ADRIAN: il tempo (non) se ne va...
Adrian: il tempo (non) se ne va...
“Volgare è tutto ciò ch’è fuori tempo. La vita è sempre un fatto musicale.”
ADRIANO
CELENTANO
“Io
sono l’unico che non è cambiato”, diceva di sé stesso – ieri
– il barcaiolo Felice Della Pietà in Yuppi
du.
“Non so perché ho scritto Adrian”,
confessa – oggi – Celentano, “forse perché il tempo sta per
scadere”. Nessuno obietta che l’ambizione di puntare alto ed
estendere la propria politique
in sfere inusuali, nella speranza che l’azzardo raggiunga livelli
almeno soddisfacenti, venga posta come un’ultima scommessa della
vita; e chi conosce l’eterno ragazzo della via Gluck sa molto bene
che il concetto di “tempo”, espresso da protagonista in tutti i
campi, lo accompagna da oltre sessant’anni di carriera.
“I
tempi – nelle sue canzoni, nei suoi film, nelle sue performance
televisive – (non) rispettano i tempi. In entrambi i sensi. Siano
dilatati, ricreati, manipolati; o frenati, bloccati, fermati (in un
tempo). In fondo, che cosa rappresenta un ralenti
o un’accelerazione per un regista, o il rock (il funky o il
blues...) per un cantante o un musicista, o l’uso delle mille
diavolerie di una videocamera per un autore televisivo se non
l’illusione di rendere eterni momenti che si considerano magici,
fantastici, irripetibili? Allungare o restringere l’attimo
fuggente: questo è il sogno segreto di ciascun artista. Che solo la
finzione, la magia di una parola accompagnata da una nota, una finta
realtà come la televisione possono offrire. E in cambio solo di
un’ispirazione.”1
Ma il
tempo – quello reale
della vita – pare essersi arenato pure per il coerente (nel suo
essere contraddittorio) showman.
“È stato il primo, ben trent’anni fa, a parlare di smog,
ambiente e cemento armato”, esclama Piero Chiambretti in presenza
del Celebre, “fatti pagare i diritti d’autore, meriti anche un
Nobel per la pace”. Nell’inoltrato 2020, però, l’odierno
pubblico non s’accontenta più di prediche sociali che abbracciano
tutto (e niente), messe insieme alla rinfusa e declamate come
proiettili sparati a spaglio nella speranza di colpire un bersaglio
specifico: le menti pensanti. Le reti informative di
telecomunicazione e di servizio, nella fattispecie il web, sembrano
aver frenato, centuplicandola, la diffusione dei guru mediatici,
offrendo alternative di pensiero nell’elaborazione d’idee,
preconcetti, (pseudo)ragionamenti. Il recente caso della giovanissima
attivista svedese Greta Thunberg, contro il cambiamento climatico e
in difesa di uno sviluppo sostenibile, restituisce peraltro la
volontà delle neo-generazioni, tenera e sorprendente, di scendere
personalmente in campo e all’occorrenza pagar di tasca propria il
contributo solidale. Altre sono le strade, e il prototipo del Re
degli Ignoranti – per quanto l’ironico Chiambretti lo definisca
l’antenato della citata Greta – testimonia una fede in linea con
un’immagine e uno showbiz
già sorpassati. L’ambizione è rock, l’esito lento; ma il Nostro
appare più lento che Molleggiato.
