RICHARD JEWELL, (anti)eroe dei nostri tempi
Richard Jewell, (anti)eroe dei nostri tempi
CLINT
EASTWOOD
Consapevole
dei pochi calendari ancora a disposizione, il novantenne Clint
Eastwood innesta, nei suoi ultimi lavori da regista, un quid
che sfugge ai più, ma a ben guardare lucidamente inerente col
proprio percorso esistenziale, in cui una sospirata saggezza concilia
con un cerchio della vita prossimo all’epilogo – e pazienza se
negli States, e non molto più diversamente da noi, l’esito al
botteghino è inferiore alle aspettative. Come ne Il
corriere – The Mule,
uscito subito prima, anche in questo trentanovesimo lungometraggio,
Richard
Jewell,
si coglie una sensazione di graduale risveglio
che collima con una progressiva e faticosa maturità, conseguita non
senza incagli. Spunto che, immediato, rinvia alla filmografia New
Hollywood, dalla quale lo stesso cineasta di San Francisco in certo
qual modo discende; eppure, se gli archetipi all’origine
sono – e rimangono – quelli del cinema classico americano, basta
leggere tra le righe della sceneggiatura (ad esempio quando Billy Ray
riadatta un articolo di Marie Brenner) per scorgervi un’educazione
sentimentale che, da improvvisata, si delinea strada facendo. Perché
anche un’ignominiosa pagina di diffamazione cronachistica torna
succulenta occasione per una potenziale ricostituzione familiare,
dove un demiurgico angelo attempato appare non (sol)tanto quale
ancora di salvezza quanto idealista personificazione di cui
l’America, specie quella trumpiana, si fa portavoce. A parole.
Sicché
la ballata-pamphlet
suona tragicomico sberleffo all’odierno andazzo demagogico,
tutto chiacchiere e
distintivo, che, esaltando un sistema garantista pronto a
pavoneggiarsi dietro occasionali eroi, etichetta come individuo
sospetto chi non sia degno d’indossare (secondo un ben definito
punto di vista) l’uniforme di tutore della legge. Peggio ancora se
l’eroe, trasformato in terrorista, è un freak:
ovvero, riutilizzando il famigerato pregiudizio, un perdente. Non a
caso l’effigie di Trump fa capolino dall’identico
schermo tv origine del misfatto, antiteticamente speculare a quella
del vero Jewell intervistato dopo aver impedito l’attentato.
L’indice di Eastwood, dunque, è puntato contro l’inattendibilità
dei media, palmare metafora bigger
than life del
giustizialismo e delle proprie trame oscure. Nient’altro. Lasciamo
perdere le ambigue spigolosità, ricercate o meno a bella posta, che
la confezione potrebbe manifestare al solito, a rischio di essere
interpretata quale ennesimo insidioso manifesto ideologico – come
peraltro suggerirebbe lo schizzo della working
girl su cui si
concentrano tutti i difetti (sessisti), e di fatto dipinta come la
solita cronista d’assalto, priva di etica e scrupoli. Non mancano,
beninteso, passaggi magistrali, incluse le scene che preludono al
ritrovamento della bomba, in un dosaggio semplicemente ineccepibile
di ritmo, dilatazione dei tempi, inquadrature, montaggio, commento
sonoro. In un apologo incentrato su un caso d’ingiustizia
mediatica, l’autore – non nuovo all’impiego di figure reali che
intercedono sugli interpreti conferendo un autentico parallelo
vérité-leggenda
– mira a far chiarezza nel disegno d’una creatura solitaria, dai
contorni simil-hitchcockiani e, benché non del tutto innocente, in
grado di sbugiardare il Paese in cui fieramente afferma di credere,
senza lasciarsi abbindolare da colpe che la stessa nazione è
incapace di confessare, e i cui valori non sono ormai che paraventi.
