Ballata di un “comico bianco”
Non so più quel che dico
E quel che faccio!
Eppur è d’uopo, sforzati!
Bah! Sei tu forse un
uomo?
Tu se’ Pagliaccio!”
RUGGERO
LEONCAVALLO
“Non
si muore d’amore,
si muore quando non si mangia.”
FRANCESCO
NUTI, Son contento
Un
gran lavoro, una decina d’anni
fa o poco più, fecero Matteo Norcini e Stefano Bucci rastrellando
interviste, testimonianze, istantanee, contributi per il monumentale
volume Francesco
Nuti – La vera storia di un grande talento,
pubblicato da Ibiskos e dedicato alla sottostimata arte
dell’attore-regista fiorentino, pratese d’adozione. E mai titolo
suonò più confacente per il documentario-tributo realizzato da
Mario Canale, il cui titolo è un palese riferimento a una fortunata
pellicola, Francesco
Nuti... e vengo da lontano.
Perché, come Willy Signori e numerosi altri personaggi d’una
variegata galleria, a Nuti era sufficiente l’espressione tenera e
sorniona da fanciullone sorridente, la mitica fossetta sul mento, a
farne una sfera a parte in un’epoca in cui all’agonizzante
commedia italiana si sopperiva con una fucina di comici in embrione,
cui i successi del piccolo schermo, tra cabaret e varietà, recavano
manforte. Poco meno di quarant’anni sono trascorsi da quando Nuti
apparve come la sorpresa tutta toscana all’interno d’un
sottocapitolo del nostro cinema per il quale il compianto critico
Stefano Reggiani coniò l’espressione “stagione malincomica”, i
cui assortiti regionalismi non nascondevano un fil
rouge di
fondo: l’aria candida, sprovveduta d’una generazione
innegabilmente disarmata di fronte a un periodo funestato da
mutamenti socio-politici e culturali, attentati terroristici, cambi
di casacca ideologica e quant’altro. Se Nanni Moretti è
riconosciuto l’eponimo esponente d’un nutrito gruppo di cineasti
– da Giordana a Piscicelli, a Giuseppe Bertolucci – indotto ai
rancidi bilanci del Sessantotto, fraintende chi tuttora ne scambia
contraddizioni e tormentoni, anche ilari, per pillole di comicità.
Lo sguardo generazionale è, però, anche materia per buffoneschi
apologhi, mini-cronache di fallimenti intrise d’amarezza, in cui i
neonati beniamini dello schermo televisivo fungano da nitida lastra
per un pubblico in grado di guardare oltre il riverbero. Senza per
questo rinunciare al sogno.
In
una filmografia che conta una quindicina di titoli e una decina di
regie non eccelse, il segreto dell’arte di Francesco – che non si
definisce comico quanto “attore comico” – risiede nell’effimera
bolla di sapone che scinde la candida maschera à
la
Harry
Langdon da egoismi e meschinità d’una
sfera pronta a travolgere il sogno. Senza disporre della simpatica
indolenza, tipicamente partenopea, di Troisi o della nevrosi d’un
Verdone con cui reagire alla realtà metropolitana, peraltro
serbandone analoghi impacci, la fisionomia di Nuti suggerisce
maggiori affinità con la surreale mimica di Nichetti, tanto che la
lunare stramberia (all’occorrenza
non esente da gag da cartone animato), senza smaltire un grammo della
propria innata clownerie,
assurge a modus
operandi per
non cadere nelle trappole del sistema. Non rinunciando neppure al
modello di Benigni, la cui ruspante veracità fa un corpo comico
d’azione,
anziché di reazione
come
nel caso di Cecco, fedele a una concezione umoristica tesa a sposare
una poetica neorealista di stampo zavattiniano con una vis
propriamente
vernacolare. L’impressione è di non trovarsi di fronte a un
comico, o a un fantasista, ma ad un interprete brillante dietro cui
si celano sfumature di malinconia e tristezza, tranquillamente
predisposto per travisare la classica figura di Pierrot in una
presenza attoriale idonea per registri drammatici. Non per niente la
terza ed ultima collaborazione col regista e mentore Maurizio Ponzi,
Son
contento (che
annovera un toccante soliloquio con un usignolo spirato), ruota sulle
vicissitudini sentimentali tra un cabarettista in crisi creativa e la
fidanzata, che portano il primo a una forte e profetica depressione,
facendo luce su quel binomio pubblico-privato che si rivela strumento
vincente – ed egoistico – per l’esuberanza dell’artista nel
saggiare nuovi lidi. Tale dualismo trascende l’artificio
convincendo l’interprete, dopo la spontanea
freschezza
dei lavori precedenti, a compiere il balzo verso la regia senza
rinunciare alla cassetta. Viceversa, il gusto dell’ammiccamento
cinefilo, scimmiottante soprattutto la produzione americana, benché
pretenzioso, ancora non ha la supponenza che si vedrà una decina
d’anni più tardi.
