Questa volta parliamo di Lina

Questa volta parliamo di Lina 


Che Nanni Moretti non nutra simpatie per Lina Wertmüller è cosa nota, come mitizza il conato di bile verdastra di cui l’alter ego Michele Apicella, nel primo lungometraggio del cineasta, è vittima solo a pronunciarne il nome (figurarsi di fronte a un accenno di rivalutazione...). E altrettanto nota è la reazione di Nanni in primis, quando l’autrice per eccellenza di film dal chilometrico titolo desidera conoscerlo di persona: il poco cavalleresco rifiuto di stringere la mano alla regista, romana ma di remote discendenze svizzere, non sarà mai dimenticato dalla Nostra tanto da rammentarlo, otto anni fa, nell’autobiografia Tutto a posto e niente in ordine, riprendendo un altro lavoro della propria produzione. Segno che se il tempo non lenisce mai completamente certe bruciature, il milieu cinematografico dispone di talenti, tra alti e bassi, non sempre reciprocamente disposti su registri di empatia. 
A onor del vero, la benemerita Lina – all’anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich – non avrebbe bisogno di rivendicare torti passati alla storia, e la statuetta onoraria con cui l’Academy ne ha celebrato i quasi sessant’anni di prolifica attività, alternando prodotti in costume, trasposizioni teatrali e fiction (e conciliante con le conseguite 92 primavere), non suona in altro modo se non come riconoscimento appropriato, benché per più d’uno azzardato. La stessa Academy, si sa, è sfera contraddittoria quanto ambigua, che spesso tardivamente premia, quando non trascura di omaggiare firme ben più meritevoli optando per altre d’impronta meno profonda e non sempre destinate a perdurare; in questo caso però si tratta di (rara) scelta coerente, tesa a ricordare che proprio la Wertmüller, quarantatré anni prima, fu la prima donna ad esser candidata per quel Pasqualino Settebellezze sarcasticamente dileggiato in Io sono un autarchico. Non meno vero, e lo comprova anche la menzione del suo nome in un film di Paul Mazursky, che le qualità registiche di Lina abbiano conosciuto maggiori consensi negli States più che in Italia, dove il successo di botteghino sopperisce a una critica poco incline alla lusinga; e anche se la Wertmüller non gradirebbe che l’episodio con Moretti fosse il primo motivo per cui la si ricordi, tale circostanza, insieme all’Oscar alla carriera, è bastevole a radiografare un’opera in cui lo stile conta più dei risultati, ove gli usi e costumi sociali del decennio Settanta, a base di sovvertimenti politici e mutamenti relazionali si scontrano, ineludibili, con la formula (vincente) della farsa grottesca. Proprio la nostrana commedia iniziava l’amaro countdown, non potendo e forse nemmeno volendo più mettere in burla spunti e assetti che la cronaca seguiva e immortalava con marcata accentuazione; sicché il climax giovanile del tempo, trovando nel genere in oggetto un nemico dal quale prendere debite distanze, non le mandava a dire verso un’alterazione dei fatti che metteva in burla argomenti delicati attraverso i facili escamotage del nudo mercificato o della parolaccia a fior di bocca. 