“Lei è
fuori tempo, amico: oggi il mondo è cambiato!”, intimava Tina
Foster (Claudia Mori), caporedattrice dell’immaginario Corriere
dell’Est, al predicatore Joan Lui nel film omonimo, il quarto ed
ultimo diretto da Celentano; solo che era l’85 quando il costoso
kolossal
pseudoevangelico – valutato come uno dei più clamorosi tonfi al
botteghino, oltreché prodotto tra i più sfrontatamente megalomani
del nostro cinema – protendeva le furbesche mani inserendo la
figura d’una detrattrice contraria al perbenismo, all’ecologia e
agli argomenti scontati di chi li professa. Sicché non ci sarebbe da
stupirsi se Adrian
fosse
interpretabile come qualcosa a mezza via tra la più sfrontata
presunzione e la boutade,
sincera a suo modo ma non priva di calcolati cerchiobottismi: fedele
al modus
operandi di
una lunga ed eclettica attività artistica, il non meno dispendioso
serial
animato targato Clan mischia e rimescola le carte in tavola nei modi
più disparati (e disperati) sbalordendo o irritando, tra citazioni e
rimandi che si susseguono, qualche sprazzo di originalità e tanta
eccentricità. Fatto sta che l’universo
che da mezzo secolo contraddistingue la naïveté
di Adriano, infarcita oltre misura di tiritere
eco-evangelico-pauperistiche già
all’epoca
in odore di ridondanza, oggi lascia il tempo che trova e poco serve
alle leve emergenti, abituate a ben diverse esemplarità a rischio
d’assuefazione;
e il miracolo nel passaggio dal grande al piccolo schermo, dai
pulpiti di Fantastico
8
alle tempeste di Rockpolitik,
a lungo andare dissipa la magia senza conferire al suo ideatore
quel lembo di (saggia) umiltà che navigati artisti sovente
acquisiscono una volta raggiunti e superati certi traguardi. Proprio
quel Fittante che anni fa dedicò una monografia, completa e
appassionata, alla produzione di Celentano tra musica, cinema e
televisione, scrive che l’operazione “rischia di trasformarsi in
una di quelle soap
spagnole – tanto amate da Mediaset – che da qualche stagione
fanno una serrata concorrenza ai sonniferi”. Il giochino è già
svelato (e, perché no?, sventrato): a cominciare dal reale
protagonista, per l’appunto il tempo, che proietta la vicenda in un
immaginifico 2068 – un secolo esatto dopo Azzurro
–
scandito da un enigmatico mega-ingranaggio. A rifletterci, Adrian
non
è che una trasposizione animata del Mondo
in Mi 7a (e
chissà di quant’altri brani, o “robe”, del Celebre): una
caccia al tesoro – involontaria o meno, non è dato sapere – del
Celentano-pensiero
tout court,
in permanente missione per conto di Dio, costantemente zeppo di
riferimenti accumulati nella prolifica carriera. A detta della figlia
Rosita, secondo cui Adrian
avrebbe consegnato babbo all’immortalità, il pubblico era troppo
impreparato per capirlo, meno ancora si sa se sarà oggetto di
rivalutazione; ma anche se non costituisse – e non costituirà, ne
siamo certi – l’opera testamentaria del Nostro, come suggerisce
la didascalia in chiusura su un sole che spunta all’orizzonte, già
costituirebbe una vittoria se in avvenire il palinsesto mattutino,
riservato alla fascia infantile, lo annoverasse tra i format...
Non è
il caso, qui, di spender parole sul programma tv destinato a
contenere e reclamizzare l’evento, sospeso dopo quattro puntate
nell’inverno dello scorso anno e ripreso il successivo autunno:
frutto
d’una
gestazione durata oltre un decennio (l’idea risale al 2005), per la
quale vengono state spese cifre da capogiro, pare dai 20 ai 28
milioni di euro. Annunciato nel 2009 e inizialmente destinato a Sky,
Adrian
è oggetto di continui posticipi a causa dei contrasti tra il Clan e
le varie case di produzione scelte per la realizzazione del cartoon
–
il che spinge Sky alla rescissione contrattuale. Le animazioni sono
curate da migliaia di disegnatori sparsi in tre continenti, Asia,
Africa ed Europa, e comprendono oltre 10.000 scene; della
serie sono girati circa 26 segmenti da 22 minuti l’uno,
successivamente rimontati in nove puntate sui 55-70’ ciascuna, da
trasmettere in nove prime serate. Il prodotto s’avvale di
collaborazioni illustri: Milo Manara cura il character
design;
Nicola Piovani, coadiuvato da Celentano, si occupa delle musiche e
della colonna sonora; alla sceneggiatura collaborano allievi della
scuola “Holden” di Alessandro Baricco, laddove la supervisione
dei testi è affidata a quel Vincenzo Cerami venuto a mancare
anzitempo (dunque Adrian
è il primo lavoro postumo a sei anni dalla scomparsa). Ciò non
impedisce a inadempienze contrattuali e controversie tra
collaboratori – soprattutto con Manara, che si
dissocia
dall’esito
– di metterci lo zampino.