Innegabile
che lo humour
di
Nuti sia degno d’amorevole empatia per le fiabe dolci-amare in cui
la poetica, nemmeno troppo velata, del suo Candide concilia col
sapore rustico, genuinamente agreste e mai dimenticato delle origini.
Avvalendosi di nomi prestigiosi che firmano con lui i copioni (Elvio
Porta, Franco Ferrini, Enrico Oldoini, Luciano Vincenzoni, Sergio
Donati, Vincenzo Cerami), ribadito dal sodalizio con Ponzi per tre
film1
– tuttora i migliori del regista – Francesco
in
primis
non
fa mistero di trovarsi a suo agio nella solidale collaborazione coi
medesimi nomi, a cominciare dal fratello Giovanni autore di tutte le
colonne sonore, le cui melodie sovente ricalcano Ry Cooder, e dal
gruppo musicale di cui membro, i “Barluna”; e ancora il
produttore-egida Gianfranco Piccioli, il montatore Sergio Montanari,
l’operatore e direttore della fotografia Maurizio Calvesi, gli
abituali sceneggiatori e futuri cineasti Ugo Chiti e Giovanni
Veronesi – quest’ultimo da Cecco tenuto a battesimo, come accade
ai giovani Ricky Tognazzi e Ferzan Özpetek. Del resto, nella
moltitudine di usuali caratteristi, basterebbe la presenza-feticcio
dell’ex impresario teatrale Novellantonio Novelli, grande amico e
portafortuna in quasi tutte le pellicole del Nostro, a rimarcare una
sanguigna volontà di reiterare le radici qual irrinunciabile oggetto
transizionale custodito gelosamente, un po’ mentore e un po’
spiritual
guidaince
(riprovato
dalla scelta di nomi affini per i vari Maestro, Merlo, Segugio o
semplicemente Novello). Si pensi, inoltre, alla passione per il
biliardo che il protagonista di Io,
Chiara e lo Scuro,
il seguito Casablanca,
Casablanca
e
il tardivo Il
signor Quindicipalle eredita
dalla famiglia. E ancora alla toscanità dei luoghi, materia da
adattare all’allegro funambolismo (la Paperino frazione di Prato,
che prelude al quartiere Ovosodo riutilizzato dal livornese Virzì):
su tutti Narnali, dove il padre di Nuti, nativo del Mugello, svolge
la professione di barbiere e l’artista vive dall’infanzia al
successo. Topografico cenno nell’ultimo episodio dedicato alla
stecca ma soprattutto nella prima pellicola di cui è protagonista
assoluto, dopo il debutto avvenuto l’anno prima con Ad
ovest di Paperino
insieme
ai “Giancattivi”: Madonna
che silenzio c’è stasera.
