Il caso Norman Jewison
Il caso Norman Jewison
Ripensare alla filmografia d’un autore come Norman Jewison, giunto in questi giorni alla veneranda età di 94 anni, significa riesaminare una
produzione di cui l’odierno cinema americano, in apparenza, pare
non patire più di tanto l’assenza, e dalle generazioni intermedie,
tutt’al più, spicciativamente etichettata come démodé.
La ragione non sta forse nell’indifferenza o nel mancato desiderio
d’una rilettura – tipiche peraltro d’un climax
storico-politico che tende a dimenticare l’etimologica concezione
di “valore”, secondo le dottrine culturali nordamericane. Si ha
anzi la sensazione che le attuali tendenze stars
& stripes facciano
di tutto per rimuoverlo, senza curarsi di retrocedere la propria
immagine a distanze temporali non commensurabili. Mezzo secolo (di
quale velocità, poi!) separa i giorni nostri da un periodo in cui
spunti e tematiche sociali, preferibilmente di portata liberal,
erano materia prima sullo schermo, offerti come appassiona(n)ti
apologhi morali, senza però rinunciare all’agiata cassetta. Se
tempi, mode, gusti si rinnovano a ruota, si sorride pensando che
oltre a Jewison mestieranti del calibro di Hal Ashby (che con lui
compì i primi rilevanti passi nel cinema), Stanley Kramer, Robert
Mulligan, Stuart Rosenberg, Jerry Schatzberg o Paul Mazursky non
erano oggetto di articolate analisi a causa di un’attenzione al
portafogli spesso prevalente sugli assunti. A ripensarci, proprio
nella scelta d’una media confezione, agile piglio e ammiccante
successo, risiedono uno smalto e un pregio smarritisi poco a poco; se
poi la produzione concilia con una predilezione per canovacci
giudiziari, implicanti questioni etiche dalla disuguaglianza alla
natura della giustizia, al pubblico cresciuto con tali prodotti non
resta che la nostalgica riflessione.
“Quando
faccio un film, non voglio che diventi un mezzo di propaganda
sociale”: l’aforisma del canadese Jewison, originario di Toronto
ma di chiara discendenza ebraica, abbraccia un’intensa esperienza
di vita che annovera il servizio in Marina durante il secondo
conflitto e, prima dell’apprendistato in televisione con lavori di
leggera fattura, la scoperta di quel razzismo dilagante che
costituisce l’epicentro di molte pellicole. Nell’opposto modus
operandi tra
un elegante poliziotto di colore e un pregiudizioso sceriffo bianco
d’una cittadina nel Mississippi, l’incensato La
calda notte dell’ispettore Tibbs è
l’esempio più chiaro, ancorché legato a un’impostazione di
edificante classicismo. Ma occorre attendere diversi anni prima che
il cinema d’inchiesta giudiziaria incontri la causa all
black,
e sterzi deciso verso la categoria, affrontando l’indagine
sull’assassinio d’un sergente nero in Storia
di un soldato e,
seppur con qualche concessione di troppo, in Hurricane
– Il grido dell’innocenza,
ambedue titoli le cui gestazioni, per un motivo o per l’altro,
incontrano parecchie difficoltà: nel primo, trasposizione di un
dramma di Charles Fuller insignito del Pulitzer, il capitano
afroamericano a capo della ricerca subisce pregiudizi e rancori di
popolazione e commilitoni, essendo il primo nigger
a ricoprire un’alta carica, e nel secondo il disegno palesemente
romanzato di Rubin Carter è quello di una vittima ingiustamente
perseguitata dalla società wasp,
sadica e ipocrita. In questi casi, la verosimiglianza storica è
sminuita dall’operazione-denuncia (Hurricane
è fortemente voluto dal protagonista Denzel Washington) per la cui
realizzazione, nonostante benevoli fini, si opta per spigolosi
compromessi: pare che per Storia
di un soldato,
l’allora governatore Bill Clinton abbia aiutato Jewison a convocare
membri della Guardia Nazionale; espedienti d’antica estrazione,
forse la principale ragione per cui dietro nobili intenti certo
cinema americano, tacciato di ambiguità cerchiobottiste, è oggetto
di polemica di film
maker
neri che accusano i bianchi di appropriarsi d’una cultura
non loro.
