Ballata di un “comico bianco”

Ballata di un “comico bianco” 


“Recitar! Mentre preso dal delirio 
Non so più quel che dico 
E quel che faccio! 
Eppur è d’uopo, sforzati! 
Bah! Sei tu forse un uomo? 
Tu se’ Pagliaccio!” 
RUGGERO LEONCAVALLO 

“Non si muore damore, si muore quando non si mangia.” 
FRANCESCO NUTI, Son contento 

Un gran lavoro, una decina d’anni fa o poco più, fecero Matteo Norcini e Stefano Bucci rastrellando interviste, testimonianze, istantanee, contributi per il monumentale volume Francesco Nuti – La vera storia di un grande talento, pubblicato da Ibiskos e dedicato alla sottostimata arte dell’attore-regista fiorentino, pratese d’adozione. E mai titolo suonò più confacente per il documentario-tributo realizzato da Mario Canale, il cui titolo è un palese riferimento a una fortunata pellicola, Francesco Nuti... e vengo da lontano. Perché, come Willy Signori e numerosi altri personaggi duna variegata galleria, a Nuti era sufficiente l’espressione tenera e sorniona da fanciullone sorridente, la mitica fossetta sul mento, a farne una sfera a parte in un’epoca in cui all’agonizzante commedia italiana si sopperiva con una fucina di comici in embrione, cui i successi del piccolo schermo, tra cabaret e varietà, recavano manforte. Poco meno di quarant’anni sono trascorsi da quando Nuti apparve come la sorpresa tutta toscana all’interno dun sottocapitolo del nostro cinema per il quale il compianto critico Stefano Reggiani coniò l’espressione “stagione malincomica”, i cui assortiti regionalismi non nascondevano un fil rouge di fondo: l’aria candida, sprovveduta d’una generazione innegabilmente disarmata di fronte a un periodo funestato da mutamenti socio-politici e culturali, attentati terroristici, cambi di casacca ideologica e quant’altro. Se Nanni Moretti è riconosciuto l’eponimo esponente d’un nutrito gruppo di cineasti – da Giordana a Piscicelli, a Giuseppe Bertolucci – indotto ai rancidi bilanci del Sessantotto, fraintende chi tuttora ne scambia contraddizioni e tormentoni, anche ilari, per pillole di comicità. Lo sguardo generazionale è, però, anche materia per buffoneschi apologhi, mini-cronache di fallimenti intrise d’amarezza, in cui i neonati beniamini dello schermo televisivo fungano da nitida lastra per un pubblico in grado di guardare oltre il riverbero. Senza per questo rinunciare al sogno. 
In una filmografia che conta una quindicina di titoli e una decina di regie non eccelse, il segreto dell’arte di Francesco – che non si definisce comico quanto “attore comico” – risiede nelleffimera bolla di sapone che scinde la candida maschera à la Harry Langdon da egoismi e meschinità duna sfera pronta a travolgere il sogno. Senza disporre della simpatica indolenza, tipicamente partenopea, di Troisi o della nevrosi dun Verdone con cui reagire alla realtà metropolitana, peraltro serbandone analoghi impacci, la fisionomia di Nuti suggerisce maggiori affinità con la surreale mimica di Nichetti, tanto che la lunare stramberia (alloccorrenza non esente da gag da cartone animato), senza smaltire un grammo della propria innata clownerie, assurge a modus operandi per non cadere nelle trappole del sistema. Non rinunciando neppure al modello di Benigni, la cui ruspante veracità fa un corpo comico dazione, anziché di reazione come nel caso di Cecco, fedele a una concezione umoristica tesa a sposare una poetica neorealista di stampo zavattiniano con una vis propriamente vernacolare. L’impressione è di non trovarsi di fronte a un comico, o a un fantasista, ma ad un interprete brillante dietro cui si celano sfumature di malinconia e tristezza, tranquillamente predisposto per travisare la classica figura di Pierrot in una presenza attoriale idonea per registri drammatici. Non per niente la terza ed ultima collaborazione col regista e mentore Maurizio Ponzi, Son contento (che annovera un toccante soliloquio con un usignolo spirato), ruota sulle vicissitudini sentimentali tra un cabarettista in crisi creativa e la fidanzata, che portano il primo a una forte e profetica depressione, facendo luce su quel binomio pubblico-privato che si rivela strumento vincente – ed egoistico – per l’esuberanza dell’artista nel saggiare nuovi lidi. Tale dualismo trascende l’artificio convincendo l’interprete, dopo la spontanea freschezza dei lavori precedenti, a compiere il balzo verso la regia senza rinunciare alla cassetta. Viceversa, il gusto dellammiccamento cinefilo, scimmiottante soprattutto la produzione americana, benché pretenzioso, ancora non ha la supponenza che si vedrà una decina d’anni più tardi. 
