ADRIAN: il tempo (non) se ne va...

Adrian: il tempo (non) se ne va... 


Volgare è tutto ciò ch’è fuori tempo. La vita è sempre un fatto musicale.” 
ADRIANO CELENTANO 

Io sono l’unico che non è cambiato”, diceva di sé stesso – ieri – il barcaiolo Felice Della Pietà in Yuppi du. “Non so perché ho scritto Adrian”, confessa – oggi – Celentano, “forse perché il tempo sta per scadere”. Nessuno obietta che l’ambizione di puntare alto ed estendere la propria politique in sfere inusuali, nella speranza che l’azzardo raggiunga livelli almeno soddisfacenti, venga posta come un’ultima scommessa della vita; e chi conosce l’eterno ragazzo della via Gluck sa molto bene che il concetto di “tempo”, espresso da protagonista in tutti i campi, lo accompagna da oltre sessant’anni di carriera. 

I tempi – nelle sue canzoni, nei suoi film, nelle sue performance televisive – (non) rispettano i tempi. In entrambi i sensi. Siano dilatati, ricreati, manipolati; o frenati, bloccati, fermati (in un tempo). In fondo, che cosa rappresenta un ralenti o un’accelerazione per un regista, o il rock (il funky o il blues...) per un cantante o un musicista, o l’uso delle mille diavolerie di una videocamera per un autore televisivo se non l’illusione di rendere eterni momenti che si considerano magici, fantastici, irripetibili? Allungare o restringere l’attimo fuggente: questo è il sogno segreto di ciascun artista. Che solo la finzione, la magia di una parola accompagnata da una nota, una finta realtà come la televisione possono offrire. E in cambio solo di un’ispirazione.”1 

Ma il tempo – quello reale della vita – pare essersi arenato pure per il coerente (nel suo essere contraddittorio) showman. “È stato il primo, ben trent’anni fa, a parlare di smog, ambiente e cemento armato”, esclama Piero Chiambretti in presenza del Celebre, “fatti pagare i diritti d’autore, meriti anche un Nobel per la pace”. Nell’inoltrato 2020, però, l’odierno pubblico non s’accontenta più di prediche sociali che abbracciano tutto (e niente), messe insieme alla rinfusa e declamate come proiettili sparati a spaglio nella speranza di colpire un bersaglio specifico: le menti pensanti. Le reti informative di telecomunicazione e di servizio, nella fattispecie il web, sembrano aver frenato, centuplicandola, la diffusione dei guru mediatici, offrendo alternative di pensiero nell’elaborazione d’idee, preconcetti, (pseudo)ragionamenti. Il recente caso della giovanissima attivista svedese Greta Thunberg, contro il cambiamento climatico e in difesa di uno sviluppo sostenibile, restituisce peraltro la volontà delle neo-generazioni, tenera e sorprendente, di scendere personalmente in campo e all’occorrenza pagar di tasca propria il contributo solidale. Altre sono le strade, e il prototipo del Re degli Ignoranti – per quanto l’ironico Chiambretti lo definisca l’antenato della citata Greta – testimonia una fede in linea con un’immagine e uno showbiz già sorpassati. L’ambizione è rock, l’esito lento; ma il Nostro appare più lento che Molleggiato.
