Angeli in celluloide
In
acceso fervore natalizio, a meno d’una settimana dal giorno in cui
ognuno sarà, probabilmente, occupato a compiere la tradizionale
buona azione o a trascorrere la ricorrenza presso il focolare
domestico, l’occasione appare indicata per gettare uno sguardo a
una delle figure più iconiche di tale festività, tentando di
esaminarla nella poesia e nella grandezza che la Settima Arte le ha
riservato, proponendola (e riproponendola) ogni volta nelle varianti
più multiformi e originali. Tanto più nelle diverse correnti
pittoriche il topos angelico
ha mantenuto fedele il duplice ruolo di annunciatore e custode,
quanto più il cinema ha ritrasposto questi due canoni con
altrettanto esemplare fedeltà, trattando l’argomento in tutti i
generi – dal kolossal biblico
al fantastico, dalla commedia al drammatico, incluso persino
il thriller – generando una casistica entro cui la nuda e
semplice presenza del personaggio angelico finisce per influire sul
contesto della sua rappresentazione.
La
prima voce di tale casistica non può che abbracciare la più
classica funzione del personaggio, quella tradizionale di
annunciatore o messaggero: bastano a confermarla pellicole che si
attengono diegeticamente a un contesto di lettura religioso, quali La
Bibbia di
John Huston o Il
Vangelo secondo Matteo di
Pier Paolo Pasolini. Nel primo caso, la rilettura hollywoodiana dei
primi ventidue capitoli del Vecchio Testamento si sposa a una
messinscena mastodontica, producendo un’opera epica e spettacolare
nei suoi sfarzi quanto deludente nei risultati, nonostante alcuni
ottimi momenti di cinema. La stessa rilettura dell’episodio degli
Angeli sembra seguire fedelmente il testo sacro, e dunque la figura
angelica appare giustamente moltiplicata per tre, interpretata sempre
dal medesimo attore (Peter O’Toole), nell’atto di recare ad
Abramo (George C. Scott) l’annuncio della prossima, inattesa
gravidanza della moglie Sara (Ava Gardner), e successivamente a Lot
(Gabriele Ferzetti) la notizia che l’Onnipotente si prepara a
distruggere Sodoma. Meno ridondante nella rappresentazione, dunque
più scarno e toccante in quanto carpito nella propria immediatezza,
è il messo divino nel capolavoro di Pasolini1:
nelle sembianze della fanciulla Rossana Di Rocco, lo spirito assolve
la funzione in quattro distinti momenti, ad esempio per annunciare
alla Sacra Famiglia l’imminente
strage ordinata da Erode e la resurrezione finale di Cristo. Molto
più prossima alla fede e a una rigorosa aderenza del testo sacro, la
rilettura laica dei libri evangelici riesce grazie anche ad alcune
composizioni figurative, memori della pittura quattro-cinquecentesca
(da Piero della Francesca al Mantegna, da Masaccio a El Greco). Così
pure la scena finale, l’annuncio della resurrezione, è immortalata
in perfetta elegia estatica, priva degli orpelli dell’iconografia
tradizionale, dato un netto rifiuto dell’agiografia da parte del
regista, che con estremo rigore evita qualunque sospetto di
eterodossia o pretesto di scandalo.
Sia
nel primo sia nel secondo caso, l’angelo assolve pressoché
esemplarmente il compito che la tradizione ha prefisso alla sua icona
nel corso dei secoli. Al contrario, in un genere quale la commedia lo
spirito celeste è inserito a scopo di parodia, ma ciò che viene
messo alla berlina sono proprio i canoni – in qualche caso
addirittura ribaltati – imposti all’angelo da una tradizione
obsoleta. In una breve scena di Animal
House di
John Landis, l’angelo fa capolino in compagnia del suo antagonista,
il diavolo, nei rispettivi ruoli della buona e della cattiva
coscienza del collegiale Tom Hulce, indeciso se avere un’avventura
amorosa con una ragazza più acerba. Esempio anche più lampante
fornisce Amore
e guerra,
spassosa presa in giro della letteratura russa: condannato alla
fucilazione per aver complottato (benché maldestramente) contro
Napoleone, un malcapitato Woody Allen riceve la visita di un angelo
inviato da Dio, il quale lo avverte che beneficerà della grazia;
rasserenato, il Nostro affronta con la massima tranquillità il
plotone d’esecuzione, permettendosi atteggiamenti da vero
fegataccio, ma la fucilazione avviene – ahilui –
ugualmente.
