La solitudine al potere: HAMMAMET

La solitudine al potere: Hammamet 


Quello che non ho è un orologio avanti 
per correre più in fretta e avervi più distanti 
quello che non ho è un treno arrugginito 
che mi riporti indietro da dove son partito...” 
FABRIZIO DE ANDRÉ 

Non sappiamo se Gianni Amelio abbia visto a teatro Una notte in Tunisia, in cui Andrée Ruth Shammah, inscenando un testo di Vitaliano Trevisan, chiedeva ad Alessandro Haber di calarsi nel ruolo del controverso leader del PSI nei suoi ultimi giorni di vita, immerso nella solitudine d’una figura dubbiosa, tormentata e isolata, mentre cala il sipario sulla sua esistenza. Si può tuttavia pensare che il sensibile e intelligente cineasta calabrese conosca I Giacobini di Federico Zardi, in cui l’effigie di Robespierre si trincerava dietro la paura d’un capo politico angosciato all’idea di sciupare i principi alla base della Rivoluzione, e dove venendo a mancare il concetto d’idealismo – non solo origine d’ogni movimento ma idea stessa dell’umana identità – i nomi di punta del periodo storico non erano pronunciati neppure una volta. Come in Hammamet, ultima fatica di Amelio, in cui il nome di Bettino Craxi non è mai menzionato (ci si limita a una C declamata dal secondogenito), e in cui per questioni di privacy gli altri personaggi, familiari e membri del Partito, recano nomi cambiati. Dal pulpito in cui, in pieno fervore congressuale, il leader è applaudito con calorosità al 45° raduno sui finanziamenti illeciti, su cui il film s’apre ancor prima dei titoli di testa, il regista – qui anche sceneggiatore con Alberto Taraglio – conduce lo spettatore nel retiro d’una villa tunisina (quella vera, all’uopo messa a disposizione) verso cui corre un gruppo di ragazzini: televisione sintonizzata su alcuni classici che rammentano la cinefilia di Amelio (riconoscibili Mann, Sirk, Tourneur), lo spavaldo condottiero di qualche anno prima ne è ormai la pietosa ombra, immortalata di spalle e claudicante su un bastone, la gamba sanguinante e a rischio cancrena. Il ritratto offerto da un camaleontico Pierfrancesco Favino, reso indistinguibile da un impressionante make-up che lo rassomiglia a Craxi perfino in voce e posture, è un Capitano Achab divorato dalla balena della propria ambizione e dall’ego, creatura infetta e senza pace indotta a tirar le somme di quell’impero che s’è servito di lui e – come sentiamo dire – vittima di sé stesso e di una hybris smisurata. Accompagnato dai guardaspalle che sempre lo pedinano tra le vie di Tunisi, con la dimora in cui alloggia cinta da militari, questo Bettino è tallonato, sino a una frustrazione implosiva, da uno scrigno di scomode verità, errori e colpe che, conscio di pagare di persona ogni giorno, persiste nel rinfacciare ai nemici (il segmento in cui allarmato rifiuta l’amputazione, occasione per sfogarsi verso chi lo accusa di “latitanza dorata”). Amelio però non intende, qui, fare il punto su qualcosa di oscuro, probabilmente destinato a rimanere in parte tale; se nota a tutti è la facciata pubblica anziché quella privata, più intima e sofferta, la dimensione tra il Prima e il Dopo d’un personaggio corroso dalle posizioni porta l’autore a scegliere quella che, forse, è l’unica confacente modalità per descrivere la Passione: una sorta di tragoedia nei cui anfratti il Presidente – come viene unicamente chiamato nel film – si muove alla maniera di un re shakespeariano, trono e precipizio al di là di esso, murato dalla paranoia di scorgere presunti paparazzi, non recalcitrante di fronte a una folla di turisti siciliani che nel riconoscerlo gli danno del ladro e chiedono dove abbia occultato il “tesoretto”. Attorniato da “amici”, opportunisti ed ex amanti, che continuano ad affiancarlo per irrinunciabile comodità senza molto curarsi del suo Golgota, il Nostro decide di lasciare un’enigmatica eredità a un giovane sbucato di nascosto nella magione; all’inatteso ospite – figlio del segretario Giuseppe Cederna, presunto suicida, che inutilmente tenta di mettere in guardia il leader sugli sviluppi in patria – il protagonista regala una confessione filmata destinata a tornare in seguito per ragioni da non proferire: null’altro che una proiezione introspettiva del Craxi inedito, irta di misteri e scheletri, nella misura in cui quel figlio putativo, in realtà invenzione di fantasia, è il fantasma dei suoi supplizi: un Bruto forse intenzionato a uccidere un potenziale Cesare (come lo zaino che porta sempre appresso suggerirebbe), ribadito dalla parentesi del tête-à-tête vicino ai carri armati in cui un eccesso di teatralità tradisce una sola volta le pause di Favino versus la (non) recitazione d’un allucinato Luca Filippi. In un’opera di caratteri prima che d’inchiesta, apologo intriso di parole che pur necessarie dominano sulle immagini, l’imparziale sguardo indagatore di Amelio rivela la congeniale sensibilità in una duplice descrizione paterno-filiale, origine dell’astiosa