La
citata ricerca d’una salvifica paternità fa il paio con uno
sdoppiamento di caratteri: l’antesignano dell’antieroe
nichilista, incarnazione del prototipo eastwoodiano, offre due pesi e
due misure. Da un lato, l’icona del giustiziere armato si risolve
in uno scalognato clone, animato da pari volontà di sicurezza e
scambiato per invasato guerrafondaio quando l’FBI, dopo
perquisizione, trova un fornito arsenale nella sua stanza; dall’altro
un legale finto-cinico, all’inizio elegante avvocato d’un grosso
studio e poi sciatto difensore scartoffiaio, ricalcato su personaggi
che solo una ventina d’anni prima – da Red Garnett a Frankie
Dunn, passando per Luther Whitney e Steve Everett – Clint medesimo
avrebbe incarnato, coi guizzi e paradigmi a lui congeniali. Padre e
figlio putativi s’incontrano nell’incipit, quando Richard è
fattorino addetto all’ufficio in cui Watson Bryant lavora: il primo
sorprende il secondo con una brillante deduzione (il cestino in cui
dice di scrutare gli permette d’intuire che Watson è ghiotto di
barrette Snickers, e il giovane gliene procura una generosa scorta
nel cassetto), affibbiandogli l’ironico appellativo di “Radar”
come l’occhialuto caporale di M.A.S.H.
Ma pure un analogo disordine tipologico sembrerebbe appaiarli: Dick è
obeso, trasandato, incurante della linea e completamente privo di
quell’aspetto che il tradizionale paladino della legge dovrebbe
detenere, così pure il suo alter
ego
è un patrocinante quasi svogliato, dall’aria sciatta, la cui
apparente disillusione per l’attività (e in generale un po’
tutto il sistema) è bilanciato da tagliente ironia e combattiva
tenacia. “Siamo la coppia più comica del mondo”, chioserebbe
Nick Pulovski, laddove Eastwood, intenzionato a salvaguardare alcuni
aspetti privati delle vite dei personaggi dallo sguardo del pubblico,
sosterrebbe che “è molto più interessante per gli spettatori
scriverli e disegnarli insieme a te”. Se il piccolo schermo
disponesse di quel briciolo di discrezione che serbano gli asciutti
narratori del cinema, senza sfoggio di inutili orpelli, l’ambiziosa
Kathy Scruggs non ricorrerebbe agli usuali, arcinoti stratagemmi da
arrivista e non trasformerebbe una vaga soffiata dei federali in uno
scoop sensazionalistico, credendo di sbattere legittimamente il
mostro in prima pagina. Basterebbero i primi minuti di film, lungi
dal prender posizione e basandosi sulla mera descrizione, a suggerire
come il trionfo d’una sofferta verità sia possibile grazie a un
disordinato alveo, specchio d’una condizione prevaricatrice quanto
alienante.
Di
un ordine costituito fallace (e malevolo), incapace di stanare i
colpevoli, che per sedare il climax
di collettiva paranoia fa di manovrabili pedine i capri espiatori, il
cineasta aveva parlato una dozzina d’anni fa in Changeling,
ma anche J. Edgar
è
lì a ribadirlo: “il potere può trasformare una persona in un
mostro”, sono le parole con cui Watson – eroe in celluloide
nell’aiutare Richard, a sua volta eroe mediale per un’esigua
manciata di minuti – congeda l’amico prima di assumerne le
difese, riverbero del monito campeggiante sul poster del suo ufficio
(“Si ha paura del governo più di quanto se ne abbia del
terrorismo”). E più in là, la segretaria russa e futura moglie di
Watson ribatte con un aforisma che non dissocia granché ambedue i
sistemi, ponendoli anzi su univoco asse (“In Russia when the
government says someone’s guilty, it’s how you know he’s
innocent. Is it different here?”). Sicché un videogame di genere
bellico può apparire nulla più d’un innocente gioco atto a
incrementare un’amicizia, non fosse che le immagini seguenti
mostrano il protagonista nell’atto di esercitarsi a un poligono di
tiro e poco dopo, in un campus universitario, ammonire un gruppo di
giovanotti ubriachi sulle norme di sicurezza, tenendo testa a chi lo
sfotte. Richard, meschino, non sa che il troppo zelo, cioè
l’eccessiva fede nell’autorità, è una contraddizione in termini
che non ammanta di alloro, ma è osservata con sospetto; né si rende
conto che l’erudita preparazione su strategie terroristiche e
tattiche di attacco non ne fanno un esperto, ma un facile bersaglio.
La qual cosa torna utile all’FBI, che anche a causa d’una fedina
penale non troppo limpida (non paga le tasse da un paio d’anni, e
per di più ha subito un arresto per essersi spacciato da
poliziotto), e di ripetute lamentele sul lavoro procurate da abuso
d’autorità a fin di bene, fa leva sulla sua dabbenaggine: dapprima
lo convince a rilasciare una confessione filmata, spacciata per una
registrazione a scopi documentaristici, e poi una serie di prove
telefoniche nel tentativo di ottenere la minacciosa voce
dell’attentatore.