Lei è fuori tempo, amico: oggi il mondo è cambiato!”, intimava Tina Foster (Claudia Mori), caporedattrice dell’immaginario Corriere dell’Est, al predicatore Joan Lui nel film omonimo, il quarto ed ultimo diretto da Celentano; solo che era l’85 quando il costoso kolossal pseudoevangelico – valutato come uno dei più clamorosi tonfi al botteghino, oltreché prodotto tra i più sfrontatamente megalomani del nostro cinema – protendeva le furbesche mani inserendo la figura d’una detrattrice contraria al perbenismo, all’ecologia e agli argomenti scontati di chi li professa. Sicché non ci sarebbe da stupirsi se Adrian fosse interpretabile come qualcosa a mezza via tra la più sfrontata presunzione e la boutade, sincera a suo modo ma non priva di calcolati cerchiobottismi: fedele al modus operandi di una lunga ed eclettica attività artistica, il non meno dispendioso serial animato targato Clan mischia e rimescola le carte in tavola nei modi più disparati (e disperati) sbalordendo o irritando, tra citazioni e rimandi che si susseguono, qualche sprazzo di originalità e tanta eccentricità. Fatto sta che l’universo che da mezzo secolo contraddistingue la naïveté di Adriano, infarcita oltre misura di tiritere eco-evangelico-pauperistiche già allepoca in odore di ridondanza, oggi lascia il tempo che trova e poco serve alle leve emergenti, abituate a ben diverse esemplarità a rischio dassuefazione; e il miracolo nel passaggio dal grande al piccolo schermo, dai pulpiti di Fantastico 8 alle tempeste di Rockpolitik, a lungo andare dissipa la magia senza conferire al suo ideatore quel lembo di (saggia) umiltà che navigati artisti sovente acquisiscono una volta raggiunti e superati certi traguardi. Proprio quel Fittante che anni fa dedicò una monografia, completa e appassionata, alla produzione di Celentano tra musica, cinema e televisione, scrive che l’operazione “rischia di trasformarsi in una di quelle soap spagnole – tanto amate da Mediaset – che da qualche stagione fanno una serrata concorrenza ai sonniferi”. Il giochino è già svelato (e, perché no?, sventrato): a cominciare dal reale protagonista, per l’appunto il tempo, che proietta la vicenda in un immaginifico 2068 – un secolo esatto dopo Azzurro – scandito da un enigmatico mega-ingranaggio. A rifletterci, Adrian non è che una trasposizione animata del Mondo in Mi 7a (e chissà di quant’altri brani, o “robe”, del Celebre): una caccia al tesoro – involontaria o meno, non è dato sapere – del Celentano-pensiero tout court, in permanente missione per conto di Dio, costantemente zeppo di riferimenti accumulati nella prolifica carriera. A detta della figlia Rosita, secondo cui Adrian avrebbe consegnato babbo all’immortalità, il pubblico era troppo impreparato per capirlo, meno ancora si sa se sarà oggetto di rivalutazione; ma anche se non costituisse – e non costituirà, ne siamo certi – l’opera testamentaria del Nostro, come suggerisce la didascalia in chiusura su un sole che spunta all’orizzonte, già costituirebbe una vittoria se in avvenire il palinsesto mattutino, riservato alla fascia infantile, lo annoverasse tra i format... 
Non è il caso, qui, di spender parole sul programma tv destinato a contenere e reclamizzare l’evento, sospeso dopo quattro puntate nell’inverno dello scorso anno e ripreso il successivo autunno: frutto duna gestazione durata oltre un decennio (l’idea risale al 2005), per la quale vengono state spese cifre da capogiro, pare dai 20 ai 28 milioni di euro. Annunciato nel 2009 e inizialmente destinato a Sky, Adrian è oggetto di continui posticipi a causa dei contrasti tra il Clan e le varie case di produzione scelte per la realizzazione del cartoon – il che spinge Sky alla rescissione contrattuale. Le animazioni sono curate da migliaia di disegnatori sparsi in tre continenti, Asia, Africa ed Europa, e comprendono oltre 10.000 scene; della serie sono girati circa 26 segmenti da 22 minuti l’uno, successivamente rimontati in nove puntate sui 55-70’ ciascuna, da trasmettere in nove prime serate. Il prodotto s’avvale di collaborazioni illustri: Milo Manara cura il character design; Nicola Piovani, coadiuvato da Celentano, si occupa delle musiche e della colonna sonora; alla sceneggiatura collaborano allievi della scuola “Holden” di Alessandro Baricco, laddove la supervisione dei testi è affidata a quel Vincenzo Cerami venuto a mancare anzitempo (dunque Adrian è il primo lavoro postumo a sei anni dalla scomparsa). Ciò non impedisce a inadempienze contrattuali e controversie tra collaboratori – soprattutto con Manara, che si dissocia dall’esito – di metterci lo zampino