Com’è facile intuire, i personaggi della
commedia parodistica, perlopiù ometti sfortunati e/o meschinelli,
sono teoricamente beneficiati della grazia salvo poi incappare, di
nuovo, nei contraccolpi d’una sorte avversa che proibisce loro di
godere delle mansioni celesti, esattamente come dei beni terreni da
vivi. Il paradosso vuole che la situazione nell’Alto dei Cieli non
si discosti molto da quella reale: in Fantozzi
in paradiso di
Neri Parenti, il ragioniere più iellato d’Italia – alias Paolo
Villaggio – perde accidentalmente la vita per ritrovarsi nelle
spoglie d’un immacolato spirito celeste, prima vessato da un
Onnipotente dispotico e, successivamente, ostaggio di un gruppo di
terroristi che dirottano l’aereo volto a trasportarlo in Paradiso.
Di fronte a un “dottor Buddha” che lo obbliga a tornare sulla
Terra mediante un sorteggio, il Nostro si ritrova così reincarnato
in un nuovo, piccolo Fantozzino (“Come sono fortunato, io…”).
In questo caso, al pari della desolante realtà quotidiana, i
privilegiati di un Aldilà in celluloide sono i furbi e i
superficiali, che più spesso la fanno franca solo perché
approfittano in tempo dell’occasione sfruttandola a proprio
vantaggio: a far spese delle loro magagne, ovvio, sono sempre gli
onesti. Nell’epilogo di Fracchia
la belva umana,
diretto e interpretato sempre da Parenti e Villaggio, è la “belva
umana” del titolo a trasformarsi in angelo, lasciando che ad essere
spedito all’Inferno sia il povero Fracchia. La satira sul costume
nazionale, che getta uno sguardo anche alle figure dell’attualità
più note del periodo, è al centro dello sfondo paradisiaco che
apre Fantozzi
– Il ritorno:
in coda per entrare nell’Empireo, il ragioniere è l’unico a
rimanere fuori dal cancello, pur essendo il primo. Perché, in
sostituzione di un Dio simil-berlusconiano nel promettere un milione
di posti inesistenti, arriva un D’Alema angelicato: il quale, al
motto gli ultimi saranno i primi, temporaneamente rispedisce il
Nostro sulla Terra a vivere un imprevisto stralcio di vita e, di
conseguenza, un’ulteriore sequela di sfortunate avventure. Senza
dimenticare, inoltre, Il
secondo tragico Fantozzi di
Luciano Salce, in cui l’angelo giunge sempre nei momenti in cui il
travet è preda di allucinazioni mistiche: in una scena, addirittura
l’Arcangelo Gabriele scende ad annunciare l’imminente gravidanza
del protagonista nei pressi di Agrigento (“Ma scusi, dottore, non
si era concordato Betlemme?…”).
L’Arcangelo Gabriele è
gustosamente parodiato anche nelle sembianze del “terrunciello”
Diego Abatantuono, in quello scombiccherato Carnevale firmato Renzo
Arbore ch’è Il
pap’occhio.
Ancora, nel secondo episodio di Tu
mi turbi di
Roberto Benigni, vedi caso intitolato Angelo,
gli individui (persino le sgualdrine) sono in compagnia dei
rispettivi angeli custodi, dai quali non possono separarsi.
Abbandonato dal proprio, battendo le strade per ritrovarlo, Benigni
lo rintraccia in un albergo, e si scopre che è un angelo di sesso
femminile. L’ometto la supplica di non lasciarlo, minacciando di
suicidarsi; lei gli rimprovera di essere noioso e, come non bastasse,
gli confessa d’essersi innamorata di un altro, che abita… Lassù.
Sul più bello si scopre ch’è un sogno del protagonista, il quale
però, al risveglio, ha accanto a sé nel letto una donna mascherata
da angelo con ali vere…
Il disegno dell’angelo quale
figura onirica non è nuovo, se si pensa a una scena de Il
monello:
il celebre vagabondo impersonato da Charlie Chaplin sogna che il
misero quartiere in cui vive è un Paradiso ove gli abitanti sono
figure angeliche, con tanto di ali, che vivono in serenità finché
un agguato di diavoletti non turba la loro quiete. Il paesaggio
paradisiaco del film di Chaplin e la sua atmosfera fiabesca e irreale
sono oggetto di rilettura in chiave goliardica nell’epilogo
di Monty
Python – Il senso della vita di
Terry Jones: in un Paradiso kitsch,
che fa il verso alle coreografie dei musical teatrali, lo stravagante
angelo Graham Chapman rammenta che è sempre Natale, e quindi
intona It’s
Christmas in Heaven parodiando
il popolare brano Beautiful
Dreamer.