Nel
film di Alessandro Benvenuti, anch’egli
all’esordio come interprete e regista, umori
e disagi di tre esistenze solitarie, che vagheggiano di
evadere dalla quotidiana routine, si coalizzano in risposta a un muro
di ostilità all’insegna d’un demenziale nonsense,
risolto in perfidi frizzi e goliardici lazzi. Fermo restando nel
climax
dell’operazione
surreale, che sfiora topici spunti del periodo (compresa ovviamente
l’alienazione giovanile in famiglia e in società), il fine è la
semplice attesa del domani, mentre il tempo trascorre nella
costruzione di situazioni grottesche e irriverenti. Tra apologhi
irreali – come quello dei piccioni capaci di trasformarsi in
principi azzurri, nonché allegoria dei dropout
al
centro – la sagoma di Nuti già evidenzia i tratti caratteristici
dello smarrito, disoccupato e oppresso dai familiari. In Madonna,
che replica
il paradigma del vagabondaggio d’una
giornata impiegata nel film precedente, il ruolo dell’impacciato,
assillato dall’incombente presenza materna e alla costante ricerca
d’un posto che non trova mai, non s’arena alla gag chapliniana o
allo stornello canzonatorio in stile Benigni (la Pupp’a
pera destinata
a tornare, in versione rock, in Caruso
Pascoski di padre polacco),
esplicitando un marcato autobiografismo. Fuori e dentro la finzione,
Francesco è un perito chimico tessile che serba inalterato il nome
anagrafico, come negli altri due film di Ponzi, giocando a reiterare
e rimescolare sé stesso e la famiglia: sugli ending
credits
di
Io,
Chiara e lo Scuro,
mentre s’appresta a concludere una partita vincente, il
protagonista racconta di sé al navigato concorrente, e in Son
contento il
fattore si riverbera (extra)diegetico nel bagaglio umoristico del
fantasista. Piglio autobiografico col quale (tentare di) fuggire una
realtà
bigger
than life
monotona
e uniforme, dove le fabbriche di Madonna
appaiono
luoghi sinistri memori di Petri e, secondo la lezione di De Sica, c’è
chi ruba una bicicletta mentre i bambini – potenziali Franti o
Lucignolo, quando non olvidados
– ci
guardano e imitano. Nel florilegio di citazioni, in cui figura
perfino una parodia de Il
laureato,
il trasognato e spicciolo zen di Cecco lo sorprende nell’atto di
monologare con le stelle e la natura come un San Francesco (e i panni
d’un monaco, suo malgrado capace di miracoli, Nuti li vestirà nel
segmento Sant’Analfabeta
per
la miniserie televisiva Sogni
e bisogni di
Sergio Citti), vaneggiando d’incontrare la fortuna un anno prima di
dissertare della Creazione sotto forma di tavolo verde – e il
Padreterno, mancino, non si sa che stecca usi, se in legno o in
alluminio.2
Ma, come accade al Billy Fisher di John Schlesinger, si tratta d’un
emisfero immaginifico edificato su una stentata evasione i cui
trionfi sono tristi e privi di sbocchi, che porta Francesco a vincere
per caso una corrida canora, per poi sperperare l’assegno in premio
con una rossa prostituta, con cui non combina nulla. La stessa
filosofia del Magnifico, il sedicente amico del babbo che l’ha
abbandonato, non è che un patetico castello di carte sbugiardato dal
giovanotto quando scopre che chi pronostica di far fortuna a Machu
Picchu è un altro infelice fra tanti, sposato con prole, che ha
abbandonato i sogni. Non rimane che raccattare quel gramo barlume
d’onirismo confidando nella vincita d’una schedina; e vuoi mai
che il buffonesco sforzo di “spostare la Chiesa”, dato
l’improvviso scampanellio, non sortisca l’effetto o la speranza
di riallacciare con l’ex fidanzata non si verifichi in un inatteso
squillo di telefono, prima d’una nuova avventura l’indomani...
Se
si pensa a Casablanca,
Casablanca,
a volte la bugia è un espediente per convincere il produttore a
realizzare dubbi progetti. Ma laddove il sogno si eleva a univoca
ancora di salvezza, onde evadere dal grigio torpore del trantran, il
contraltare è costituito dall’abbandono (e dal conseguente senso
della partenza), pattern
non
meno irrinunciabile. Il Francesco di Madonna
è
abbandonato dal genitore nella misura in cui il ruolo paterno è
quello che meglio contorna la produzione dell’artista.
