Kirk, la star senza paura
Kirk, la star senza paura
“Per raggiungere un obiettivo devi essere abbastanza coraggioso da fallire.”
KIRK DOUGLAS
KIRK DOUGLAS
Non
si scappa. Per ogni cinefilo, anche non specialista del milieu hollywoodiano,
ripensare a Kirk Douglas comporta rituffarsi a caldo in
quell’entourage
dalla
superficie dorata e dagli allettanti tentacoli, in cui è faticoso
non lasciarsi tentare dal fiabesco. E,
va da sé, fingendo di non sapere che zucchero e panna in superficie
nascondano una più amara e all’occorrenza velenosa sostanza.
L’occasione per farlo è adesso. Ora che l’ultimo dei leoni della
vecchia guardia ha passato definitivamente la mano, superando il
secolo all’età di 103 (l’unica ancora vivente è Olivia de
Havilland, più anziana di cinque mesi), senza dar torto all’opinione
generalmente più diffusa in questi casi: l’immortalità non è
talvolta un’utopica concezione. Un’occasione d’oro giacché
ripensare a Douglas, alla sua indimenticabile maschera spavalda e
spaccona – dunque perfetta per confezioni di genere
dall’avventuroso allo storico, al mitologico – comporta un
altolà. Chi ritiene che quella fisionomia da egocentrico fegataccio
costituisca un unicum
con
la solita opinabile ideologia
all
american,
deve presto ricredersi ragionando in termini di contraddizione del
sistema – e a testimoniarlo basterebbero le assidue discussioni col
“Duca” John Wayne, suo partner in quattro pellicole. Certo, al
culmine della carriera, neppure Douglas si è esentato dai capricci
innescati dai parametri del System:
celebri gli aneddoti sulla lavorazione di Spartacus,
prodotto dall’interprete, che litigò col regista inizialmente
sotto contratto, Anthony Mann, per poi licenziarlo e sostituirlo col
giovane Kubrick, del quale aveva testato il grande talento accettando
di recitare in Orizzonti
di gloria.
Ma l’accennata contraddizione trova fondata radice nella coriacea
caparbietà del divo a riabilitare (e tenersi ben stretto)
l’ostracizzato nome dello sceneggiatore Dalton Trumbo, sino allora
marchiato dal maccartismo, facendolo comparire dopo anni nei titoli
di testa del kolossal.
Facile intuire come tale smentita non sia frutto del Caso, e
ripensando alle prove di Douglas lungo il decennio Cinquanta,
probabilmente il migliore d’una proliferante filmografia, foga e
passione ben si abbinano all’operazione-pamphlet
tesa
a denunciare i contrasti a stelle e strisce. Sicché il cinico
cronista a caccia di scoop, che trasforma una missione di salvataggio
in una sfarzosa mega-parata, o l’ineffabile tycoon
deciso
a realizzare il film del rilancio, disposto a servirsi di chi ha
troncato ogni rapporto con lui essendosi lui già bassamente servito
di loro, risultano aspetti comparabili di un’identica frenesia
paradigmatica, carente di scrupoli e pronta all’altrui sacrificio,
all’occorrenza non privo di vittime, pur di raggiungere l’eternità
del successo. Impossibile non distinguere la presenza della star dai
citati libelli, proprio perché la sua magna invadenza, di titanico
sapore wellesiano, è il turbo nel quale si concentrano egoismi e
meschinità del mondo di cui fanno parte. Non sono gli unici casi in
cui l’intensità di Douglas sfodera articolate sfaccettature tutte
diversamente venate di rabbia, e, benché non insensibile ad ambigue
caratterizzazioni in B-movies
di
classe, i ruoli da indomabile ostinato che non arretra dinanzi a
nulla sono i meglio impressi nella memoria collettiva. Ciò non
significa che l’antieroe irriducibile, da Il
grande campione a
L’uomo
senza paura,
vada stretto a una sfera intimista e dolente, non esente da tratti
autobiografici: lo dimostrano la personificazione di Jim O’Connor
nella trasposizione de Lo
zoo di vetro,
o il prestigiatore sopravvissuto alla Shoah de I
perseguitati.
E nel ritratto di Van Gogh, offerto per Minnelli, la contaminazione
tra lacerazione interiore e luce estatica, in precario equilibrio tra
via di Damasco e baratro della follia, è pressoché perfetta, fatta
eccezione per qualche iconografia o vezzo di troppo, come da usuale
standard hollywoodiano. Il western è il genere che più s’addice
alle corde dell’attore, consentendogli di alternare ruoli da
irresistibile villain,
incallito giustiziere o pentito cacciatore di indiani, e
inevitabilmente confrontarsi col mito della frontiera. Ma in Solo
sotto le stelle,
malinconico apologo sulla fine d’un
mondo, all’effigie
del cowboy tutto muscoli si sovrappone il
suo amaro bilancio su quanto ha vissuto e come, e su quanto gli
resta, tra il classico Prima e il crepuscolare Poi (“gli audaci
sono soli”, declama il titolo originale). E un’altra
bella parabola, Quattro
tocchi di campana,
una decina d’anni dopo presenta una duplice variante d’epilogo.
Reboot
al
contrario de Il
bruto e la bella,
Due
settimane in un’altra città
restituisce
una seconda possibilità a chi, facile pedina di esistenziali
debolezze, reitera i medesimi errori e – parafrasando l’omonimo
sottostimato film di Kazan – il compromesso
della
circostanza permette una psicanalitica disamina in cui il flusso
della memoria assurge a motore. Se dai primi anni Settanta in avanti
la galleria di personaggi offerti da Douglas via via si dirada, la
scelta di limitare le apparizioni sul grande schermo è ripagata da
un’influenza patriarcale non meno invasiva e appassionata, in
particolare sul primogenito Michael, e dalle campagne umanitarie
condotte attraverso i media, talora coronate da trionfo. Ma anche in
prodotti bellici o spionistici, dove il ruolo rivestito non
necessariamente collima con un’istintiva empatia, il principio è
fattore-cardine cui sprezzante tener fede sino in fondo, con ogni
mezzo necessario, bastevole a dare dei tanti sguardi del divo un fil
rouge
idealista
senza concessioni. Perfino a prova di tempo, rimettendo in gioco il
proprio sex
appeal senza
scalfirlo (pensiamo al fracassone Fury)
o giocandoci burlescamente sopra (il bizzarro I
cinque volti dell’assassino).
Così, chi scrive non può non restare ancorato all’icona del
colonnello Dax, forse la prova più completa di Kirk, nel proprio
strenuo, vano tentativo di salvare dalla fucilazione i tre soldati
scelti dall’accusa di codardia. Ruolo che in un certo senso
si trova a replicare ne
La
città spietata –
e
il cui nome anagrafico, Steve Everett, è curiosamente ripreso anni
dopo dal giornalista Eastwood in Fino
a prova contraria.
Chi non s’abbandonerebbe alle lacrime quando quel magnifico
ceffo da galera fa
sì che al plotone si conceda un ultimo momento di universale
fratellanza? Una ragione, nel suo tutto, per cui l’Olimpo dei
giganti gli spetti di diritto.
Francesco
Saverio Marzaduri
Commenti
Posta un commento