Restando in argomento, figurano poi pellicole nelle quali l’immagine
dell’angelo si scontra con la provocazione, quando non con
l’abolizione di obsoleti tabù. Due feroci esempi forniscono i
siciliani Daniele Ciprì e Franco Maresco: per più d’un verso
memori della lezione di Pasolini, reinventando l’iconografia
angiolesca, si scontrano con la sua immagine tradizionale
abbattendola con uno humour decisamente black.
In uno short del
loro Cinico
Tv,
alle domande di un immaginario intervistatore fuori campo, un uomo
presenta il suo angelo custode come un “omm’e medda”: se qui
l’effigie in chiave sarcastica è soltanto corrosa, essa è
pressoché abbattuta in Totò
che visse due volte,
in cui lo spirito celeste perde la consona funzione di messo per
essere oggetto di violenza e sodomia.
I poli si amalgamano
inestricabili in contesti anche più ambigui se si pensa a L’ultima
tentazione di Cristo di
Scorsese, nel cui sottofinale un angelo dalle fattezze di bambina
annuncia a Cristo (Willem Dafoe) la salvezza da parte del Padre
Celeste. In questo caso, lo spirito che assolve il compito di
liberare Gesù dalla croce, accompagnandolo oltre la folla per
concedergli una vita da uomo normale, altri non è che il Maligno. Ma
non solo in ambito biblico il personaggio angelico è stato oggetto
di adattamento, bensì – si diceva – pure in chiave
fantascientifica: in Ultimatum
alla Terra di
Robert Wise, l’umanoide che atterra a Washington nel clima funesto
della Guerra Fredda, onde scongiurare il pericolo di un imminente
conflitto atomico, ha tutte le carte in regola per apparire come una
perfetta figura “angelica”. Senza dimenticare, negli anni
seguenti, l’alieno messianico di Incontri
ravvicinati del terzo tipo di
Spielberg, creatura pacifica la cui missione si riassume con la
possibilità di comunicare attraverso linguaggi non verbali, ma
musicali.
In molti degli esempi menzionati, l’angelo
svolge la propria funzione per conto di un Dio “datore di lavoro”,
quasi ricoprendo una mansione impiegatizia. In qualche caso, i
malcapitati “eletti” della situazione sono chiamati troppo presto
in Paradiso per colpa di una banale svista del travet celeste: ciò
costituisce lo spunto di commedie fantastiche quali L’inafferrabile
signor Jordan di
Alexander Hall e il rifacimento Il
paradiso può attendere di
Warren Beatty e Buck Henry.2 In
ambedue i film, il messo è uno sbadato dipendente del Paradiso, che
preleva anzitempo l’eletto in questione, salvo poi rispedirlo sulla
Terra per reincarnarlo nelle duplici sembianze di magnate e atleta
sportivo – nel primo caso un pugile, nel secondo un giocatore di
football americano. In un’altra commedia, Prossima
fermata: paradiso,
il neo-angelo Albert Brooks (qui anche regista) s’innamora perfino
della “collega” Meryl Streep: ma prima che questo avvenga, si
ritrova invischiato tra mille difficoltà burocratiche e processi
kafkiani, necessari ostacoli da superare per accaparrarsi un posto
dignitoso nell’Aldilà.
Spaziando da un genere all’altro,
questi medesimi pattern si
rintracciano in pellicole ove la mansione burocratica dell’entità
celeste la eleva ad arbitro, chiamato a stabilire la misteriosa
predestinazione dei personaggi; entità di tale carattere figurano in
melodrammi fantastici come Liliom di
Frank Borzage e in thriller a sfondo metafisico quale Una
pura formalità di
Giuseppe Tornatore. Nel primo film – come pure nel remake ad
opera di Fritz Lang, La
leggenda di Liliom,
entrambi tratti dall’opera teatrale di Molnár –
l’angelo-burocrate offre a uno sciagurato una possibilità di
riscatto spirituale concedendogli di tornare sulla Terra, allo scopo
di conoscere la figlia che non ha mai visto. In questo caso, esclusa
la variante del messo, a cambiare è l’ambiente in cui questi
agisce, che trasla in un quid a
metà strada tra l’ufficio amministrativo e la stazione di polizia.