Innegabile che lo humour di Nuti sia degno d’amorevole empatia per le fiabe dolci-amare in cui la poetica, nemmeno troppo velata, del suo Candide concilia col sapore rustico, genuinamente agreste e mai dimenticato delle origini. Avvalendosi di nomi prestigiosi che firmano con lui i copioni (Elvio Porta, Franco Ferrini, Enrico Oldoini, Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Vincenzo Cerami), ribadito dal sodalizio con Ponzi per tre film1 – tuttora i migliori del regista – Francesco in primis non fa mistero di trovarsi a suo agio nella solidale collaborazione coi medesimi nomi, a cominciare dal fratello Giovanni autore di tutte le colonne sonore, le cui melodie sovente ricalcano Ry Cooder, e dal gruppo musicale di cui membro, i “Barluna”; e ancora il produttore-egida Gianfranco Piccioli, il montatore Sergio Montanari, l’operatore e direttore della fotografia Maurizio Calvesi, gli abituali sceneggiatori e futuri cineasti Ugo Chiti e Giovanni Veronesi – quest’ultimo da Cecco tenuto a battesimo, come accade ai giovani Ricky Tognazzi e Ferzan Özpetek. Del resto, nella moltitudine di usuali caratteristi, basterebbe la presenza-feticcio dell’ex impresario teatrale Novellantonio Novelli, grande amico e portafortuna in quasi tutte le pellicole del Nostro, a rimarcare una sanguigna volontà di reiterare le radici qual irrinunciabile oggetto transizionale custodito gelosamente, un po’ mentore e un po’ spiritual guidaince (riprovato dalla scelta di nomi affini per i vari Maestro, Merlo, Segugio o semplicemente Novello). Si pensi, inoltre, alla passione per il biliardo che il protagonista di Io, Chiara e lo Scuro, il seguito Casablanca, Casablanca e il tardivo Il signor Quindicipalle eredita dalla famiglia. E ancora alla toscanità dei luoghi, materia da adattare all’allegro funambolismo (la Paperino frazione di Prato, che prelude al quartiere Ovosodo riutilizzato dal livornese Virzì): su tutti Narnali, dove il padre di Nuti, nativo del Mugello, svolge la professione di barbiere e l’artista vive dall’infanzia al successo. Topografico cenno nell’ultimo episodio dedicato alla stecca ma soprattutto nella prima pellicola di cui è protagonista assoluto, dopo il debutto avvenuto l’anno prima con Ad ovest di Paperino insieme ai “Giancattivi”: Madonna che silenzio c’è stasera
Nel film di Alessandro Benvenuti, anchegli all’esordio come interprete e regista, umori e disagi di tre esistenze solitarie, che vagheggiano di evadere dalla quotidiana routine, si coalizzano in risposta a un muro di ostilità all’insegna d’un demenziale nonsense, risolto in perfidi frizzi e goliardici lazzi. Fermo restando nel climax dell’operazione surreale, che sfiora topici spunti del periodo (compresa ovviamente l’alienazione giovanile in famiglia e in società), il fine è la semplice attesa del domani, mentre il tempo trascorre nella costruzione di situazioni grottesche e irriverenti. Tra apologhi irreali – come quello dei piccioni capaci di trasformarsi in principi azzurri, nonché allegoria dei dropout al centro – la sagoma di Nuti già evidenzia i tratti caratteristici dello smarrito, disoccupato e oppresso dai familiari. In Madonna, che replica il paradigma del vagabondaggio duna giornata impiegata nel film precedente, il ruolo dell’impacciato, assillato dall’incombente presenza materna e alla costante ricerca d’un posto che non trova mai, non s’arena alla gag chapliniana o allo stornello canzonatorio in stile Benigni (la Pupp’a pera destinata a tornare, in versione rock, in Caruso Pascoski di padre polacco), esplicitando un marcato autobiografismo. Fuori e dentro la finzione, Francesco è un perito chimico tessile che serba inalterato il nome anagrafico, come negli altri due film di Ponzi, giocando a reiterare e rimescolare sé stesso e la famiglia: sugli ending