Ma,
si diceva, la manipolazione non ha a che fare con l’autenticità, e
lo stesso giovanotto che allo stadio scambia uno zaino di bibite per
uno dal contenuto sospetto, dietro l’apparente scorza candida, non
è così babbeo da firmare davvero
un documento ufficiale. Lampi di acume si fan luce anche in
sprovvedute tipologie, benché lo sguardo dell’autore, senza
eludere il fattore umano, non desideri prendere totalmente le difese
d’un essere patetico. Che invero, a propria volta, persiste nel
difendere chi lo riverisce e contemporaneamente lo umilia, lo adula
mirando a incastrarlo, lo incalza per il bene del Paese solo per
gettarlo in pasto agli sciacalli del Potere. Come se non bastasse,
tenta di convincere un amico di Jewell a dare una falsa testimonianza
facendosi passare per il suo complice gay, senza porsi molti scrupoli
nel requisire oggetti personali suoi e di mamma Bobi, la sola insieme
a Watson a credere nell’innocenza e nelle qualità del figlio.
Anche se questi ha il torto di andare a caccia di cervi, di
conservare una spoletta Mk2 a mo’ di fermacarte o la scheggia d’una
panchina del parco, luogo dell’esplosione, quale souvenir: elementi
che non depongono a favore d’una coscienza cristallina,
all’occorrenza non priva di atteggiamenti sensibili (elargisce
acqua a donne incinte e anziani o bibite ai “colleghi”
poliziotti, e ancora strilla di non guardare programmi tv che destino
sospetti, prima di consolare la madre in lacrime un istante dopo), il
cui fanatismo ha minor peso d’un sistema contraddittorio e mendace.
Ne scaturisce un quadro dolente giocato sulla sottrazione, dove
l’assunto viaggia al livello d’intensità dell’inchiesta, e nel
triste annuncio ai microfoni di Bobi al presidente Clinton, nel
toccante tentativo di riabilitare il nome brutalmente calpestato del
figlio, trova un sobrio risultato che equipara i personaggi
principali all’identico livello degli antagonisti. Il governo
federale incastra Dick, ma non è meno vittima del pervasivo e cinico
circo mediatico che fa strame di entrambi, e nell’epilogo –
chissà – forse ci metterà una pezza.
Chiudendo
il cerchio, dunque, Richard
Jewell è
anche la parabola di un’ideale relazione paterno-filiale (come
quella, per esempio, tra Frankie e Maggie o, più indietro, fra
Thunderbolt e Lightfoot in Una
calibro 20 per lo specialista di
Cimino). Perché il protagonista riesce a mostrarsi finalmente uomo,
nonostante gli incorreggibili limiti, solo grazie all’incontro con
Bryant che, a suon di ironiche critiche, battute e stoccate (“Hai
il centone che mi devi?”, domanda memore d’una precedente
promessa), gli spalanca gli occhi, lo “ridesta” a costo di
ferirlo. L’impossibile (la ribellione di Jewell, sin lì repressa e
compresa dalla remissione), dopo un tête-à-tête
con Watson, si concretizza davanti alla commissione federale in cui
un laconico Richard si prende la rivincita verso gli scettici
aguzzini. L’incubo
che attanaglia il giovane, eco del delirio di Sully, si conclude. E
anche se non riesce a diventare un eroe, la divisa da piedipiatti di
cui sospirato si riappropria (il sogno era lavorare nelle forze
armate), è la lauta ricompensa, ma non il totale risarcimento, d’uno
sfortunato servizio. A Bryant, inoltre, il compito di rivelare al
“figlioccio” il colpevole dell’attentato, tal Eric Rudolph,
nell’ultima scena quando paternamente lo saluta alla centrale,
rimirandolo estasiato. E a mamma Bobi non resta che sopperire alla
mancanza del suo bambino, stroncato da un infarto a soli
quarantaquattro anni, facendo da babysitter ai pargoli di Watson.
Dove il fatuo idealismo a stelle e strisce sostiene di potere senza
riuscire, sta all’individuo solitario adempiere al recupero di
perduti valori, e non è detto che non vi riesca. Al di là di
qualsivoglia operazione mitopoietica, amicizia e amore faranno il
resto. Contro un procedimento contorto che fagocita e spazza (per la
cronaca, oltre a Dick, anche Kathy è mancata a quarantadue anni per
un’overdose di antidolorifici).
Francesco Saverio Marzaduri
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