Ciò è sottolineato con più insistenza nel rifacimento di Lang, che
“dà il meglio solo nelle scene del cielo, dove descrive il
Paradiso come un commissariato, con le stesse formalità burocratiche
e la stessa pignoleria”3,
quasi fosse un Limbo dantesco e l’angelo una sorta di giudice
Minosse. A rifletterci, affine è lo spunto alla base del film di
Tornatore, a metà strada fra il kammerspiel e
lo psicodramma: rivestendo una patina di misteriosa entità
spirituale, il commissario Roman Polański è raffigurato come un
giudice incaricato di tenere in stato di fermo lo scrittore Gérard
Depardieu, tempestandolo di domande, mettendolo “di fronte alle
contraddizioni, alle omissioni, alle pesanti responsabilità di
un’intera vita che si condensano in una possibile accusa di
omicidio”4;
la patina in questione si evince soltanto nel finale, permettendo di
capire il motivo di quel processo kafkiano estenuante nonché le
ambiguità del personaggio.
Nel cinema, la chiave fantastica
si rivela un’ottima maniera di dipingere l’angelo-travet nei suoi
compiti e ambienti. Semplicistica è la variante a disegni animati
che ne dà il Don Bluth di Charlie
– Anche i cani vanno in paradiso:
ancora una volta, l’angelo è un impiegato dell’Alto dei Cieli
nelle spoglie di una Levriera Celeste, che ricorda come il Paradiso
sia un luogo ove agli spiriti tutto è concesso. Anche il personaggio
del film di Bluth, il cane Charlie del titolo, torna sulla Terra per
compiere una buona azione, onde ottenere dallo spirito l’accesso in
Paradiso. Inquadrato come “dipendente celeste” di Dio, qualche
volta l’angelo cinematografico scende in
primis sulla
Terra, talvolta allo scopo di ottenere qualcosa, col risultato che
quasi sempre i suoi interventi modificano l’intreccio della
vicenda. La cosa si verifica in commedie di vario livello, dalle più
modeste come Due
come noi di
John Herzfeld a quelle meglio oliate, quale Michael di
Nora Ephron, sino a quelle d’impianto più solido e classico,
quale La
vita è meravigliosa di
Frank Capra. Il film di Herzfeld è un pallido tentativo di riesumare
la commedia angelica degli anni Trenta e Quaranta, “una specie di
slalom sulle piste del déjà
vu in
una commediola immoralista con recupero finale dei buoni
sentimenti”.5 L’incipit,
che ha luogo in un Alto dei Cieli da operetta, vede un gruppo di
angeli allo scopo di convincere il Padre Eterno del rinnovarsi del
miracolo dell’amore, prima di un secondo e imminente diluvio
universale: l’estrema chance è offerta a due giovani, il goffo e
fallito inventore John Travolta e l’impiegata di banca Olivia
Newton-John, entrambi non esattamente onesti, ma in fondo bravi
ragazzi. Il nugolo di angeli scende sulla Terra per controllarne i
rispettivi comportamenti, nel contempo difendendosi dai colpi bassi
dell’immancabile Diavolo (Oliver Reed), che non perde occasione per
metterci lo zampino.
Molto meglio la rilettura angiolesca
nella commedia della Ephron, originale soprattutto per la
rappresentazione del suo spirito celeste, l’esatto contrario di
quanto usualmente ci si aspetta dall’iconografia imperante.
