva lunga). E mentre all’esordiente
Giulio Pranno si chiede di nascondere un po’ meglio un overacting
la cui eco è il Di Caprio di Buon
compleanno Mr. Grape, chi scrive ricorda con
simpatia la tavola di Disegni e Caviglia che fin dal titolo
ironizzavano sull’opera di Salvatores, e sulla stessa vittoria
all’Academy, come Merito erroneo.
Francesco Saverio Marzaduri
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