credits di Io, Chiara e lo Scuro, mentre s’appresta a concludere una partita vincente, il protagonista racconta di sé al navigato concorrente, e in Son contento il fattore si riverbera (extra)diegetico nel bagaglio umoristico del fantasista. Piglio autobiografico col quale (tentare di) fuggire una realtà bigger than life monotona e uniforme, dove le fabbriche di Madonna appaiono luoghi sinistri memori di Petri e, secondo la lezione di De Sica, c’è chi ruba una bicicletta mentre i bambini – potenziali Franti o Lucignolo, quando non olvidadosci guardano e imitano. Nel florilegio di citazioni, in cui figura perfino una parodia de Il laureato, il trasognato e spicciolo zen di Cecco lo sorprende nell’atto di monologare con le stelle e la natura come un San Francesco (e i panni d’un monaco, suo malgrado capace di miracoli, Nuti li vestirà nel segmento Sant’Analfabeta per la miniserie televisiva Sogni e bisogni di Sergio Citti), vaneggiando d’incontrare la fortuna un anno prima di dissertare della Creazione sotto forma di tavolo verde – e il Padreterno, mancino, non si sa che stecca usi, se in legno o in alluminio.2 Ma, come accade al Billy Fisher di John Schlesinger, si tratta d’un emisfero immaginifico edificato su una stentata evasione i cui trionfi sono tristi e privi di sbocchi, che porta Francesco a vincere per caso una corrida canora, per poi sperperare l’assegno in premio con una rossa prostituta, con cui non combina nulla. La stessa filosofia del Magnifico, il sedicente amico del babbo che l’ha abbandonato, non è che un patetico castello di carte sbugiardato dal giovanotto quando scopre che chi pronostica di far fortuna a Machu Picchu è un altro infelice fra tanti, sposato con prole, che ha abbandonato i sogni. Non rimane che raccattare quel gramo barlume d’onirismo confidando nella vincita d’una schedina; e vuoi mai che il buffonesco sforzo di “spostare la Chiesa”, dato l’improvviso scampanellio, non sortisca l’effetto o la speranza di riallacciare con l’ex fidanzata non si verifichi in un inatteso squillo di telefono, prima d’una nuova avventura l’indomani... 
Se si pensa a Casablanca, Casablanca, a volte la bugia è un espediente per convincere il produttore a realizzare dubbi progetti. Ma laddove il sogno si eleva a univoca ancora di salvezza, onde evadere dal grigio torpore del trantran, il contraltare è costituito dall’abbandono (e dal conseguente senso della partenza), pattern non meno irrinunciabile. Il Francesco di Madonna è abbandonato dal genitore nella misura in cui il ruolo paterno è quello che meglio contorna la produzione dellartista. Senza rinunziare alla dimensione favolistica tra lo zuccheroso e l’assurdo, la cui origine ipertestuale appare dichiarata in Miracolo a Milano, Tutta colpa del Paradiso è incentrato sul tentativo dun ex galeotto dal cuore d’oro, il cui passato è stato spazzato via, di riottenere il figlioletto adottato da una giovane coppia; rintracciatolo in Val d’Ayas, dove il bimbo vive coi genitori nella baita denominata “Paradiso”, desiste dall’iniziale proposito folgorato dalla meraviglia del paesaggio, illuminato dal calore degli abitanti e dal ricambiato amore per chi, ignaro dei suoi trascorsi, gli offre ospitalità. E ancora la voglia di paternità, che nel privato si concretizza durante un periodo di forte difficoltà, fa capolino in Willy Signori e vengo da lontano, Io amo Andrea e Caruso, zero in condotta: nel primo caso indotta da immotivato rimorso, nel secondo dal desiderio di uno dei personaggi di costituire un nucleo familiare, esente da legami sessuali, e nel terzo dal patetico sforzo di accudire la tredicenne figlia con cui non dialoga, membro d’una combriccola di teppisti; ma pure Caruso Pascoski, nelle ultime scene, diventa genitore. A mo’ di transfert, l’abbandono della figura paterna