L’angelo Michele si presenta in sovrappeso, tabagista, bellicoso e
curioso delle bizzarrie americane; oltre a ciò, mangia come un
troglodita, abborda ragazze nei locali e non disdegna di dispensare
qualche battuta fulminante (“Imparate a ridere. È una strada verso
l’amore. È probabile che in Paradiso ci si diverta meno”). La
neo-effigie calza a pennello con la costituzione robusta di quel
Travolta già interprete del film di Herzfeld e le cui spalle reggono
un’opera spesso non esente da pericolosi scivoloni. “A parte il
numero autoreferenziale del ballo, Travolta carica il personaggio di
una fisicità debordante, una innocente aspirazione e nostalgia per
la carne, che stupisce vedere espressa da chi si dovrebbe occupare
solo dello spirito”.6 Un’ulteriore
novità è che ad eseguire la “missione” non è l’angelo, ma il
reporter William Hurt, incaricato di verificare se l’oggetto
dell’indagine sia realmente uno spirito celeste: logicamente il
bandolo della matassa è sciolto nel finale, in cui la scoperta
rivela più d’una “miracolosa” sorpresa. La dimensione
fantastica in cui è calata la commedia della Ephron, la stessa di
altre pellicole sull’argomento, la si deve in buona misura al Capra
de La
vita è meravigliosa.
Qui,
un angelo di seconda classe determina il prototipo d’una lunga
galleria di messi celesti il cui compito è scendere sulla Terra onde
ottenere qualcosa in cambio; nel contempo, il fortunoso intervento in
extremis dell’inviato
celeste non poco influisce sui successivi esiti. L’angelo Henry
Travers fa la sua apparizione in sottofinale, quando lo sfortunato
imprenditore James Stewart sull’orlo della bancarotta “salva” a
sua volta lo spirito celeste dall’annegamento, all’uopo tuffatosi
nel fiume per impedirgli il suicidio; di fronte al protagonista,
comprensibilmente incredulo quando l’angelo gli rivela di essere il
suo custode, lo spirito gli mostra che inferno sarebbe la città
senza di lui, facendogli tornare la voglia di vivere e, quindi,
guadagnandosi le ali. A prima vista, la struttura narrativa
dell’opera sembrerebbe la solita ottimista di tanti analoghi film
dell’autore: questo finché non avviene il citato passaggio, che
rimette le carte in tavola e pone una diversa chiave di lettura, più
cupa e problematica. L’apparizione dell’angelo è posta in piena
luce dickensiana, essendo una variante dei tre fantasmi di Natale del
celebre A
Christmas Carol.
Stesso
spunto e stessa intertestualità sono ricalcati, quasi alla lettera,
nel prefinale di Mister
Hula Hoop di
Joel Coen: messo in difficoltà dai colpi bassi dell’astuto vice
Paul Newman, il giovane dirigente Tim Robbins tenta il suicidio
gettandosi dall’attico della ditta Hudsucker, di cui è direttore.
Rispetto a Capra, cui l’opera di Coen rimanda dichiaratamente, il
meccanismo della vicenda è più irreale: il protagonista non riesce
a togliersi la vita e resta sospeso a mezz’aria solo perché
l’addetto agli orologi dell’edificio ha fermato il tempo (“Voi
avevate un’idea migliore?”, è il laconico commento rivolto allo
spettatore). Detto espediente, originale quanto troppo consapevole
per suscitare ilarità, consente alla trama di avviarsi verso un
roseo happy
end,
accentuato dall’apparizione dell’angelo Charles Durning (già
messo celeste in Due
come noi):
lo spirito – che si rivela il fondatore dell’azienda, lui pure
suicida – scende all’uopo per rivelare al protagonista la
soluzione del problema, ma anche per deridere la sua ingenuità.
Volendo ricollegare Mister
Hula Hoop ai
succitati esempi, un angelo scende dal cielo per eseguire una
missione e il suo provvidenziale intervento ribalta la vicenda,
portandola a una conclusione inaspettata rispetto a quella prevista
dai personaggi (ma forse non dal pubblico). Tuttavia, se la favola di
Capra cela un sottofondo amaro, quella dei Coen opta per una chiave
di lettura surreale nell’utilizzo dell’iperbole quale figura
retorica, attraverso cui la conclusione è condotta allo scopo di
garantire la risata. Per tali motivi, il film appare un esercizio di
stile non privo d’una certa freddezza, ma irresistibile è
l’episodio in cui l’angelo arriva intonando She’ll
Be Coming Round the Mountain,
con tanto di banjo e aureola (“Ti piace questo coso? Lo portano
tutti Lassù, va di moda...”).