Senza rinunziare alla dimensione favolistica tra lo zuccheroso e
l’assurdo, la cui origine ipertestuale appare dichiarata in
Miracolo
a Milano,
Tutta
colpa del Paradiso è
incentrato sul tentativo d’un
ex galeotto dal cuore d’oro, il cui passato è stato spazzato via,
di riottenere il figlioletto adottato da una giovane coppia;
rintracciatolo in Val d’Ayas, dove il bimbo vive coi genitori nella
baita denominata “Paradiso”, desiste dall’iniziale proposito
folgorato dalla meraviglia del paesaggio, illuminato dal calore degli
abitanti e dal ricambiato amore per chi, ignaro dei suoi trascorsi,
gli offre ospitalità. E ancora la voglia di paternità, che nel
privato si concretizza durante un periodo di forte difficoltà, fa
capolino in Willy
Signori e vengo da lontano,
Io
amo Andrea e
Caruso,
zero in condotta:
nel primo caso indotta da immotivato rimorso, nel secondo dal
desiderio di uno dei personaggi di costituire un nucleo familiare,
esente da legami sessuali, e nel terzo dal patetico sforzo di
accudire la tredicenne figlia con cui non dialoga, membro d’una
combriccola di teppisti; ma pure
Caruso
Pascoski,
nelle ultime scene, diventa genitore. A mo’ di transfert,
l’abbandono della figura paterna si ripresenta in quello del
protagonista nelle disparate vicissitudini sentimentali, ove
l’imperante femminismo tiene testa a fanciulleschi capricci (e
nella realtà innesca un’ambigua natura rassomigliante la finzione
al privato, con Cecco che s’atteggia a duro variando le partner in
un perseverante tira e molla). Salvo che l’affettiva burrasca svela
presto l’artificiosità dell’assunto, arrancando nel tentativo di
dar ritmo all’impianto umoristico, elemento primario; e il
cripto-sciovinismo dilagante – per il quale le spalle
femminili
rinunciano a propositi personali, quando non scontano misogini
ritratti – tradisce il carattere furbetto degli esordi colorandolo
d’un cattivismo talora irritante (“Il potere va mantenuto”,
somatizza un autoironico Francesco, “sennò che maschilisti
siamo?”), sbeffeggiando il politically
correct e
occhieggiando a Villaggio nelle soluzioni comiche.
Va
da sé come lo spaesamento d’una creatura alle prese con un mondo
oscuro, carente d’amore, che non si pone scrupoli nell’affidarlo
al suo destino, ravvicini la maschera nutiana all’universo di
Collodi, complice ancora una volta la toscanità di cui il burattino
è deittico simbolo. Ma mentre Madonna
si
pone come l’inizio felice di un’avventura nella provincia
pratese, OcchioPinocchio
n’è
il sofferto epitaffio: l’esperimento di un reboot
della
fiaba – di per sé territorio delicato, che lo stesso Fellini
reputava insidioso – si scontra con l’ambizione d’un interprete
convintosi d’una crescita registica che s’è ingolfata, risolta
in accurati movimenti di macchina e presunti virtuosismi fini a sé
stessi; e un esigente autocompiacimento camuffa tra le righe
l’insicurezza d’una firma non ancora all’altezza di più
illustri colleghi, dove il narcisismo è solo una facciata. Ne esce
una filmografia perennemente oggetto di critica, incerta tra il
prodotto di cassetta (non privo di sguaiati toscanismi, o gag tipo il
dialogo tra sordi, ribadite sino allo sfinimento) e il vezzo