“Soggetto di serie, bibbia letteraria e sceneggiatura di Adriano Celentano”, si legge all’inizio di ogni episodio: per cui qualsivoglia obiezione si muova nella reinterpretazione più o meno apocrifa dei sacri testi (non manca neppure il tradimento dell’Iscariota di turno...), essa risulta screditata dalle arbitrarie scelte di campo dell’autore, il quale da oltre un trentennio è salito sul pulpito di Savonarola. Peccato che la confezione ostenti ancora una volta l’aspetto d’un delirio animato, più che d’una reale visione, con una mastodontica macchina spettacolare in funzione irritante di una paternale che pretende di scuotere le coscienze con argomenti sublimi, e all’occorrenza dirottamenti artistici, ripercorrendo la consueta bagarre di luoghi comuni e moralette semplicistiche. Né più né meno la medesima – quasi che il Tempo si fosse arenato già... a suo tempo! – esemplificata da Joan Lui, secondo cui gli anni che l’essere umano vive si suppongono i peggiori della storia dell’umanità: nient’altro che un avvenire distopico, fatto di violenza alle donne (topos già insito nelle regie cinematografiche di Adriano) e immigrazione, inquinamento e disuguaglianza sociale. Verrebbe voglia di reimpiegare le parole di Giovanni Grazzini, quando stigmatizzava che nulla è più reazionario del far d’ogni erba un fascio: tant’è che la pedestre ideologia del Re degli Ignoranti si risolve nell’ennesimo spettacolo squinternato e qualunquista, che per timore dei “tempi morti” s’inzeppa di rimandi alla cronaca nera italiana, requisitorie da piazza e cicalecci da bar, caroselli e sparatorie, scene catastrofiche e Pavarotti, e – tra un elicottero svolazzante e l’altro – irrinunciabili rimandi all’iconografia sacra (quelle fiamme dell’abisso in cui il cosmo si va incenerendo...). Sostanzialmente, una rilettura più pagana che altro, dove il cattolicesimo, anziché essere intimamente avvertito, sa di plateale maniera. Nonostante l’eccessiva e spesso esasperante lunghezza, Adrian serba tuttavia qualcosa d’irresistibile, e al pari dello junk food risulta difficile sottrarvisi, più per curiosità che per fascino. Ma il monumentale calderone – pastrocchio anziché pastiche, con annessa sorpresa in un’interminabile pletora di prefinali – rimane un prodotto inclassificabile in cui la sensazione è di un quaresimale videoclip animato, naturalmente corredato di inserti musicali e coreografie, dove l’ineludibile redde rationem tra il Bene e il Male conta assai meno delle troppe cartucce sparate (e sprecate) nei diversi segmenti. Vista la zavorra da gestire, un guazzabuglio torrenziale in cui singoli ritagli faticano a restituire omogenea unità, i tocchi di trasognata genialità non fanno da collante alla storia, né le conferiscono organicità; non è facile desumerlo ma, si sa, questo è lo straniante stile di Celentano in una produzione che costantemente rimescola il mazzo sino al (voluto?) depistaggio
La partenza è un’ouverture simil-biblica, che a passo ridotto ripercorre la Storia a modo suo, con una voce off pomposa e magniloquente: conseguimento dell’umano potere, il consumismo è la causa della distruzione della Bellezza; da Genova a Napoli, da Milano a Ginevra, tutto il mondo è Paese in eguale unicum. Imminente, e inevitabile, la fine. Sfilano megalopoli semi-piramidali con immancabile elicottero minaccioso: uno stato di polizia sinistro e violento, corredato di scudi, caschi e manganelli, è costituito da onnipresenti tutori dell’ordine ad ogni angolo. Speculazione e corruzione sono irrinunciabili dogmi, perfino dove c’è lo sport (e una paternale del protagonista annullerà un evento calcistico), le donne facile oggetto di abuso e sopruso, il cibo contaminato e immangiabile (il ragazzino che addenta una mela, secondo il cliché favolistico). Malsana l’atmosfera (e nessuno ancora ipotizza un COVID-19!), bufere d’acqua sporca e schifezze... Sotto un cielo che offre spiragli di splendore a pochi, la società è in mano a una corporazione di oligarchie malavitose ribattezzata Mafia International e in odore di Spectre, legalizzata come un rispettabile marchio di fabbrica (il Capo dei Capi, abbigliato di bianco come il Tony Montana di Scarface, si chiama Dranghenstein). E non si può escludere la Chiesa, collusa e consenziente ai loschi traffici in cambio di favori e tornaconti