Curiosa, ma tutto sommato
frivola, è la variante offerta ne Il
barbiere di Rio di
Giovanni Veronesi, in cui l’angelo assume le sembianze candide e
vivaci della cantante Irene Grandi, che scende da un invisibile
Paradiso per vegliare Diego Abatantuono, lo sfortunato barbiere del
titolo. Inutile aggiungere che, sotto la protezione del femmineo
spirito, la vita del protagonista cambia in meglio quanto quella del
miliardario Dudley Moore in Arturo
2 on the rocks di
Bud Yorkin, insulso sequel del
fortunato Arturo:
sull’orlo del fallimento, il protagonista è salvato
dall’inaspettata apparizione dell’amico maggiordomo John Gielgud.
In entrambi i film, la missione “celeste” si giustifica con lo
scopo di avviare le vicende verso finali scontati (in Yorkin, poi,
l’apparizione angelica è un patetico tentativo di riesumare il
personaggio di Gielgud, morto nel prequel).
In tutte queste pellicole, l’intervento dell’angelo corregge
l’intreccio, oltreché le singole esistenze degli individui; la
sostanza non cambia se l’inviato celeste restituisce pace e
serenità a un intero ambiente. Tale è lo spunto di un episodio
di Ai
confini della realtà,
intitolato Il
gioco del bussolotto e
diretto da Steven Spielberg, dove l’angelo protagonista è
addirittura di colore e ha il volto di Scatman Crothers – pure lui
“impiegato” per conto di Dio in Due
come noi.
La funzione del Nostro, camuffato da anziano signore, è riportare la
perduta serenità in un ospizio (luogo di emarginazione e malinconia
per antonomasia), restituendo ai mogi vecchietti l’allegria
fanciullesca del gioco e la voglia di vivere. La magia dell’angelo
trasforma i pensionati in autentici fanciulli, sebbene le conseguenze
e i problemi dell’infanzia si facciano presto sentire: meglio
accettare la realtà e restare bambini nel cuore, sia pure in un
corpo segnato dal tempo, ma “con una fresca e giovane mente”.
Nonostante qualche inevitabile concessione al patetico, ancora una
volta, l’episodio si ricorda per il disegno di quell’angelo
portatore d’una saggezza malinconica unita a irriducibile gioia
(“Per giocare non si è mai troppo vecchi”): secondo le parole
dello spirito, la fanciullezza non può vincere un destino crudele
quanto naturale, essendo nell’ordine delle cose. L’angelo è
l’unico a non trasformarsi in fanciullo, rimanendo tale nel corpo
di un adulto, ma ugualmente esaudisce il desiderio dei vecchietti di
tornare giovani, allo scopo di far loro capire quanto ingiusto e
assurdo sarebbe arrestare il tempo e le sue regole. Lo spunto del
segmento non si distanzia molto da quello di Cocoon
– L’energia dell’universo di
Ron Howard: un gruppo di arzilli vecchietti riacquista le forze e
l’ardore della giovinezza, ma non per l’intervento d’uno
spirito celeste quanto di alcuni bozzoli extraterrestri, piazzati
nella piscina del loro pensionato. A ben guardare, gli alieni
appaiono un’allegorica presenza angiolesca le cui sostanze
permettono al gruppo di vegliardi di ringiovanire: nel finale, su
invito dei loro angeli custodi i protagonisti partono per lo spazio,
a loro volta tramutandosi in presenze angeliche. Com’è facile
intuire da questa pellicola, la figura dell’entità celeste non
risiede soltanto in un’entità tout
court ed
è, anzi, possibile ribaltarne la formula.
Anche un
terrestre in carne e ossa può diventare uno spirito, che anziché
salire tosto in cielo, rimane sulla Terra – col permesso,
beninteso, del Padre Terrestre – per eseguire una missione, in modo
da garantirsi l’accesso in Paradiso. Un esempio fornisce ancora
Spielberg con uno dei suoi titoli meno riusciti, Always
– Per sempre,
la cui trama ruota attorno al pilota di aerei antincendio Richard
Dreyfuss che, per salvare l’amico John Goodman, rimane lui stesso
vittima di un rogo. Ma anziché salire in Paradiso, preferisce
restare sulla Terra per fare da angelo-istruttore al giovane e timido
collega Brad Johnson, onde consentirgli di consolare la propria
vedova Holly Hunter. Come molte altre opere menzionate, il film di
Spielberg non è che il dichiarato remake al
saccarosio di un classico anni Quaranta, Joe
il pilota di
Victor Fleming. Identica è la vicenda: il pilota di guerra Spencer
Tracy muore in azione, ma gli è concesso di ritornare sulla Terra;
invisibile a tutti tranne che alla sua donna Irene Dunne, pure
pilota, il neo-angelo la aiuta a trovare la felicità con un altro
uomo. Se la differenza tra le due versioni non risiede nella bravura
degli interpreti, quanto nella messinscena, il film di Fleming ha la
sua carta vincente nel copione di Dalton Trumbo, che riesce abilmente
a fondere propaganda bellica e melodramma sentimentale. Ma ciò che
in quest’opera determina un contenuto già di per sé mieloso, la
variante spielbergiana rende anche più difficilmente sostenibile a
causa d’un eccesso di buoni sentimenti.