autoriale, intriso d’intimismo quando non bizzarro romanticismo,
nei quali la veracità delle radici s’insinua nell’amarcord
sessantottesco
o nel ripensamento generazionale. E gli abbozzi d’un tempo evolvono
nell’imborghesimento. Produzione inclassificabile, nel senso
etimologico del termine, quanto l’esigenza di rifare Pinocchio
ex
novo girandolo
in un’America avulsa dall’abituale
connotazione (memore delle location
di
precedenti lavori, ad esempio la Genova notturna, piovosa ed onirica
di Stregati)
su atmosfere ondeggianti tra Leone, Welles e Wenders. L’esigenza
si sposa all’insistenza
di esportare il prodotto fuori dai confini nazionali: e pensare che
Francesco, dopo aver compiuto un primo viaggio negli Stati Uniti in
cerca dell’ispirazione per Caruso
Pascoski,
aveva dichiarato di non interessarsi minimamente al mercato né al
cinema americano, in prima persona constatandone la differenza da
quello italiano. Nel caso in oggetto, non si tratta più nemmeno di
commedia d’emigrazione
verso
Casablanca o Tunisi, altrove degna d’un Sordi: l’autenticità si
disperde in un mega-sogno cinefilo, pingue e costosissimo, la cui
titanica impresa s’inerpica in uno sbagliato collage irto di
rimasticature mal integrate da sprazzi di originalità o d’inventiva
nella reinterpretazione, palesando il trucco. Scrive Tullio Kezich:
“(...) è stato come girare Le veglie di Neri fra i grattacieli, gli inseguimenti di macchine e i cazzottaggi nei saloon. A seguito di tale passo più lungo della gamba sono nate complicazioni di ogni genere: ritardi, sospensioni, accuse. Con il risultato che, a vederlo finalmente completato sia pure con qualche enigmatico rabbercio (…), si rimpiange che il film non sia più ‘povero ma bello’.”3
Nondimeno, persino dietro l’eccesso di presunzione si colgono i segnali d’un disagio e un’angoscia per una maschera superata dai tempi, non più in linea con la naïveté degli esordi e virante verso una dimensione cinematografica d’ingestibile megalomania, inaugurata dalle incomprensioni tra compagni sul set di Ad ovest di Paperino, che sceglie di lasciarsi alle spalle la risata non volendo – o non riuscendo – adempiere al compito (“Pinocchio non c’è più...”, ripete ossessivo il personaggio di fronte a un caminetto nella magione dell’odioso padre). Né è un caso che anche qui la riproposta di Geppetto, restituita nel proprio rovescio, sia il ritratto d’una creatura conforme con l’immagine e l’opulenza di un’epoca avvenirista e, a dispetto del protagonista, menzognera; che ritrovato il figlio, della cui esistenza non ha mai saputo, cerca di adeguarlo al milieu capitalista cinico e spietato, e non riuscendovi, senza neppure sforzarsi di comprenderne il candore, se ne sbarazza. Tardiva riproposta di molto cinema americano, Pinocchio/Leonardo è un disadattato che in un Lucignolo al femminile, marchiato come fuorilegge e in perenne fuga, individua il paradossale corrispettivo; sul piano del registro ilare-lunare, l’operazione potrebbe rinviare a Tati la cui sagoma d’innocente emarginato incappa in una roboante, incomprensibile megalopoli (vedi caso, Playtime – Tempo di divertimento, il progetto più ambizioso dell’autore, analogamente non fu compreso dal pubblico che ne decretò il declino).