La
Storia, si sa, è fatta di contraddizioni. Contraddittoria è la
stessa America, ed è difficile non osservarlo nel suo
contraddittorio sistema giudiziario: come a proprie spese scopre il
legale Al Pacino di …e
giustizia per tutti,
iperbolico apologo ad alta progressione catastrofica. Complice uno
script
firmato tra gli altri dal futuro cineasta Barry Levinson, l’integrità
morale d’un avvocato, la cui etica è compromessa da una buona
azione, è posta di fronte a un bivio: che senso ha farsi tutori
dell’ordine, quando l’ordine in sé è tanto scombiccherato da
proclamare colpevoli dei poveri cristi e assolvere i veri colpevoli,
personificati da un giudice violento e sessuomane? Ancor prima che
Danny DeVito, il nostro Leone e più recentemente Scorsese ci tornino
sopra, la vicenda del sindacalista Jimmy Hoffa, ribattezzato Johnny
Kovak e interpretato da Sylvester Stallone, in F.I.S.T.
mostra
come carisma e ascendente sugli operai – il “pugno” del
titolo-acronimo – possano poco per elevare nobili profitti: sicché
l’ineluttabile mafia è dietro l’angolo... Pure, al di là di
qualsiasi chiacchiericcio religioso, il Gesù dell’osannato Jesus
Christ Superstar non
è l’antesignano del valore fatto Verbo in ogni sfaccettatura? Che
l’autore non esprima compiutamente – o necessariamente – il
mistero del Profeta poco interessa, tanto più che
la
resurrezione è anticipata
in una trasfigurazione
ch’è
anche quadro della riesumazione. E relativamente a pamphlet
che sposano l’inchiesta al mistero religioso, in Agnese
di Dio
si pensi alla dubbiosa psichiatra incaricata della perizia tesa a
stabilire se la suorina fosse in grado d’intendere e volere al
momento del delitto, e per la quale costretta a lottare con
istituzione clericale e (presunta) fede nel miracolo.
Se
talora si tratta d’indagini sulla Storia, e le ragioni inspiegabili
dei conflitti tra le sue pagine (Vietnam
– Verità da ricercare),
la Storia quale regolamento di conti del destino torna per l’ultima
fatica di Jewison: The
Statement – La sentenza,
tratto da un romanzo di Brian Moore ispirato alla vicenda di Paul
Touvier, in cui un ufficiale del governo di Vichy, reo di aver
ordinato l’esecuzione di sette ebrei, è arrestato dopo lunga
latitanza grazie a settori integralisti della chiesa cattolica
francese, e condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità.
Complice lo sfarzo d’uno spettacolo che alterna musica e danza a
mesti sorrisi, la Storia è anche occasione per riflettere su
tradizioni e cultura d’appartenenza, ed ecco l’adattamento de Il
violinista sul tetto,
ambientato in un immaginario shtetl
della
Russia zarista. Ma il concetto uno e trino di
etica-giustizia-comprensione, che le oscure forze d’un potere
prevaricante tendono ad azzerare nell’apocalittico Rollerball,
non necessita per forza di allegorie ad alto budget,
di
violento avvenirismo, perché l’ordine torni allo stadio
embrionale: Cincinnati
Kid Steve
McQueen, in un’opera in un primo momento affidata a Peckinpah, suo
malgrado deve contentarsi del secondo posto, dopo aver sperato fino
all’ultimo di battere il “re del poker” Edward G. Robinson, e
magari raccoglierne lo scettro.
E
se lo spaziamento tra generi non sempre concilia con un’individuabile
visione autoriale, o non tale da riconoscere un’eventuale
politique,
dov’è scritto che dietro serie riflessioni, contraddistinte da
maturità e meditazione, non ci sia posto per ingenui sorrisi?
Tiepidi brodini dopo anni d’intrattenimento tv, le commedie anni
Sessanta – tra le quali l’antimilitarista Arrivano
i russi, arrivano i russi o
il giallo-rosa Chicago
Chicago,
anch’esso indagine sulla corruzione politica della metropoli del
titolo – rigogliscono nella forma sofisticata degli Ottanta col
fortunato Stregata
dalla luna,
seguito dal cinico rampantismo de
I soldi degli altri (in
cui la vecchia gloria Gregory Peck, benché vanamente, pronuncia un
discorso ch’è l’essenza di ruoli da lui interpretati per oltre
sessent’anni) e dai fantastici sentimentalismi di Only
You – Amore a prima vista
e Bogus,
l’amico immaginario,
rifacimenti questi ultimi di collaudate formule dove fantomatiche
creature fungono da antidoto per la ricerca della felicità. Ciò che
poteva risultare vincente un trentennio fa in uno studiato
elementarismo, non sempre è replicabile con gli identici strumenti:
l’America cambia faccia, sullo schermo la giustizia non trionfa con
la medesima facilità di prima. E nonostante il conseguito traguardo
dei 94, artigiani d’impegno civile quale Jewison non sono che
testimonianza del divario Passato-Presente.
Francesco Saverio Marzaduri
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