Protetto da Anidride e Carbonica, due sagge sensei eternamente giovani nonostante l’avanzata età, il Nostro è un orologiaio (e “Orologiaio” è il soprannome affibbiatogli dai fan), invitato sul palco dall’ossigenato e borioso cantante Johnny Silver nel corso del tradizionale concerto di Capodanno voluto dal potere; la star, ovviamente organica al sistema, lo sfida a cantare, presto pentendosi di avergliene offerto occasione. Si capisce che Adrian è una riscrittura aggiornata (si fa per dire) del più volte menzionato Joan Lui la cui chiacchierata presenza, armata di chitarra elettrica, spiazzava un turbolento raggio d’azione con un musicato messaggio pacifista – qui speculare all’aiuto concesso dal protagonista a un ragazzo, nel tentativo di conquistare la morosa con due righe (con in sottofondo Ti penso e cambia il mondo): “La bellezza non si paga”. L’inevitabile caccia all’uomo, con annesso premio in palio per il ritrovamento del misterioso personaggio, stuzzica la curiosità d’una cricca di teenager; sicché Lui si fa passare per “la Volpe”, con fascia nera per gli occhi in stile Zorro, sgomina i nemici a colpi di arti marziali pronunciando bizzarre rime e danzando passi di tango tra una botta e l’altra (e questo, a lungo andare, è l’aspetto più ridondante del format). E ancora, per sviare tracce e sospetti, s’inventa una terza identità anagrammando il proprio nome in Darian e nascondendosi dietro una gobba posticcia, una parrucca bianca e un paio di occhiali scuri; un po’ Caronte, un po’ Virgilio (e Virgilio si chiama un prete presente nella storia), fa da traghettatore-guida per canali e sotterranei, benché il travestimento lo apparenti a una Befana – come in tal veste viene chiamato – e Gilda stessa, che inizialmente ne ignora l’identità, lo reputi un fantoccio manovrabile dal potere. Ma si tratta di un’arma ritorta contro chi il paravento lo filosofeggia, e lo pratica, in maniera legale: il pubblico, soprattutto giovane, accoglie il nuovo idolo ballandone il leitmotiv, non discute d’altro, si diverte a remixarne la leggenda in discoteca prima di coalizzarsi in una cellula di ribelli al sistema (“E se noi tutti insieme, in un clan ci uniremo, cambierà questo mondo...”). Nel frattempo, le immagini di Lui sul palco che canta e si dimena svaniscono nel nulla, forse per supremo ordine dall’alto (e l’incredulità dell’anchorman, alla notizia che l’intervista a Darian-Adrian è omessa, è un déjà vu che rimanda a Tina Foster). Personificato da un governo che sentendosene minacciato ne esige la testa, il Male cerca di sottomettere l’Orologiaio con uno show tv purché non intralci il malaffare; ma Lui rifiuta, a dispetto di Joan che se ne serviva a proprio benefico scopo
Nel monstrum si sprecano fatidiche allusioni all’attualità e alla politica, attuale e passata: si pensi all’incorruttibile onorevole Limonati, avvelenato con una tazza di caffè come Pisciotta e Sindona, e celebrato, in un parlamento analogo a quello della Rivoluzione Francese, con un’ipocrita legge che sa di tripudio per la dipartita. Ce n’è per tutti i gusti: anche per il contenitore televisivo, tacciato di creare morti viventi ignari di esserlo ancor prima della messa in onda, laddove il servizio pubblico che fiuta qualcosa e potrebbe denunciarlo è oggetto di boicottaggio e censura. L’impasto, però, non si premura di nascondere allusioni sin troppo scontate, mostrando i piani alti del potere quale interconnesso racket, alla maniera d’un Partito spia degno di Orwell (e infatti fa capolino il Grande Fratello...); i due ambigui agenti speciali che si fanno rispettare a suon di ceffoni, interrogatori e battute bislacche, prima di passare alla sponda opposta, vestono in nero al pari degli eroi di Men in Black (o dei Blues Brothers), e rinviano a Matrix. Improbabile, ma non impossibile, che Celentano si rammenti della letteraria Momo, giacché la magica bambina creata da Michael Ende – guarda caso trasposta in un bel lungometraggio animato di Enzo D’Alò – si scontra coi fumosi Signori Grigi, parassiti sovrannaturali dediti a sottrarre il tempo delle persone
