Gone with Hollywood
Gone with Hollywood
La scomparsa di Olivia de Havilland, ultima diva ancora in vita della Grande Hollywood dorata, era purtroppo qualcosa di atteso. Come per
Kirk Douglas, più giovane di cinque mesi e mancato lo scorso
febbraio. Scompare lei, e scompare definitivamente un mondo: una
bolla di sapone lunga più d’un secolo, cui non resta che sopperire
con la memoria, ed eventualmente con le suggestioni del mito. E com’è
consuetudine del web, nel salutare calorosamente una stella entrata
nel collettivo immaginario per un ruolo (superfluo dire quale…), la
tornata di messaggi in cui ci s’imbatte suona più leggendaria
delle interpretazioni da questa offerte; nella fattispecie, quando la
celluloide e la sfera privata si fondono sino a formare un singolare
unicum.
Ecco allora che Olivia Mary – questo il nome anagrafico – è il
dolce e suadente contraltare dell’irruente guasconeria di Errol
Flynn in sette titoli griffati Warner, molti dei quali (Capitan
Blood,
La
carica dei seicento e
La
leggenda di Robin Hood)
divenuti dei classici. Già figlia d’arte, l’apparizione che ne
rivela le doti d’attrice è però l’imminente sposina Ermia,
nella magica trasposizione del Sogno
di una notte di mezza estate,
firmata dal regista teatrale Max Reinhardt, e da William Dieterle in
qualità di consulente cinematografico. Proprio tale
dolcezza,
coniugata allo charme
di figurina incantevole ed esuberante (la medesima che le permette di
far colpo su James Cagney giusto fumando una sigaretta), è una
sottile linea rossa da non prendere alla lettera, benché agevoli
nella lettura d’un milieu
così colorato e fiabesco, in superficie, da non riuscire del tutto a
nascondere sfaccettature ambigue. Certo, la cronaca rosa tuttora
sguazza nella realtà fattasi leggenda dell’eterna competizione con
la sorella minore Joan Fontaine (e a cui Olivia soffiò una delle due
conquistate statuette), costituita da reciproci dispetti,
equivoci, litigi, riconciliazioni, e terminata una volta per tutte
con la scomparsa di Joan. Ma l’unicum
cui s’accennava s’incarna negli ambigui ruoli di creatura
indifesa dove il mélo
va a braccetto col noir.
Se La
porta d’oro,
dallo script
targato Billy Wilder e Charles Brackett, le frutta l’Oscar nelle
vesti d’una maestrina infatuata d’un avventuriero ex gigolo,
è il ruolo della giovane affetta d’amnesia, internata nella fossa
dei serpenti
d’un istituto manicomiale, a sdoganare il tema della follia
denudando virtù e difetti del contesto sanitario, come le
implicazioni sociali che ne scaturiscono, servita da un’asciutta
struttura a flashback. E prima che William Wyler le regali la parte,
anche questa premiata, della timida ereditiera di Henry James
corteggiata dal cinico arrivista Montgomery Clift, il double
face
della personalità di Olivia sprigiona a tutta forza, ne Lo
specchio scuro,
in una coppia di gemelle d’opposto carattere (topos
che lo stesso De Palma riprenderà molto dopo), la cui multipla
presenza è assecondata dal gioco di superfici riflettenti senza
consentire alla polizia di stabilire l’incriminazione d’un
delitto per la reticenza di ambedue,
prima del sorprendente coup
de théâtre
finale.
Va da sé che il forte legame con Bette Davis, altro mostro sacro
dalla spigolosa personalità, la mette a proprio agio, oltreché nel
melodramma, nelle pellicole in costume o in quelle a metà strada fra
il thriller e l’horror grottesco. E risulta più facile inquadrare
l’intensa performance
della ricca vedova prigioniera di un ascensore che un blackout
tramuta in gabbia, alle prese con un interminabile delirio che, senza
risparmiare nessuno, ne fa un’inerme vittima in balia degli eventi.
Soprassedendo sulle immancabili, occasionali partecipazioni in età
ormai avanzata – la sovrintendente scolastica nel fantascientifico
Swarm
o la passeggera nella terza puntata del catastrofico Airport
–
è a questa de Havilland, più ancora che a Melania, che occorrerebbe
ripensare nell’esegesi d’un interprete intelligente e ambiziosa
(“La gente famosa crede di doversi trovare sempre sulla cresta
dell’onda”), la cui scaltrezza permette di rifiutare mediocri
copioni, in prevalenza parti uniformi e piatte, sfidando il sistema
di grandi case produttrici in tempi in cui la legge permette la
sospensione dei contratti. Sicché le prove più mature da tragica
protagonista (come la ragazza-madre di provincia indotta, a causa
dell’imperante perbenismo, ad accudire il figlio a distanza),
ostentano la capacità di ribellarsi al conformismo vigente dentro e
fuori, trascendendo ogni fantasia, sopravvivendo a tutto fuorché
all’ineluttabile destino. Che da par suo, indirettamente le ha
concesso di assistere alle tragicomiche qualifiche razziste a Via
col vento,
e addirittura alla sua cancellazione dai listini HBO. Il resto,
inclusa la diceria secondo cui avrebbe “doppiato” Vivien Leigh
nel dar di stomaco, appartiene a una leggenda: eclissatasi per
sempre, come lei.
Francesco Saverio Marzaduri
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