“Soggetto di
serie, bibbia letteraria e sceneggiatura di Adriano Celentano”, si
legge all’inizio di ogni episodio: per cui qualsivoglia obiezione
si muova nella reinterpretazione più o meno apocrifa dei sacri testi
(non manca neppure il tradimento dell’Iscariota di turno...), essa
risulta screditata dalle arbitrarie scelte di campo dell’autore, il
quale da oltre un trentennio è salito sul pulpito di Savonarola.
Peccato che la confezione ostenti ancora una volta l’aspetto d’un
delirio animato, più che d’una reale visione, con una mastodontica
macchina spettacolare in funzione irritante di una paternale che
pretende di scuotere le coscienze con argomenti sublimi, e
all’occorrenza dirottamenti artistici, ripercorrendo la consueta
bagarre
di luoghi comuni e moralette semplicistiche. Né più né meno la
medesima – quasi che il Tempo si fosse arenato già... a suo tempo!
– esemplificata da Joan
Lui,
secondo cui gli anni che l’essere umano vive si suppongono i
peggiori della storia dell’umanità: nient’altro che un avvenire
distopico, fatto di violenza alle donne (topos
già insito nelle regie cinematografiche di Adriano) e immigrazione,
inquinamento e disuguaglianza sociale. Verrebbe voglia di reimpiegare
le parole di Giovanni Grazzini, quando stigmatizzava che nulla è più
reazionario del far d’ogni erba un fascio: tant’è che la
pedestre ideologia del Re degli Ignoranti si risolve nell’ennesimo
spettacolo squinternato e qualunquista, che per timore dei “tempi
morti” s’inzeppa di rimandi alla cronaca nera italiana,
requisitorie da piazza e cicalecci da bar, caroselli e sparatorie,
scene catastrofiche e Pavarotti, e – tra un elicottero svolazzante
e l’altro – irrinunciabili rimandi all’iconografia sacra
(quelle fiamme dell’abisso in cui il cosmo si va incenerendo...).
Sostanzialmente, una rilettura più pagana che altro, dove il
cattolicesimo, anziché essere intimamente avvertito, sa di plateale
maniera. Nonostante l’eccessiva e spesso esasperante lunghezza,
Adrian
serba
tuttavia qualcosa d’irresistibile, e al pari dello
junk food
risulta difficile sottrarvisi, più per curiosità che per fascino.
Ma il monumentale calderone – pastrocchio anziché pastiche,
con annessa sorpresa in un’interminabile pletora di prefinali –
rimane un prodotto inclassificabile in cui la sensazione è di un
quaresimale videoclip animato, naturalmente corredato di inserti
musicali e coreografie, dove l’ineludibile redde
rationem
tra il Bene e il Male conta assai meno delle troppe cartucce sparate
(e sprecate) nei diversi segmenti. Vista la zavorra da gestire, un
guazzabuglio torrenziale in cui singoli ritagli faticano a restituire
omogenea unità, i tocchi di trasognata genialità non fanno da
collante alla storia, né le conferiscono organicità; non è facile
desumerlo ma, si sa, questo è lo straniante stile di Celentano in
una produzione che costantemente rimescola il mazzo sino al (voluto?)
depistaggio.
La partenza
è un’ouverture
simil-biblica, che a passo ridotto ripercorre la Storia a modo suo,
con una voce off
pomposa e magniloquente: conseguimento dell’umano potere, il
consumismo è la causa della distruzione della Bellezza; da Genova a
Napoli, da Milano a Ginevra, tutto il mondo è Paese in eguale
unicum.
Imminente, e inevitabile, la fine. Sfilano megalopoli semi-piramidali
con immancabile elicottero minaccioso: uno stato di polizia sinistro
e violento, corredato di scudi, caschi e manganelli, è costituito da
onnipresenti tutori dell’ordine ad ogni angolo. Speculazione e
corruzione sono irrinunciabili dogmi, perfino dove c’è lo sport (e
una paternale del protagonista annullerà un evento calcistico), le
donne facile oggetto di abuso e sopruso, il cibo contaminato e
immangiabile (il ragazzino che addenta una mela, secondo il cliché
favolistico). Malsana l’atmosfera (e nessuno ancora ipotizza un
COVID-19!), bufere d’acqua sporca e schifezze... Sotto un cielo che
offre spiragli di splendore a pochi, la società è in mano a una
corporazione di oligarchie malavitose ribattezzata Mafia
International e in odore di Spectre, legalizzata come un rispettabile
marchio di fabbrica (il Capo dei Capi, abbigliato di bianco come il
Tony Montana di Scarface,
si chiama Dranghenstein). E non si può escludere la Chiesa, collusa
e consenziente ai loschi traffici in cambio di favori e tornaconti.
