I banditi del tempo: TENET
I banditi del tempo: Tenet
“Chi controlla il passato controlla il futuro”, scriveva George Orwell, “chi controlla il presente controlla il passato”. E ancora,
dichiara
Scorsese, “il
cinema del passato è un’invenzione
del futuro”. Entrambi gli aforismi
potrebbero riassumere quel che stando all’opera
di Christopher
Nolan, sul piano della confezione, ha l’aria
d’un
ulteriore Prestige,
e su quello della fruizione filmica null’altro
che un mero gioco di tecnica dilatato per due ore e mezza. Nessuno
obietta alla magna confezione blockbuster,
pellicola 70mm e IMAX, di esentarsi dal principale compito: uno
spettacolo di roboante fracasso, che però intriga e avvince; e
stando ai primi risultati, con cui l’undicesimo lungometraggio del
cineasta britannico è accolto tra un chiacchiericcio mediatico e
l’altro, è più che probabile che l’esito risollevi le sorti del
grande schermo dopo la tristemente nota situazione pandemica. Nemmeno
si rimprovera che nell’inoltrato 2020, ormai al termine, la
fantascienza coniugata alla
spy story
e/o al mélo
si reinventi carte collaudate sbizzarrendosi nel giochino della
riproposta cinefila. Fatto sta che Tenet
si concentra in prevalenza su un’idea astuta – il tempo
multistrato, trafugato nella finzione e stravolto nell’assorbimento
visivo – rimarcata nel bel mezzo dell’azione come fosse un
mini-saggio di ricezione narrativa. Il tempo, nella produzione di
Nolan, è costante preliminare con cui piani e unità s’incastonano
sino a definire un mosaico con le tessere a posto: se n’è avuta
un’eccellente riprova nel precedente Dunkirk,
in cui l’aritmetica struttura ostentava la prospettiva spaziale
attraverso tre diversi momenti, finché la situazione non
s’ingigantiva e il ritmo si faceva sempre più concitato. Qui, dopo
un incipit in cui l’anonimo agente segreto John David Washington,
nel corso di un’azione-copertura al teatro d’opera di Kiev,
sottrae un enigmatico oggetto prima di esser torturato dagli ucraini
per estorcergli informazioni e refurtiva, il piano temporale
restringe nitido il raggio fino a divenire fil
rouge
(come quello sullo zaino dell’uomo mascherato che “salva” il
Nostro). Sicché la spiegazione fornita da una dottoressa –
complice l’esempio d’un proiettile che torna indietro,
“risucchiato” dal tempo dopo aver colpito il bersaglio –
illustra l’idea di base, che il conseguente intrico provvede a
dispiegare in un tourbillon
di esplosioni, sparatorie, corse mozzafiato, inseguimenti al
cardiopalma e scorci paesaggistici da cartolina in movimento. Il
palindromo che ribattezza la missione dell’agente, appunto il
Tenet,
implica che, in un ulteriore futuro, una più affinata tecnologia
permetta agli oggetti d’invertire l’entropia, spostandosi
indietro mediante un’inversione di flusso temporale. Entro una
miscela d’ingredienti standard della produzione spionistica à
la
Fleming, che talora unisce il cinecomic
(il bumping
jumping
per scalare un grattacielo) al sempiterno melodramma, una temporalità
a doppio strato si combina e rimescola avanti e indietro suggerendo
che il malvagio – e imbolsito – Grande Fratello Kenneth Branagh,
dominatore del tempo nell’assunto, sia body
double del
burattinaio Nolan capace di esagitare lo scatto d’una serratura,
onde permettere agli eroi di evadere, o rallentare un corpo a corpo
tra il protagonista e il suo doppio camuffato da una maschera a
ossigeno, senza temere di sfiorare la maniera; così pure
l’apparizione-lampo di Sir Michael Caine è alter
ego di
lui stesso, provvisto di nome anagrafico e titolo. Bifronte, come il