si ripresenta in quello del protagonista nelle disparate vicissitudini sentimentali, ove l’imperante femminismo tiene testa a fanciulleschi capricci (e nella realtà innesca un’ambigua natura rassomigliante la finzione al privato, con Cecco che s’atteggia a duro variando le partner in un perseverante tira e molla). Salvo che l’affettiva burrasca svela presto l’artificiosità dell’assunto, arrancando nel tentativo di dar ritmo all’impianto umoristico, elemento primario; e il cripto-sciovinismo dilagante – per il quale le spalle femminili rinunciano a propositi personali, quando non scontano misogini ritratti – tradisce il carattere furbetto degli esordi colorandolo d’un cattivismo talora irritante (“Il potere va mantenuto”, somatizza un autoironico Francesco, “sennò che maschilisti siamo?”), sbeffeggiando il politically correct e occhieggiando a Villaggio nelle soluzioni comiche. 
Va da sé come lo spaesamento d’una creatura alle prese con un mondo oscuro, carente d’amore, che non si pone scrupoli nell’affidarlo al suo destino, ravvicini la maschera nutiana all’universo di Collodi, complice ancora una volta la toscanità di cui il burattino è deittico simbolo. Ma mentre Madonna si pone come l’inizio felice di un’avventura nella provincia pratese, OcchioPinocchio n’è il sofferto epitaffio: l’esperimento di un reboot della fiaba – di per sé territorio delicato, che lo stesso Fellini reputava insidioso – si scontra con l’ambizione d’un interprete convintosi d’una crescita registica che s’è ingolfata, risolta in accurati movimenti di macchina e presunti virtuosismi fini a sé stessi; e un esigente autocompiacimento camuffa tra le righe l’insicurezza d’una firma non ancora all’altezza di più illustri colleghi, dove il narcisismo è solo una facciata. Ne esce una filmografia perennemente oggetto di critica, incerta tra il prodotto di cassetta (non privo di sguaiati toscanismi, o gag tipo il dialogo tra sordi, ribadite sino allo sfinimento) e il vezzo autoriale, intriso d’intimismo quando non bizzarro romanticismo, nei quali la veracità delle radici s’insinua nell’amarcord sessantottesco o nel ripensamento generazionale. E gli abbozzi d’un tempo evolvono nell’imborghesimento. Produzione inclassificabile, nel senso etimologico del termine, quanto l’esigenza di rifare Pinocchio ex novo girandolo in un’America avulsa dallabituale connotazione (memore delle location di precedenti lavori, ad esempio la Genova notturna, piovosa ed onirica di Stregati) su atmosfere ondeggianti tra Leone, Welles e Wenders. Lesigenza si sposa allinsistenza di esportare il prodotto fuori dai confini nazionali: e pensare che Francesco, dopo aver compiuto un primo viaggio negli Stati Uniti in cerca dell’ispirazione per Caruso Pascoski, aveva dichiarato di non interessarsi minimamente al mercato né al cinema americano, in prima persona constatandone la differenza da quello italiano. Nel caso in oggetto, non si tratta più nemmeno di commedia d’emigrazione verso Casablanca o Tunisi, altrove degna d’un Sordi: l’autenticità si disperde in un mega-sogno cinefilo, pingue e costosissimo, la cui titanica impresa s’inerpica in uno sbagliato collage irto di rimasticature mal integrate da sprazzi di originalità o d’inventiva nella reinterpretazione, palesando il trucco. Scrive Tullio Kezich: 

(...) è stato come girare Le veglie di Neri fra i grattacieli, gli inseguimenti di macchine e i cazzottaggi nei saloon. A seguito di tale passo più lungo della gamba sono nate complicazioni di ogni genere: ritardi, sospensioni, accuse. Con il risultato che, a vederlo finalmente completato sia pure con qualche enigmatico rabbercio (…), si rimpiange che il film non sia più ‘povero ma bello’.”3 