Protetto da
Anidride e Carbonica, due sagge sensei
eternamente giovani nonostante l’avanzata età, il Nostro è un
orologiaio (e “Orologiaio” è il soprannome affibbiatogli dai
fan), invitato sul palco dall’ossigenato e borioso cantante Johnny
Silver nel corso del tradizionale concerto di Capodanno voluto dal
potere; la star, ovviamente organica al sistema, lo sfida a cantare,
presto pentendosi di avergliene offerto occasione. Si capisce che
Adrian
è una riscrittura aggiornata (si fa per dire) del più volte
menzionato Joan
Lui
la cui chiacchierata presenza, armata di chitarra elettrica,
spiazzava un turbolento raggio d’azione con un musicato messaggio
pacifista – qui speculare all’aiuto concesso dal protagonista a
un ragazzo, nel tentativo di conquistare la morosa con due righe (con
in sottofondo Ti
penso e cambia il mondo):
“La bellezza non si paga”. L’inevitabile caccia all’uomo, con
annesso premio in palio per il ritrovamento del misterioso
personaggio, stuzzica la curiosità d’una cricca di teenager;
sicché Lui si fa passare per “la Volpe”, con fascia nera per gli
occhi in stile Zorro, sgomina i nemici a colpi di arti marziali
pronunciando bizzarre rime e danzando passi di tango tra una botta e
l’altra (e questo, a lungo andare, è l’aspetto più ridondante
del format).
E ancora, per sviare tracce e sospetti, s’inventa una terza
identità anagrammando il proprio nome in Darian e nascondendosi
dietro una gobba posticcia, una parrucca bianca e un paio di occhiali
scuri; un po’ Caronte, un po’ Virgilio (e Virgilio si chiama un
prete presente nella storia), fa da traghettatore-guida per canali e
sotterranei, benché il travestimento lo apparenti a una Befana –
come in tal veste viene chiamato – e Gilda stessa, che inizialmente
ne ignora l’identità, lo reputi un fantoccio manovrabile dal
potere. Ma si tratta di un’arma ritorta contro chi il paravento lo
filosofeggia, e lo pratica, in maniera legale: il pubblico,
soprattutto giovane, accoglie il nuovo idolo ballandone il leitmotiv,
non discute d’altro, si diverte a remixarne la leggenda in
discoteca prima di coalizzarsi in una cellula di ribelli al sistema
(“E se noi tutti insieme, in un clan ci uniremo, cambierà questo
mondo...”). Nel frattempo, le immagini di Lui sul palco che canta e
si dimena svaniscono nel nulla, forse per supremo ordine dall’alto
(e l’incredulità dell’anchorman,
alla notizia che l’intervista a Darian-Adrian è omessa, è un déjà
vu che
rimanda a Tina Foster). Personificato da un governo che sentendosene
minacciato ne esige la testa, il Male cerca di sottomettere
l’Orologiaio con uno show tv purché non intralci il malaffare; ma
Lui rifiuta, a dispetto di Joan che se ne serviva a proprio benefico
scopo.
Nel monstrum
si
sprecano fatidiche allusioni all’attualità e alla politica,
attuale e passata: si pensi all’incorruttibile onorevole Limonati,
avvelenato con una tazza di caffè come Pisciotta e Sindona, e
celebrato, in un parlamento analogo a quello della Rivoluzione
Francese, con un’ipocrita legge che sa di tripudio per la
dipartita. Ce n’è per tutti i gusti: anche per il contenitore
televisivo, tacciato di creare morti viventi ignari di esserlo ancor
prima della messa in onda, laddove il servizio pubblico che fiuta
qualcosa e potrebbe denunciarlo è oggetto di boicottaggio e censura.