gelosia che la primogenita prova per l’intruso (si chiama Fausto, come il giovane interprete d’un altro titolo del cineasta sul legame affettivo, Colpire al cuore) e da lei stessa confessata nell’epilogo, non riuscendo a salvare il padre da vivo a differenza di chi ambiguamente “vendica” il genitore defunto. L’insistito uso di primi piani non s’arresta all’antitesi generazionale, disserrandosi in tutti gli episodi in cui, bambino spaurito e angosciato dalla morte, il Presidente in lacrime si denuda con la propria Elettra, intenta a sbarbarlo o ad ascoltarne i sogni premonitori; e per amore, solo per amore la riluttante giovane consente a un padre sempre più crucciato d’incontrare un’ultima volta la procace amante Claudia Gerini, appositamente sbarcata a Tunisi (in sottofondo si ode Vorrei incontrarti fra cent’anni di Ron, dal cui repertorio il rampollo di Craxi intona alla chitarra Piazza Grande per commuovere il babbo). Pure, la sfera fanciullesca concerne il rapporto, in odor de Il padrino, tra il protagonista e il nipote che gioca ai soldatini sulla spiaggia, con cui il primo si diverte a riesumare l’amato Garibaldi battezzando Anita la figlia, canticchiando il celebre stornello e collezionandone i cimeli, berretto rosso compreso (da segnalare che Hammamet è nato a mo’ di controproposta al produttore Agostino Saccà, intenzionato a realizzare un biopic su Cavour). E tuttavia nella dicotomia tra il futuro uomo politico che – ragazzino ancora – si diverte a fiondare i vetri del collegio cattolico dove cresce, e quello saturo e consapevole di aver alimentato un tronfio sistema di corruzione morale e generalizzata, non si vanifica la tracotanza caratteriale camuffata da sobria diplomazia, secondo cui l’intelligenza, arma a doppio taglio, è preferibile alla lealtà degli stupidi. Costantemente pronto a porgere il fianco a mo’ di provocazione (la citata schermaglia coi turisti, eco dell’episodio dell’Hotel Raphaël) o a elargire una vanità di superficie che non cela l’ambigua sfumatura (i piatti di pasta chiesti di nascosto per gli ospiti, dai quali avido ruba forchettate evocando rimpasti e “magna magna”), e nondimeno vanificato da un eremo cui né la tivù caciarona né la golosità per gli amati e proibiti dolci offrono rimedio. Luci sfolgoranti nella luminosità diurna, contrastanti con la penombra d’una fine imminente e solitaria, fanno il resto; eppure, Hammamet è un lavoro in cui i discrepanti piani del personaggio Craxi (quello divulgato dai media, quello privato e di facciata, quello più riposto, sedicente altruista e voglioso di snocciolare la sua verità), in identico numero dei finali che siglano il prodotto, si dipanano in un’agiografia dove l’impronta documentaristica non sempre concorda con lo stile ad inchiesta dei cineasti passati, da Rosi a Damiani, per quanto esente da didascalismi o manierismi. L’impressione è che Amelio abbia tenuto conto del recente Bellocchio de Il traditore (e non solo per la scelta dell’interprete), serbando inalterati i propri luoghi canonici: ma quel che manca è il coraggio di andare fino in fondo nella restituzione di un’ambiguità che non aggiunge granché, negli esiti, a quanto si conosce della figura al centro; inevitabile l’obbligo dello spettatore di misurare l’opinione, condiscendente o sprezzante, con una materia scottante quanto scomoda. Nemmeno è ciò che interessa all’autore, cosciente che l’aspirazione all’ambiguità incappi, oltreché nel punto di vista dei familiari, in quel registro emotivo ove la mano registica è riconoscibile meglio che nel resoconto cronachistico; e mentre Il divo di Sorrentino è sorretto da un’imperturbabilità grottesca, che gli consente di stare al di sopra d’ogni sospetto e responsabilità, la maschera del Presidente è scissa tra il rimorso e, nonostante il servizio recato al Paese, la vergogna dell’etichetta d’impostore. L’esito si biforca tra il patetico e il distante, senza prese di parte e senza impedire, a qualche concessione narrativa, ingenuità e stecche, inclusi usuali onirismi felliniani (ormai frequenti in questo tipo di confezione) attraverso i quali Amelio saluta un Omero Antonutti all’ultima apparizione, nel ruolo del padre del protagonista sul duomo di Milano (sogno che rimanda a un altro sogno, quello della madre del Pirandello da lui interpretato in Kaos dei Taviani). Scalzo tra le guglie, sciarpa intorno al collo, il Presidente torna allo spettro di sé stesso, mariolo sui ceci apostrofato da un prete come “malfattore, maligno, maledetto”, e subito dopo agonizzante in carrozzina, dileggiato da un irrisorio show tv di lynchana rimembranza. Prima che le troppe scale d’una rampa, nell’immagine conclusiva, segnino il recondito distacco dal personaggio, dalle verità condivise con un sibillino onorevole (un ottimo Renato Carpentieri) e dal non sapere cosa l’attende dopo la morte. Fischia il sasso. 

Francesco Saverio Marzaduri

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