“(...) è stato come girare Le veglie di Neri fra i grattacieli, gli inseguimenti di macchine e i cazzottaggi nei saloon. A seguito di tale passo più lungo della gamba sono nate complicazioni di ogni genere: ritardi, sospensioni, accuse. Con il risultato che, a vederlo finalmente completato sia pure con qualche enigmatico rabbercio (…), si rimpiange che il film non sia più ‘povero ma bello’.”3
Nondimeno, persino dietro l’eccesso di presunzione si colgono i segnali d’un disagio e un’angoscia per una maschera superata dai tempi, non più in linea con la naïveté degli esordi e virante verso una dimensione cinematografica d’ingestibile megalomania, inaugurata dalle incomprensioni tra compagni sul set di Ad ovest di Paperino, che sceglie di lasciarsi alle spalle la risata non volendo – o non riuscendo – adempiere al compito (“Pinocchio non c’è più...”, ripete ossessivo il personaggio di fronte a un caminetto nella magione dell’odioso padre). Né è un caso che anche qui la riproposta di Geppetto, restituita nel proprio rovescio, sia il ritratto d’una creatura conforme con l’immagine e l’opulenza di un’epoca avvenirista e, a dispetto del protagonista, menzognera; che ritrovato il figlio, della cui esistenza non ha mai saputo, cerca di adeguarlo al milieu capitalista cinico e spietato, e non riuscendovi, senza neppure sforzarsi di comprenderne il candore, se ne sbarazza. Tardiva riproposta di molto cinema americano, Pinocchio/Leonardo è un disadattato che in un Lucignolo al femminile, marchiato come fuorilegge e in perenne fuga, individua il paradossale corrispettivo; sul piano del registro ilare-lunare, l’operazione potrebbe rinviare a Tati la cui sagoma d’innocente emarginato incappa in una roboante, incomprensibile megalopoli (vedi caso, Playtime – Tempo di divertimento, il progetto più ambizioso dell’autore, analogamente non fu compreso dal pubblico che ne decretò il declino).
Col
senno di poi, già l’opera per cui Cecco fu salutato come nascente
cineasta, il succitato Stregati,
accolto da critiche sorprendentemente positive ma da tiepidi incassi,
è quello in cui l’egotismo del Nostro meglio si esplica. La magica
creatura venuta dal nulla è una figura del Fato, un po’ filosofo e
un po’ pazzo, al timone d’una stazione radio notturna, il cui
stralunato atteggiamento d’impenitente dongiovanni induce
occasionali conquiste alla propria irreale sfera come un’ultima
carta da giocare, o adesso o mai più. Una patinata bolla di sapone,
di fatato charme
come
il suo autore, testimonianza del decennio in cui realizzato: ma,
appunto, una fantasia destinata a svanire senza lasciare indelebile
traccia. La bugia rivela quell’affettazione della favola che
OcchioPinocchio
ulteriormente
tradisce; il sogno si trasforma in un incubo d’immani proporzioni,
che fa sfumare anche un’ipotetica rilettura di Mary
Poppins.
Lontana è l’epoca di osare l’inosabile battendo un campione di
stecca e acquisirne l’eredità, consegnando al mito l’“ottavina
a nove sponde” e riuscire dove altri non possono, a mo’ di
miraggio, trovandosi vis-à-vis
con
lo stambecco bianco albino, simboleggiante quel pizzico di lindo
ottimismo contro il sudiciume. E il progetto de I
casellanti,
pensato per l’amico
e modello ispiratore Benigni, resta una fiabesca utopia
sulla
carta: un isolato casello toscano resistito al conflitto, in cui gli
abitanti continuano a inebriarsi di felicità, è gestito da due
fratelli, uno dei quali – il personaggio di Francesco – sordomuto
dalla nascita, mentre l’altro
s’infatua
d’una donna enigmatica che decide di seguire. Torna anche l’amato
biliardo. Neanche a farlo apposta, il paradigma di OcchioPinocchio
sopravanza
il lenocinio come una preveggenza, mostrando un Prima, un Dopo, un
Durante fattisi parabola circolare (ed esistenziale) in cui
l’innocente spaesamento acquista graduale ed evoluta
consapevolezza, e si conclude con una sospensione senza epilogo,
mentre l’originario
corpo muore e la mente, valicando il guado, consegue la maturità (il
fotogramma del protagonista che, insieme alla nuova compagna,
s’incammina verso il cielo lungo un gigantesco naso di legno).