L’impasto, però, non si premura di nascondere allusioni sin troppo
scontate, mostrando i piani alti del potere quale interconnesso
racket, alla maniera d’un Partito spia degno di Orwell (e infatti
fa capolino il Grande Fratello...); i due ambigui agenti speciali che
si fanno rispettare a suon di ceffoni, interrogatori e battute
bislacche, prima di passare alla sponda opposta, vestono in nero al
pari degli eroi di Men
in Black
(o dei Blues Brothers), e rinviano a Matrix.
Improbabile, ma non impossibile, che Celentano si rammenti della
letteraria Momo, giacché la magica bambina creata da Michael Ende –
guarda caso trasposta in un bel lungometraggio animato di Enzo D’Alò
– si scontra coi fumosi Signori Grigi, parassiti sovrannaturali
dediti a sottrarre il tempo delle persone.
“Il tempo
non è bello”, dichiara laconico il protagonista non esattamente
rivolto al tempo musicale, la cui insegna declama, a mo’ di
salvifica missione, “La bellezza ti salverà”. Una coloratissima
grafica, in mezzo a cui ogni tanto s’insinuano spunti pittorici,
sposa un montaggio computerizzato a elettroshock condito di sonoro
frastornante, tra ralenti,
stacchi, zoom
avanti-indietro, e una più che generosa abbondanza di canzoni di
Adriano, con una a fungere da leitmotiv
(I
want to know,
tratta da uno dei vinili da lui prediletti, Svalutation).
S’accludano fondali apocalittici gremiti di fulmini e disastri, e
si assiste al solito straniante e/o straniato show del Molleggiato,
dilagante tra una frase a effetto e un motivo musicale, dove la
scaletta è presto ridotta a evanescente pretesto: di episodio in
episodio, tutto è accentuato sino allo sfinimento, senza temere
recidività o il più ovvio didascalismo, e troppe risultano le
battute in cui l’intento didattico è tanto ostinatamente ricercato
da rientrare nel consueto interrogativo (ci fa o ci è?) sull’autore.
E la conferma su annunci a megaschermo che strizzano l’occhio a
Godard, diciture esplicative in bella mostra come titoli di testate
giornalistiche (tipo “il Nulla”) e al centro la sagoma del Nostro
che s’incammina verso l’obiettivo, non potrebbe suonare più
palese. Né buoni né cattivi ma semplicemente brutti e innocui, i
dialoghi sono così surreali da sfiorare – ardua impresa! –
l’umorismo involontario: una riprova si ha quando Adrian, ai piedi
del Duomo milanese, spiega a una scolaresca il concetto di “bellezza”
prendendo a esempio l’amico
Leonardo Da Vinci, a sua volta eco dell’ultima apparizione
cinematografica di Celentano (l’altrettanto dispendioso quanto
fallimentare Jackpot,
il cui interprete, in un’occasione, si rinominava Leonardo).
Perché, si diceva, Adrian
è un raccozzo della filosofia semplicistica dell’artista? La via
Gluck in cui abita il protagonista – il cui tratto grafico riporta
alle scenografie di 125
milioni di caz..te –
è il solo spiraglio rimasto d’incontaminata
purezza, nonostante la minaccia di un cielo infuocato, e i popolari
Navigli
milanesi l’unica parte neorealista d’inalterata pace, speculare a
un monumentale grattacielo parlante (forse un albero di trenta
piani?), imperante moloch
che pare uscito dalla matita di Guido Manuli. Il ritorno
all’eco(log)ismo è ribadito dalla preferenza riservata alla
campagna rispetto alla metropoli, che s’insinua qua e là a mo’
di pausa onirica: fuori città è infatti il casale-rifugio
illuminato al tramonto dove Adrian si ritira e amoreggia con la
compagna Gilda (col vento che li spettina un po’...), in seguito
raggiunto dal canterino Johnny Silver tornatogli amico. Pure, se si
esclude la figura d’un giornalista con le sembianze di Gino
Santercole, cui la serie è dedicata, non si può non segnalare
quanto la fidanzata guerrigliera e un po’ amazzone sia ricalcata su
Claudia Mori, e si chiami Gilda come l’insegnante d’inglese da
lei impersonata in Geppo
il folle.
Spunta poi un facsimile dello scrittore-alpinista Mauro Corona,
ribattezzato Tony, che a un certo momento accoglie l’eroe, colto da
temporanea amnesia, sotto la propria ala sui monti (il che riporta
alla trasferta sulle nevi dove Geppo recitava il messianico
pistolotto).