Il tempo non è bello”, dichiara laconico il protagonista non esattamente rivolto al tempo musicale, la cui insegna declama, a mo’ di salvifica missione, “La bellezza ti salverà”. Una coloratissima grafica, in mezzo a cui ogni tanto s’insinuano spunti pittorici, sposa un montaggio computerizzato a elettroshock condito di sonoro frastornante, tra ralenti, stacchi, zoom avanti-indietro, e una più che generosa abbondanza di canzoni di Adriano, con una a fungere da leitmotiv (I want to know, tratta da uno dei vinili da lui prediletti, Svalutation). S’accludano fondali apocalittici gremiti di fulmini e disastri, e si assiste al solito straniante e/o straniato show del Molleggiato, dilagante tra una frase a effetto e un motivo musicale, dove la scaletta è presto ridotta a evanescente pretesto: di episodio in episodio, tutto è accentuato sino allo sfinimento, senza temere recidività o il più ovvio didascalismo, e troppe risultano le battute in cui l’intento didattico è tanto ostinatamente ricercato da rientrare nel consueto interrogativo (ci fa o ci è?) sull’autore. E la conferma su annunci a megaschermo che strizzano l’occhio a Godard, diciture esplicative in bella mostra come titoli di testate giornalistiche (tipo “il Nulla”) e al centro la sagoma del Nostro che s’incammina verso l’obiettivo, non potrebbe suonare più palese. Né buoni né cattivi ma semplicemente brutti e innocui, i dialoghi sono così surreali da sfiorare – ardua impresa! – l’umorismo involontario: una riprova si ha quando Adrian, ai piedi del Duomo milanese, spiega a una scolaresca il concetto di “bellezza” prendendo a esempio l’amico Leonardo Da Vinci, a sua volta eco dell’ultima apparizione cinematografica di Celentano (l’altrettanto dispendioso quanto fallimentare Jackpot, il cui interprete, in un’occasione, si rinominava Leonardo)
Perché, si diceva, Adrian è un raccozzo della filosofia semplicistica dell’artista? La via Gluck in cui abita il protagonista – il cui tratto grafico riporta alle scenografie di 125 milioni di caz..te – è il solo spiraglio rimasto dincontaminata purezza, nonostante la minaccia di un cielo infuocato, e i popolari Navigli milanesi l’unica parte neorealista d’inalterata pace, speculare a un monumentale grattacielo parlante (forse un albero di trenta piani?), imperante moloch che pare uscito dalla matita di Guido Manuli. Il ritorno all’eco(log)ismo è ribadito dalla preferenza riservata alla campagna rispetto alla metropoli, che s’insinua qua e là a mo’ di pausa onirica: fuori città è infatti il casale-rifugio illuminato al tramonto dove Adrian si ritira e amoreggia con la compagna Gilda (col vento che li spettina un po’...), in seguito raggiunto dal canterino Johnny Silver tornatogli amico. Pure, se si esclude la figura d’un giornalista con le sembianze di Gino Santercole, cui la serie è dedicata, non si può non segnalare quanto la fidanzata guerrigliera e un po’ amazzone sia ricalcata su Claudia Mori, e si chiami Gilda come l’insegnante d’inglese da lei impersonata in Geppo il folle. Spunta poi un facsimile dello scrittore-alpinista Mauro Corona, ribattezzato Tony, che a un certo momento accoglie l’eroe, colto da temporanea amnesia, sotto la propria ala sui monti (il che riporta alla trasferta sulle nevi dove Geppo recitava il messianico pistolotto)
Lasciamo perdere le reazioni finto-bigotte rivolte alle parentesi scabrose, che vedono il protagonista far l’amore con Gilda, in cui a tratti si ritrova lo spirito delle strisce fumettistiche “adulte”; l’idea stessa di scimmiottare gli anime giapponesi apparenta Adrian allo stop-motion di Corto Maltese, più che di Akira o affini. Nell’avveniristica mattana, tra le reminiscenze a iosa (da L’appartamento a Il bacio della donna ragno e all’immancabile Via col vento), spuntano archetipi fantascientifici quali Metropolis e Blade Runner; e fa capolino Welles nella boccia di vetro con la città linda e pinta in luogo della fattoria sotto la neve. Il riferimento alla carta stampata (l’immaginifica testata “Verità Quotidiana”) fa il paio con quello alle gloriose stripes, e un direttore con immancabile sigaro è sulle tracce del neo-Superman. Un magno mare new age, che sogna gli addetti agli ingranaggi del tempo mentre biascicano uno stravagante accento francese à la Poirot. La forma primeggia sul contenuto, non esiste la retorica se il suono è giusto: ma la conclusione, si diceva, è una summa del paradigma-Celentano i cui (troppi) difetti prevaricano sulle (rare) virtù; non basta citarsi addosso riesumando lo spettro del barcaiolo di Yuppi du, o canzonare un devoto clericalismo (lo striscione col monito “W il Papa”). Sia pur condensato, il troppo stroppia; e l’ironia, quella vera, latita