In fatto di titoli
e ricalchi, occorre spendere qualche parola anche per La
moglie del vescovo di
Henry Koster e il suo odierno riadattamento, Uno
sguardo dal cielo di
Penny Marshall. Anche in questo caso, spunto e risvolto sono i
medesimi: nella prima (e migliore) versione, il vescovo protestante
David Niven è in difficoltà perché deve badare contemporaneamente
alla bella moglie Loretta Young e alla danarosa vedova Gladys Cooper,
che potrebbe finanziare la nuova chiesa; ad accorrere in suo aiuto è
l’aitante ed efficiente angelo custode Cary Grant. La commedia di
Koster rientra nella categoria dei prodotti edificanti, frivoli e
garbati tipici degli anni Quaranta, di sapore natalizio e datati dal
tasso di zucchero presente in essi, ma riscattati dalla prova degli
attori. Piuttosto deludente il remake della
Marshall, la cui unica curiosità risiede non tanto nel pizzico di
finta malizia inclusa, quanto nel ribaltamento della scelta di campo:
tale rifacimento è all
black con
tutte le conseguenze politically
correct del
caso (sia l’angelo che il cattivo sono neri), e se il ruolo ch’era
di Grant è ricoperto da Denzel Washington, in quello della futura
consorte del vescovo è la cantante Whitney Houston, che firma anche
una colonna sonora invadente e decisamente soporifera, cui si
aggiunge la presenza di un’altra rockstar di colore, Lionel
Richie.
Le osservazioni circa prototipi, rifacimenti e
saccarosio utilizzato nelle rispettive circostanze vale anche
per City
of Angels – La città degli angeli di
Brad Silberling, remake de Il
cielo sopra Berlino di
Wim Wenders, forse la pellicola più ricordata sulla figura
dell’angelo; in entrambi, fa capolino un ribaltamento della formula
(la divinità celeste si trasmuta in semplice mortale) e una diversa
interpretazione. Il film di Wenders è scindibile in due parti
contrapposte, la prima delle quali abbraccia un’intera galleria di
episodi che vede protagonista una figura di angelo in particolare,
Damiel (Bruno Ganz): il desiderio impossibile di aiutare gli umani,
l’innamoramento per la trapezista Solveig Dommartin, la scelta
d’immolare la propria celestialità, la conseguente trasformazione
in uomo per restare accanto all’amata. Di più scarsa rilevanza è
la seconda parte, che concerne la sorpresa di Damiel nell’apprendere
come anche il noto tenente Colombo dei tv-movie,
al secolo Peter Falk, abbia un passato di spirito celeste: il
neo-mortale comprende come dietro ogni umano si celi un’entità
angiolesca. Del film di Wenders, il rifacimento di Silberling coglie
soltanto l’aspetto meno interessante e più tedioso, l’amore
dell’angelo per la ragazza e la conseguente scelta di essere uomo
per lei. Quale sfondo di City
of Angels,
la scelta di Los Angeles in luogo di Berlino è l’unica idea
vincente di quella che, in ogni fotogramma, ha tutta l’aria d’una
volgarizzazione commerciale de Il
cielo sopra Berlino:
se Damiel è invisibile fuorché forse ai bambini, per contro
l’angelo Nicolas Cage del riadattamento si fa visibile a tutti, fin
dalle prime scene. Poco interessa che l’ex angelo Dennis Franz, che
pure ha scelto di essere uomo per amore, riesca a comunicare col suo
“collega celeste” (in Wenders, la medesima scena illustra Peter
Falk che dialoga con Damiel-Ganz). All’autore sembra interessare
soltanto la storia d’amore tra l’angelo e la giovane dottoressa
Meg Ryan, senza in realtà crederci troppo, accentuandola con
patetici guizzi di new
age e
avviandola verso una conclusione tragica quanto ridicola. Lo stesso
nugolo di angeli custodi che s’intravede nell’incipit, emana più
un’aria vampiresca che beata.