Lasciamo perdere
le reazioni finto-bigotte rivolte alle parentesi scabrose, che vedono
il protagonista far l’amore con Gilda, in cui a tratti si ritrova
lo spirito delle strisce fumettistiche “adulte”; l’idea stessa
di scimmiottare gli anime
giapponesi apparenta Adrian
allo stop-motion
di Corto Maltese, più che di Akira
o
affini. Nell’avveniristica mattana, tra le reminiscenze a iosa (da
L’appartamento
a Il
bacio della donna ragno
e all’immancabile Via
col vento),
spuntano archetipi fantascientifici quali Metropolis
e
Blade Runner;
e fa capolino Welles nella boccia di vetro con la città linda e
pinta in luogo della fattoria sotto la neve. Il riferimento alla
carta stampata (l’immaginifica testata “Verità Quotidiana”) fa
il paio con quello alle gloriose stripes,
e un direttore con immancabile sigaro è sulle tracce del
neo-Superman. Un magno mare new
age,
che sogna gli addetti agli ingranaggi del tempo mentre biascicano uno
stravagante accento francese à
la
Poirot. La forma primeggia sul contenuto, non esiste la retorica se
il suono è giusto: ma la conclusione, si diceva, è una summa
del paradigma-Celentano i cui (troppi) difetti prevaricano sulle
(rare) virtù; non basta citarsi addosso riesumando lo spettro del
barcaiolo di Yuppi
du,
o canzonare un devoto clericalismo (lo striscione col monito “W il
Papa”). Sia pur condensato, il troppo stroppia; e l’ironia,
quella vera, latita.
Tanto persistente
giunge il superomismo del personaggio – e da un pezzo si sospetta
che il bisogno di onnipotenza sfiori la patologia – che, superato
lo scoglio, quanto resta è un’impressione di patetica tenerezza:
se trentacinque anni prima ci si poteva indignare per la presunzione
di egolatria, ora non si può che sorriderne constatando quanto la
politique
del Celebre, convinto che la pubblica ottusità da lui spiegata sia
ancora spacciabile per oro colato, s’avviluppi sui medesimi luoghi
canonici. Facciamo finta che sia tutto vero, continuando a giocare
coi titoli della sua discografia; anche se la situazione non è
buona, tanto i mali del secolo dominano incontrastati (corrispettivi
all’altra metà del cielo), la palpabile e via via irritante
sensazione di autocompiacimento è rimarcata da immagini di Celentano
in carne e ossa, durante la tormentata edizione di Fantastico
condotta nel 1987, commentate da un giovane Enrico Mentana e diffuse
da uno schermo al plasma. “È lui che vorrebbe essere come me”,
mormora Adrian-Darian, “tra i due quello vero sono io”: e nel
confidare a Johnny che l’originale Adriano vorrebbe essere come
lui, emerge un addizionale quid
narcisista che da purificante momento di chiarezza sublima nel
vetusto delirio d’onnipotenza. C’è sempre un motivo (per tornare
a capire); come l’animato simulacro di un originale non invecchia
né muore, ma esplica la scelta di raffigurare tale alter
ego come
il fisico prestante che fu – se non più avvenente – contrapposto
all’invecchiamento ostinato e precoce che il Molleggiato da sempre
coltiva verso sé stesso, e alla lenta realizzazione dei progetti.
Eppure, se nel cartoon
il pubblico lo prende a modello e continua a seguirne l’indicazione
di migliorare il mondo, nella realtà sembra accantonarlo pian piano
o, nel caso della serie in oggetto, temporaneamente rifiutarlo. Come
per l’eterno Messia con cui si sente in tal confidenza da potervisi
identificare, che cade, spira, risorge. E si moltiplica, uno e trino,
e tre sono infatti i ruoli che il Nostro si cuce addosso: Adrian,
Darian e “la Volpe”. A qualche modello, dopotutto, bisogna pur
ispirarsi. Ma laddove Adrian è un solitario, Darian ha molti
seguaci, e come Cristo viene fatto prigioniero, senza bramare di
evadere, nell’esultanza generale dei fedeli che l’acclamano e gli
dedicano fiaccole.