tempo e chi lo impiega: tant’è che il duplice registro si disvela
quando Sator-Branagh, minacciando di morte la moglie Elizabeth
Debicki sotto gli occhi dell’agente, intraprende un “movimento a
tenaglia temporale” in cui metà dei propri uomini si muove in
avanti e l’altra indietro, ognuno con le conoscenze acquisite dalle
rispettive metà. Né mancano movimenti in cerchio della m.d.p.,
indice congeniale per il tipo di confezione quanto il montaggio
alternato, adibiti a suggerire come il tempo, per quanto astratto e
informe, non escluda una chiusura; e i cronometri dei militari,
insieme all’immancabile comparto sonoro, aderiscono a una ritmica
resa ch’è obiettivo primario dell’operazione. Proseguendo un
capitolo iniziato con Inception
e protratto da Interstellar,
Tenet
è un prodotto di transizione che si premura di arrotondare la cifra
dell’autore senza accludere granché a quanto mostrato nei film
precedenti: un lavoro aritmetico – o meglio, algoritmico – atto a
dimostrare come la direzione temporale, nell’opposto peregrinare di
emisferi paralleli, giunga simmetricamente “fuori tempo”. La
sensazione però è che lo spunto originario s’avviluppi su sé
stesso, rivelandosi escamotage
con cui rimpinguare un palpabile vuoto d’aria, suggerendo al
pubblico se non stia assistendo a un’operazione-paradosso o a una
gratuita boutade.
Al pari della fantascienza, la celluloide è materia in cui nulla si
crea o distrugge, trasmutandosi e rinnovandosi costante (gli echi che
qui è facile ritrovare spaziano da Superman
a Terminator,
sino all’inevitabile Ritorno
al futuro),
e in questo risiede il fattore-divertimento. Eppure, chi scrive
ritiene che messaggio e posterità si pongano quale vivace
rivisitazione – divertita, più che divertente – delle teorie di
Bazin, infrante e rifatte proprie. Più di mezzo secolo fa, questo
indimenticato critico osservava che la Settima Arte, intesa come arte
del Tempo, ha in sé il privilegio di ripeterlo, e implichi che la
realtà riprodotta e riorganizzata dal cinema sia quella del mondo in
cui viviamo: il continuum
sensibile del quale la registrazione riprende una sagoma
spazio-temporale. Francamente, si dubita che l’immagine riprodotta
da Nolan moltiplichi la qualità del segmento originale col contrasto
della reiterazione, conferendogli solennità supplementare: se già
il dilemma s’era posto col menzionato Interstellar,
in Tenet
la soluzione si semplifica dietro il paravento fantapolitico, reso
tuttavia ripetitivo e privo di reale emozione. Benché l’autore sia
lungi dallo scimmiottarlo, distante anni luce è l’esempio teorico
di De Palma, e pure l’ammiccare al prototipo hitchcockiano;
squadernato l’arcano, non resta che la routine, inclusa una
desertica battaglia a ritroso. Quel che indispettisce, semmai, è
che il successo di Tenet
si legga come un innocente desiderio di evadere dall’odierna
situazione collettiva, tornando indietro – mentalmente se non
fisicamente – alla fase pre-COVID (e talvolta il protagonista
indossa una mascherina), quasi che la confezione suonasse indiretta
allegoria sociale, e perfino politica (potenziale Lex Luthor, Sator
rimanda al modello oligarchico russo, con tanto di assonanze
putiniane). E anche senza la moraletta conclusiva, secondo cui il
Caso è la reale bomba inesplosa (“il pericolo che può cambiare il
mondo”), il più studiato cinema di testa, nel senso
dell’intelligenza, non può molto senza una parvenza di cuore. Come
il cinema – questa la lezione che si evince – è destinato a non
aver presente né futuro, solo passato.
Francesco Saverio Marzaduri
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