Nondimeno, persino dietro l’eccesso di presunzione si colgono i segnali d’un disagio e un’angoscia per una maschera superata dai tempi, non più in linea con la naïveté degli esordi e virante verso una dimensione cinematografica d’ingestibile megalomania, inaugurata dalle incomprensioni tra compagni sul set di Ad ovest di Paperino, che sceglie di lasciarsi alle spalle la risata non volendo – o non riuscendo – adempiere al compito (“Pinocchio non c’è più...”, ripete ossessivo il personaggio di fronte a un caminetto nella magione dell’odioso padre). Né è un caso che anche qui la riproposta di Geppetto, restituita nel proprio rovescio, sia il ritratto d’una creatura conforme con l’immagine e l’opulenza di un’epoca avvenirista e, a dispetto del protagonista, menzognera; che ritrovato il figlio, della cui esistenza non ha mai saputo, cerca di adeguarlo al milieu capitalista cinico e spietato, e non riuscendovi, senza neppure sforzarsi di comprenderne il candore, se ne sbarazza. Tardiva riproposta di molto cinema americano, Pinocchio/Leonardo è un disadattato che in un Lucignolo al femminile, marchiato come fuorilegge e in perenne fuga, individua il paradossale corrispettivo; sul piano del registro ilare-lunare, l’operazione potrebbe rinviare a Tati la cui sagoma d’innocente emarginato incappa in una roboante, incomprensibile megalopoli (vedi caso, Playtime – Tempo di divertimento, il progetto più ambizioso dell’autore, analogamente non fu compreso dal pubblico che ne decretò il declino). 

Col senno di poi, già l’opera per cui Cecco fu salutato come nascente cineasta, il succitato Stregati, accolto da critiche sorprendentemente positive ma da tiepidi incassi, è quello in cui l’egotismo del Nostro meglio si esplica. La magica creatura venuta dal nulla è una figura del Fato, un po’ filosofo e un po’ pazzo, al timone d’una stazione radio notturna, il cui stralunato atteggiamento d’impenitente dongiovanni induce occasionali conquiste alla propria irreale sfera come un’ultima carta da giocare, o adesso o mai più. Una patinata bolla di sapone, di fatato charme come il suo autore, testimonianza del decennio in cui realizzato: ma, appunto, una fantasia destinata a svanire senza lasciare indelebile traccia. La bugia rivela quell’affettazione della favola che OcchioPinocchio ulteriormente tradisce; il sogno si trasforma in un incubo d’immani proporzioni, che fa sfumare anche un’ipotetica rilettura di Mary Poppins. Lontana è l’epoca di osare l’inosabile battendo un campione di stecca e acquisirne l’eredità, consegnando al mito l’“ottavina a nove sponde” e riuscire dove altri non possono, a mo’ di miraggio, trovandosi vis-à-vis con lo stambecco bianco albino, simboleggiante quel pizzico di lindo ottimismo contro il sudiciume. E il progetto de I casellanti, pensato per l’amico e modello ispiratore Benigni, resta una fiabesca utopia sulla carta: un isolato casello toscano resistito al conflitto, in cui gli abitanti continuano a inebriarsi di felicità, è gestito da due fratelli, uno dei quali – il personaggio di Francesco – sordomuto dalla nascita, mentre laltro sinfatua d’una donna enigmatica che decide di seguire. Torna anche l’amato biliardo. Neanche a farlo apposta, il paradigma di OcchioPinocchio sopravanza il lenocinio come una preveggenza, mostrando un Prima, un Dopo, un Durante fattisi parabola circolare (ed esistenziale) in cui l’innocente spaesamento acquista graduale ed evoluta consapevolezza, e si conclude con una sospensione senza epilogo, mentre loriginario corpo muore e la mente, valicando il guado, consegue la maturità (il fotogramma del protagonista che, insieme alla nuova compagna, s’incammina verso il cielo lungo un gigantesco naso di legno). Altresì, tornando a canovacci ormai logori, le ultime regie ostentano un Nuti raggrinzito, consumato da egocentrismi, frustrazioni, rancori, suonando piatti tentativi di critica sociale, e i cui