Da lustri
il Celentano-personaggio non necessiterebbe di prodursi quale
anchorman
messianico per accattivare il pubblico: il solo cimentarsi in un
balletto tanto più disarticolato quanto più in costante equilibrio,
o il “parlare” coi silenzi, restano espressioni e indici
appartenenti a una tra le maschere in assoluto più vulgate (e
rappresentative) del costume nostrano, e da soli valgono l’originale
estro di un artista singolare, amabile o trascurabile che sia. Scrive
Fittante:
“Corpo
dinoccolato capace di performance
istintivo-musical-eco...iste e volto da scimmia che nemmeno tutte le
Cite dell’immaginario collettivo, l’anticonformista divulgatore
del rock italico è un po’ artista e un po’ no (come ama
definirsi lui), un
er più dell’ironia,
un urlatore che sa anche ridere di sé, un moralista
involontariamente troppo sottile e dunque sovente oggetto di bordate
che non meriterebbe.”2
Quand’anche
coi silenzi e il proprio “analfabetismo” lo showman
sembra non aver nulla da dire in apparenza, osserva Michele Serra:
“Nei
suoi momenti migliori (non pochi), nelle sue possessioni più
misteriose (a volte parla l’italiano come l’indemoniato il
sanscrito), Celentano ha sempre saputo violare ampiamente i confini
della propria macchietta. Quando è in forma ragiona come uno degli
eroi rurali (e democratici) di Mark Twain, demolitori dell’ipocrisia
classista e del perbenismo dei piccoloborghesi urbanizzati. Quando è
fuori forma è anche meglio, una specie di fool
afasico, ingovernabile, imbarazzante, che abbiamo visto esposto nella
gogna del sabato televisivo come il monstrum
in cattività, memoria vivente dello spavento da cui tutti veniamo –
la fame, il freddo, la paura, la boscaglia... – eppure,
dignitosissimo, sempre, come chi non deve fingere, e si sente benone
nei suoi panni.”3
Nessuno dubita
che Adriano, nel proporsi come stentoreo Messia, si convinca di ciò
che proclama e trasmette al pubblico; eppure, se una parte di Lui
risulta gradita perfino a chi non lo ammira, è perché sotto una
patina irritante o ciarliera si nasconde un fior di cantante, entrato
di forza nelle più riposte tenerezze dell’immaginario collettivo.
Che risponde all’appello perché Celentano è un artista – quanto
(in)consapevole? – così “fuori tempo”, così senza tempo. Che
alla fin fine, come il miglior scacchista professionista, supera la
partita d’una vita. Conclude Gino Castaldo:
“Se
tutti perdonano tutto al Celentano dei monologhi è perché sotto
sotto lo amano come cantante. E ai cantanti si concede molto, perché
li si ritiene capaci di regalarci momenti preziosi, perché sono
artisti e gli artisti sono per definizione sinceri, a differenza dei
politici e degli opinion
leader.
Dice cose su cui non siamo d’accordo? Pazienza, è il suo modo di
pensare. Tanto poi attacca Azzurro,
e su questo siamo tutti d’accordo.”4
1 FITTANTE, Aldo: Questa è la storia... – Celentano nella musica, nel cinema e in televisione. Milano, Il Castoro, 1997. Pagg. 71-72.
2 FITTANTE: Sottovalutation. Contenuto in: “Duel”, n. 18, ottobre 1994. Pag. 71.
3 SERRA, Michele: Tanto nessuno è come lui. Contenuto in: “La Repubblica”, 02/11/1997. Pag. 31.
4 CASTALDO, Gino: Ma la musica trionfa sull’invettiva. Contenuto in: “La Repubblica”, 22/10/1999. Pag. 50.
Francesco
Saverio Marzaduri
1 FITTANTE, Aldo: Questa è la storia... – Celentano nella musica, nel cinema e in televisione. Milano, Il Castoro, 1997. Pagg. 71-72.
2 FITTANTE: Sottovalutation. Contenuto in: “Duel”, n. 18, ottobre 1994. Pag. 71.
3 SERRA, Michele: Tanto nessuno è come lui. Contenuto in: “La Repubblica”, 02/11/1997. Pag. 31.
4 CASTALDO, Gino: Ma la musica trionfa sull’invettiva. Contenuto in: “La Repubblica”, 22/10/1999. Pag. 50.
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