Pur nella sua ridondante
lunghezza, ben altro spessore reca il film di Wenders: si pensi alla
prima, straordinaria parte in cui Berlino è immortalata in
soggettiva e dal punto di vista dell’angelo, in modo da trasmettere
all’osservatore la sensazione del volo, quasi rivestisse lui
medesimo un ruolo di puro spirito. Nella seconda parte, l’opera
sembra smarrirsi in un percorso pretenzioso, che mira a proporsi
poetico a tutti i costi, ostentando un sentimentalismo superficiale
quanto irritante. Ma se si vuole, anche nella storia d’amore tra i
personaggi è possibile scorgere elementi che rimandano a una chiave
di lettura angiolesca: la trapezista è abbigliata da angelo, e
l’intervento di Damiel nella vicenda si sposa con la scelta di
trasformarsi in umano per essere amato dalla donna. Eppure, “il
tentativo di riflettere sul destino dell’umanità (...) svela tutta
la debolezza ‘filosofica’ di Wenders”.7 Analoga
vicenda è riproposta in Così
lontano così vicino, sequel de Il
cielo sopra Berlino,
con i medesimi attori negli stessi ruoli. A dispetto del prequel,
la vicenda ruota sull’angelo Cassiel (Otto Sander) che come l’amico
Damiel, sceglie di trasformarsi in uomo per salvare una bambina. Nel
frattempo, Berlino è cambiata dopo la caduta del muro, e il
neo-umano finisce ingenuamente nel giro del gangster Horst Buchholz
sulla via del pentimento, che traffica in armi e filmati porno.
Laddove felice è la conclusione del primo episodio, tragico è
l’epilogo del sequel:
vittima di un incidente, Cassiel muore dopo aver fatto del bene anche
come uomo. Nel secondo capitolo della saga angelica wendersiana, in
particolare, l’entità celeste è in compagnia del suo antagonista,
il diavolo.
Un’ultima variante sul personaggio-angelo
giunge proprio dalla contrapposizione fra queste due figure
ultraterrene, volte a modificare gli intrecci delle vicende con
inevitabili incontri-scontri, e di nuovo lo spunto in oggetto è
frequentato dalla commedia, spesso leggera: un esempio si ritrova nel
citato Animal
House ove,
nondimeno, ambedue le figure antagoniste sono utilizzate per definire
lo stato d’animo di un personaggio, poste come sono in un contesto
comico singolo, senza avere un’influenza nei successivi sviluppi
della narrazione. Per contro, due esempi più attinenti
forniscono L’angelo
e il diavolo di
Mario Camerini e Un
piede in paradiso di
E.B. Clucher: nel primo, lo spirito celeste e il suo nemico fanno
capolino già nel titolo, benché un vero e proprio peso abbiano
anche nella vicenda. Per la verità, la prevalenza è concessa più
che altro al diavoletto Enzo Biliotti, la cui influenza determina la
crisi nel ménage di
una coppia; all’angelo Aldo Silvani spetta il compito di riportare
l’ordine e il benessere facendo il proprio ingresso, come da
copione, nel finale. Tese a contendersi l’esistenza di un
individuo, entrambe le figure si ritrovano ad assolvere la “missione”
anche nel film di Clucher, ai danni del malcapitato taxista Bud
Spencer: in questa circostanza, la sola novità risiede in un pizzico
di malizia, essendo l’angelo l’occhialuto Thierry Lhermitte, e il
diavolo la bella e procace Carol Alt.
Francesco Saverio Marzaduri
2 A prima vista, Il paradiso può attendere può ricordare anche Il cielo può attendere, ma il paragone si arresta alla semplice somiglianza dei titoli: nel film di Lubitsch, nonostante la presenza di un’entità indecisa circa la decisione di spedire un dongiovanni in Paradiso o all’Inferno, l’angelo in oggetto appartiene più al secondo ambito che non al primo.
3 MEREGHETTI, Paolo: Dizionario dei film 1998. Milano, Baldini&Castoldi, 1997. Pag. 1036.
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