Altresì, tornando a canovacci ormai logori, le ultime regie
ostentano un Nuti raggrinzito, consumato da egocentrismi,
frustrazioni, rancori, suonando piatti tentativi di critica sociale,
e i cui excipit
sono
ulteriori sbiaditi ricordi d’un percorso artistico a ritroso. E
decisamente poco convincente è la prova d’attore
fornita per Concorso
di colpa,
mediocrissimo poliziesco di Claudio Fragasso incentrato su un delitto
anni Settanta a ridosso del sequestro Moro, che mette in luce
evidenti limiti interpretativi nonostante la presenza del vecchio
sodale Benvenuti. Pressoché ignorato alla sua uscita, e forse
l’ultimo riuscito lavoro di Cecco, Io
amo Andrea rappresenta
un percorso anomalo: il conflitto tra ruoli, già trattato in una
filmografia dove il sessismo è ulteriore componente dell’autore (e
non esattamente in senso positivo), è affrontato con un cimento che
sembra voler prendere le distanze dalla comicità che fu,
lasciandosela alle spalle quasi totalmente, per misurarsi con un
discorso su usi e costumi, mentalità e affetti a confronto d’un
assetto inopinatamente mutato. Esperimento in linea con una
dimensione di maggior intimismo, volto ad azzardare l’aggiornamento
di un modello contro le aspettative d’un
pubblico altrettanto cambiato; un’alternativa
al toscanismo offerto da neonati modelli paratelevisivi, meno
vernacolari e più scopertamente edificanti, da Panariello a
Pieraccioni, che da sempre elegge Nuti a dichiarato ipertesto per il
personaggio di eterno Peter Pan (sua l’espressione
“comico bianco” per l’amico-collega),
fatta eccezione per il nichilismo ruspante e anarcoide di
Ceccherini.
Il
decennio Ottanta fa di Francesco un asso pigliatutto, miniera
d’incassi per una produzione che, come nella stragrande parte dei
casi, lo induce a bissare la medesima formula, sia pure per prodotti
assolutamente atipici. Poi l’oblio, seguito da una malinconia
autodistruttiva spiegata da un’esistenza
all’insegna della sfrenatezza, e da una prostrazione fatta di
troppe bevute e sporadiche, imbarazzanti apparizioni (tristemente
nota quella concessa a Radio 24), conclusa con un terribile incidente
che ne compromette irrimediabilmente lo stato fisico. Il che
indurrebbe a un tirar di somme rintracciabile, senza spingersi troppo
oltre, nella lunga arringa di difesa con cui l’avvocato di Donne
con le gonne riesamina
l’esistenza, prima che il caso, del protagonista; come se in tale
dissertazione, di nuovo la realtà eclissasse la fantasia, e in
quella che rimane la sua maggiore vittoria al botteghino – oltreché
l’ultima – un Nuti involontariamente oracolare scrivesse il
proprio commiato: di un artista confuso, prigioniero della catena
d’un trionfo incontrato quasi per caso, e conseguente vittima d’una
certezza appartenente a un’epoca remota. Innegabile che lo sforzo
della sperimentazione, valicando l’iniziale
dimensione ma stando attento a non tradirla, risulti scottante o
addirittura incomprensibile (e non è il primo, né l’unico caso).
È evidente che non sia riuscito appieno nell’intento, a dispetto
di chi non detenga quel pizzico di follia da non provarci neppure. Ma
anche se il difetto non fosse nel manico quanto nel senso delle
proporzioni, che avesse ragione Cecco, in uno dei tanti aforismi, ad
affermare “meglio pazzo che essere un calendario”?
Francesco
Saverio Marzaduri
1 Per
la cronaca l’attore-regista
avrebbe dovuto partecipare a un quarto progetto, Qualcosa
di biondo,
sostituito poi dal succitato Tognazzi, addetto al casting,
che per il ruolo vinse un David di Donatello. Da segnalare inoltre la
curiosa partecipazione di quest’ultimo, in analoghe parti di
sprovveduto terzo incomodo, per
Son
contento
e
Caruso
Pascoski.
2 A
rifletterci, un’umoristica “religiosità” risiede anche nei
nomi del duo, Francesco e Chiara, così come la seconda, in senso
terminologico, contrasta con la terza figura del titolo, lo Scuro.
3 KEZICH,
Tullio: Cento film 1994. Roma-Bari, Laterza, 1995. Pag. 138.
Commenti
Posta un commento