È ovvio che rivedendo il marinaio comunista Giannini alle prese con la sciura Melato, e il ribaltamento sessista di ruoli che ne sfata contrapposte classi e ideologie, l’insolito destino nell’azzurro mare d’agosto tuttora costituisca oggetto d’ilarità (cerchiobottista) sulla falsariga d’una nostalgia che il Paese avrebbe oltrepiù involgarito, persino vanificando la grevità d’uno humour eletto a fiero specchio (deformante). E un destino ancor meno insolito, nella combutta tra metalmeccanici che ammiccano a Bertinotti e parrucchiere leghiste, è dato dal rifiuto del pubblico verso una formula riproposta identica nei vezzi. Il che indurrebbe a ritenere come il cinema di Lina Wertmüller, in passato, si elevasse una spanna sopra la confezione di grana grossa così in voga, equivoci e doppi sensi permettendo, per merito d’un indovinato mix d’interpreti, laddove l’occhio dell’autrice sembrava guardare più a un Germi in salsa sbracata che a un Petri più attento all’allegoria, benché non esente da toni urlati ed altrettanto eccessivi e veementi. “Una caratteristica comune – nota Fabio Fulfaro – sono lunghe parti avulse dalla narrazione che non approfondiscono ma ripetono all’infinito il concetto”, e ciò quando non imperversa il tedio. Semmai, quel che induce al sorriso sono colpi bassi piazzati qua e là (si prenda il corpo femminile, all’occorrenza sgraziato e ingigantito a livelli inverosimili), riveriti da un insistito vernacolo coprolalico, a scapito d’idee cui non servono strilli, pesante pochade dove l’iperbole – senza rinunciare alla celia – in molti passaggi coglie nel segno (la Trinacria contrappuntata dai nei d’un fregoliano Turi Ferro), avviandosi verso drammatici epiloghi. Tutto il mondo è Paese: così pure la Storia, tra le riposte pieghe dell’Assurdo, funge da teatro dell’umana barbarie e del conseguente orrore, i cui protagonisti, ambiziosi vendicatori o guappetti vigliacchi, si rivelano inermi vittime della situazione di volta in volta al centro; e lo stesso Fato trasforma chi da un lato ambisce a prode leone, pur senza serbarne le caratteristiche, e a potenziale mostro dall’altro, indotto all’infame azione per salvare la pelle (o meglio, ppe’ tira’ a campa’). Luogo feticcio dell’autrice, la Napoli folkloristica popolata da sciantose e camorristi, complice l’atroce esperienza in un campo di concentramento, rimane sostanzialmente la medesima, in peggio, dove la prostituzione è indispensabile modus operandi per sopravvivere all’indigenza e ai bombardamenti; amore o anarchia, è tutta erba d’un univoco fascio, per il quale si può rimproverare a Lina un reazionarismo di fondo – qualunquista, si dirà – eppure disperato nel suo grido d’allarme. 
L’impressione è però che la visione registica non si spinga oltre il paradigma, arenandosi al citato svolgimento anche in generi successivi quale il mélo (ragion per cui l’unica pellicola della Wertmüller girata in America, La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, è un mezzo tonfo), mentre la satira di costume, che annovera la derisione dei miti in celluloide e delle soap opera, è un canovaccio ormai trito e vetusto (il trasteverino Sotto... sotto... strapazzato da anomala passione, protagonista la futura signora Berlusconi, Veronica Lario). Ciò non significa che la leggerezza di toni non sia nelle corde della Nostra, e, senza snocciolare il dittico di musicarelli interpretati dalla Rita Pavone da lei lanciata sullo schermo, è sufficiente ripensare al televisivo Il giornalino di Gian Burrasca a certificare una soavità di tocco che coniuga la pagina al teatro e alla confezione per famiglie. All’infanzia Lina sarebbe tornata nell’adattamento del best seller di Marcello D’Orta, anche qui senza rinunciare al parallelo tra Settentrione e Meridione, e a Il decimo clandestino, tratto da un racconto di Guareschi e girato a Bologna (per il quale chi scrive fece un’audizione per la scelta del casting). Soprattutto l’esordio con I basilischi, esplicito debitore dei felliniani vitelloni, ostenta a Minervino Murge la disamina d’una provincia apatica e immobile: la noia o l’occasionale svago la spuntano su pregiudizi, luoghi comuni, rituali irreversibilmente radicati nel proprio essere, rinunciando volentieri a vaghi aneliti d’evasione e maturità esistenziale; un po’ l’inverso, e un po’ no, della Sicilia fotografata una decina d’anni dopo in Mimì metallurgico ferito nell’onore. Segno che le notti d’estate (con profilo greco, eccetera) che satireggiano sull’Anonima Sequestri, i complicati intrighi di donne, vicoli e delitti, o il goffo tentativo di trattare l’Hiv, sempre nel solco dell’eccesso, si riducono a poca cosa verso una sensibilità capace di levitare in punta di fioretto, senza giocoforza ricorrere alla sceneggiata. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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