excipit sono ulteriori sbiaditi ricordi d’un percorso artistico a ritroso. E decisamente poco convincente è la prova dattore fornita per Concorso di colpa, mediocrissimo poliziesco di Claudio Fragasso incentrato su un delitto anni Settanta a ridosso del sequestro Moro, che mette in luce evidenti limiti interpretativi nonostante la presenza del vecchio sodale Benvenuti. Pressoché ignorato alla sua uscita, e forse l’ultimo riuscito lavoro di Cecco, Io amo Andrea rappresenta un percorso anomalo: il conflitto tra ruoli, già trattato in una filmografia dove il sessismo è ulteriore componente dell’autore (e non esattamente in senso positivo), è affrontato con un cimento che sembra voler prendere le distanze dalla comicità che fu, lasciandosela alle spalle quasi totalmente, per misurarsi con un discorso su usi e costumi, mentalità e affetti a confronto dun assetto inopinatamente mutato. Esperimento in linea con una dimensione di maggior intimismo, volto ad azzardare l’aggiornamento di un modello contro le aspettative dun pubblico altrettanto cambiato; unalternativa al toscanismo offerto da neonati modelli paratelevisivi, meno vernacolari e più scopertamente edificanti, da Panariello a Pieraccioni, che da sempre elegge Nuti a dichiarato ipertesto per il personaggio di eterno Peter Pan (sua lespressione “comico bianco” per lamico-collega), fatta eccezione per il nichilismo ruspante e anarcoide di Ceccherini. 
Il decennio Ottanta fa di Francesco un asso pigliatutto, miniera d’incassi per una produzione che, come nella stragrande parte dei casi, lo induce a bissare la medesima formula, sia pure per prodotti assolutamente atipici. Poi l’oblio, seguito da una malinconia autodistruttiva spiegata da unesistenza all’insegna della sfrenatezza, e da una prostrazione fatta di troppe bevute e sporadiche, imbarazzanti apparizioni (tristemente nota quella concessa a Radio 24), conclusa con un terribile incidente che ne compromette irrimediabilmente lo stato fisico. Il che indurrebbe a un tirar di somme rintracciabile, senza spingersi troppo oltre, nella lunga arringa di difesa con cui l’avvocato di Donne con le gonne riesamina l’esistenza, prima che il caso, del protagonista; come se in tale dissertazione, di nuovo la realtà eclissasse la fantasia, e in quella che rimane la sua maggiore vittoria al botteghino – oltreché l’ultima – un Nuti involontariamente oracolare scrivesse il proprio commiato: di un artista confuso, prigioniero della catena d’un trionfo incontrato quasi per caso, e conseguente vittima d’una certezza appartenente a un’epoca remota. Innegabile che lo sforzo della sperimentazione, valicando liniziale dimensione ma stando attento a non tradirla, risulti scottante o addirittura incomprensibile (e non è il primo, né l’unico caso). È evidente che non sia riuscito appieno nell’intento, a dispetto di chi non detenga quel pizzico di follia da non provarci neppure. Ma anche se il difetto non fosse nel manico quanto nel senso delle proporzioni, che avesse ragione Cecco, in uno dei tanti aforismi, ad affermare “meglio pazzo che essere un calendario”? 

Francesco Saverio Marzaduri 


1 Per la cronaca lattore-regista avrebbe dovuto partecipare a un quarto progetto, Qualcosa di biondo, sostituito poi dal succitato Tognazzi, addetto al casting, che per il ruolo vinse un David di Donatello. Da segnalare inoltre la curiosa partecipazione di quest’ultimo, in analoghe parti di sprovveduto terzo incomodo, per Son contento e Caruso Pascoski. 
2 A rifletterci, un’umoristica “religiosità” risiede anche nei nomi del duo, Francesco e Chiara, così come la seconda, in senso terminologico, contrasta con la terza figura del titolo, lo Scuro. 
3 KEZICH, Tullio: Cento film 1994. Roma-Bari, Laterza, 1995. Pag. 138. 

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