Roger Corman: la rivoluzione esplode a Hollywood
Roger Corman: la rivoluzione esplode a Hollywood
Non capita sovente che il nome d’un regista acquisti meriti e importanza senza che la sua produzione annoveri un solo titolo davvero degno di nota. Impossibile discernere tale nome da un genere frequentato con assiduità o da una produzione visibilmente grama in mise-en-scène e impianti narrativi. Ed è ugualmente impossibile separare la firma da un periodo controculturale fortemente condizionato dal mutamento di mode, gusti, pubblici. Eppure, dall’alto delle proprie 94 lune, a tutt’oggi Roger Corman non cessa d’essere un caso più unico che raro: la garanzia di una tecnica che non si premura granché di realizzare confezioni di qualità opinabile, il cui esito – risibile per palati esigenti, più semplicemente ingenuo – non va a scapito di un’indiscutibile professionalità.
Perché
di tecnica, relativamente a Corman, si deve parlare in barba a
giudizi talmente standard e uniformi da suonare datati come (e forse
più de)i suoi film: a testimoniarlo, l’autobiografia Come
ho fatto cento film a Hollywood senza mai perdere un dollaro in
cui l’autore, con molta ironia, snocciola un modus
operandi cominciato
dalla più collaudata gavetta, posto al contempo come
un’alternativa-sberleffo ai System di
magne produzioni in piena crisi. Non vi è genere che il cineasta di
Detroit non attraversi – dalla fantascienza al gangster, per tacere
ovviamente dell’horror – senza che gli incassi, conseguiti tra
drive-in e pidocchietti, lo pongano mai in condizione di rimetterci,
inclusa l’abitudine di riutilizzare un medesimo set per più
progetti all’anno, e nel minor tempo possibile, procurandogli la
pronta etichetta d’incontrastato sovrano dell’exploitation.
Una
tecnica, dunque, ch’è anche predefinito stilema: alzi la mano
chiunque, guardando uno dei vari adattamenti da Poe, non individui la
mano di Corman in un’abilità costruttiva desunta dall’impiego di
sanguigni décor (perlopiù
dovuti alla firma tutelare di Daniel Haller), giocati su cariche
tonalità cromatiche a pastello grazie a un prodigioso apporto
fotografico, spaziante da Floyd Crosby e Arthur Grant al futuro
regista Nicolas Roeg – e in quest’ultimo caso debitore delle
correnti pop.
E ancora nel sodalizio col compositore Les Baxter, così come nella
scelta di gloriosi volti hollywoodiani la cui età avanzata non
scalfisce la professionalità (Boris Karloff, Peter Lorre, Basil
Rathbone, Ray Milland), consentendo a una di esse, Vincent Price, di
associare all’opera cormaniana la propria caratteristica,
mefistofelica icona. Il gusto dell’eccesso, l’edificazione d’un
universo parossistico morboso e soffocante, quasi metafisico e
pervaso da una vena beffarda e sarcasticamente macabra: indici
bastevoli a far di Corman un marchio di fabbrica, dove il concetto
d’idea,
nel senso più etimologico del termine, non esce scalfito in una
struttura narrativa sopperente alla scarsezza economica, impreziosita
dalla collaborazione con Charles Beaumont, Dick Matheson e un giovane
Robert Towne. L’occasionale introduzione di segmenti onirici, a
base di filtri e distorsioni ottiche, acclude ulteriore pregio a una
fecondità barocca, kitsch finché
si vuole, che nell’abilità d’impastare effetti orrifici e note
grottesche meglio condensa la ridefinizione estetica
del fantasy cinematografico.
Si
può convenire come molti lavori scaturiti dalla factory,
senza la pretesa d’esser presi sul serio e a un passo dalla
dichiarata parodia, lascino il tempo che trovano e l’apparato non
possa non ritenersi arcaico (per cui sarebbe inesatto non
definirlo invecchiato).
Vero è che se nella gran parte dei casi la ghianda permette alla
quercia di fiorire, non si può non riconoscere alla griffe
cormaniana l’introduzione d’un metodo che, in epoca di influenze
e correnti, non poco contribuisce permettendo al decadente milieu di
ritemprare le finanze, risorgendo più rigoglioso e potente. Una
figura rinascimentale a tutto tondo, sotto la cui ala crescono nomi
nel comparto registico (Scorsese, Coppola, Bogdanovich, Cameron...)
ed attoriale (Nicholson, De Niro, Bronson e Dennis Hopper, Peter
Fonda, Bruce Dern) destinati a lasciare impronte indelebili. E lo
stesso può dirsi relativamente alla controtendenza che partorisce
generi e spin-off in
linea con la voga ribellista sessantottina, bruciati in tempi
rapidissimi – lo youth,
offerto dallo psichedelico Il
serpente di fuoco,
o il bikers de I
selvaggi – trovando
in Easy
Rider l’eponima
vetta.
Un’inestricabile
esperienza di cinema e vita, talvolta pagata a proprio rischio e
pericolo, come dimostra lo scomodo L’odio
esplode a Dallas,
oggetto di minacce nella gestazione e – ironia della sorte – film
assai più profetico di quanto la tormentata uscita faccia presumere.
E anarchicamente vintage da
tornare a confrontarsi con le grandi produzioni dirigendo, con
visionaria inventiva, l’apocalittico-avvenirista Frankenstein oltre
le frontiere del tempo,
tratto da un romanzo di Brian Aldiss, in un’epoca dove nomi come il
suo, ghiotto menù per cinefili e aficionados,
non si possono non salutare con tenero anacronismo; ciò prima di
lasciarsi definitivamente alle spalle la regia per dedicarsi alla
produzione e alla distribuzione nazionale di grandi cineasti europei,
occasionalmente concedendo qualche cameo.
Non vogliamo dire che gli spunti socio-politici o i risvolti
psicanalitici appaiano materia inferiore rispetto ad emblemi
figurativi o a eventuali significazioni morali spiegate dalle
funzioni terrorizzanti dell’horror: rivedendo in chiave odierna
un must gangsteristico
qual è Il
clan dei Barker (forse
il capolavoro di Corman), non sfugge una certa allegoria nel ritratto
della madre sanguinaria del titolo originale, e nel suo cieco odio
verso una società alienante, a sua volta restituito nella morbosa
educazione sentimentale dei quattro figli.
Forse,
nell’attuale cinematografia a stelle e strisce, non è così
palpabile il vuoto lasciato da artigiani della Settima Arte
altrettanto prolifici, dotati d’identica purezza e originaria
semplicità della celluloide che fu. Sine
dubio,
non si può non riconoscerla lezione anticonformista, rivoluzionaria
al punto che perfino in Italia è stata (e per più d’uno è
ancora) eletta a eclettico modello di riferimento. Un maestro? Sì,
senza ma e senza se.
Francesco
Saverio Marzaduri
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