Tanto persistente giunge il superomismo del personaggio – e da un pezzo si sospetta che il bisogno di onnipotenza sfiori la patologia – che, superato lo scoglio, quanto resta è un’impressione di patetica tenerezza: se trentacinque anni prima ci si poteva indignare per la presunzione di egolatria, ora non si può che sorriderne constatando quanto la politique del Celebre, convinto che la pubblica ottusità da lui spiegata sia ancora spacciabile per oro colato, s’avviluppi sui medesimi luoghi canonici. Facciamo finta che sia tutto vero, continuando a giocare coi titoli della sua discografia; anche se la situazione non è buona, tanto i mali del secolo dominano incontrastati (corrispettivi all’altra metà del cielo), la palpabile e via via irritante sensazione di autocompiacimento è rimarcata da immagini di Celentano in carne e ossa, durante la tormentata edizione di Fantastico condotta nel 1987, commentate da un giovane Enrico Mentana e diffuse da uno schermo al plasma. “È lui che vorrebbe essere come me”, mormora Adrian-Darian, “tra i due quello vero sono io”: e nel confidare a Johnny che l’originale Adriano vorrebbe essere come lui, emerge un addizionale quid narcisista che da purificante momento di chiarezza sublima nel vetusto delirio d’onnipotenza. C’è sempre un motivo (per tornare a capire); come l’animato simulacro di un originale non invecchia né muore, ma esplica la scelta di raffigurare tale alter ego come il fisico prestante che fu – se non più avvenente – contrapposto all’invecchiamento ostinato e precoce che il Molleggiato da sempre coltiva verso sé stesso, e alla lenta realizzazione dei progetti. Eppure, se nel cartoon il pubblico lo prende a modello e continua a seguirne l’indicazione di migliorare il mondo, nella realtà sembra accantonarlo pian piano o, nel caso della serie in oggetto, temporaneamente rifiutarlo. Come per l’eterno Messia con cui si sente in tal confidenza da potervisi identificare, che cade, spira, risorge. E si moltiplica, uno e trino, e tre sono infatti i ruoli che il Nostro si cuce addosso: Adrian, Darian e “la Volpe”. A qualche modello, dopotutto, bisogna pur ispirarsi. Ma laddove Adrian è un solitario, Darian ha molti seguaci, e come Cristo viene fatto prigioniero, senza bramare di evadere, nell’esultanza generale dei fedeli che l’acclamano e gli dedicano fiaccole
Da lustri il Celentano-personaggio non necessiterebbe di prodursi quale anchorman messianico per accattivare il pubblico: il solo cimentarsi in un balletto tanto più disarticolato quanto più in costante equilibrio, o il “parlare” coi silenzi, restano espressioni e indici appartenenti a una tra le maschere in assoluto più vulgate (e rappresentative) del costume nostrano, e da soli valgono l’originale estro di un artista singolare, amabile o trascurabile che sia. Scrive Fittante: 

Corpo dinoccolato capace di performance istintivo-musical-eco...iste e volto da scimmia che nemmeno tutte le Cite dell’immaginario collettivo, l’anticonformista divulgatore del rock italico è un po’ artista e un po’ no (come ama definirsi lui), un er più dell’ironia, un urlatore che sa anche ridere di sé, un moralista involontariamente troppo sottile e dunque sovente oggetto di bordate che non meriterebbe.”2

Quand’anche coi silenzi e il proprio “analfabetismo” lo showman sembra non aver nulla da dire in apparenza, osserva Michele Serra: 

Nei suoi momenti migliori (non pochi), nelle sue possessioni più misteriose (a volte parla l’italiano come l’indemoniato il sanscrito), Celentano ha sempre saputo violare ampiamente i confini della propria macchietta. Quando è in forma ragiona come uno degli eroi rurali (e democratici) di Mark Twain, demolitori dell’ipocrisia classista e del perbenismo dei piccoloborghesi urbanizzati. Quando è fuori forma è anche meglio, una specie di fool afasico, ingovernabile, imbarazzante, che abbiamo visto esposto nella gogna del sabato televisivo come il monstrum in cattività, memoria vivente dello spavento da cui tutti veniamo – la fame, il freddo, la paura, la boscaglia... – eppure, dignitosissimo, sempre, come chi non deve fingere, e si sente benone nei suoi panni.”3

Nessuno dubita che Adriano, nel proporsi come stentoreo Messia, si convinca di ciò che proclama e trasmette al pubblico; eppure, se una parte di Lui risulta gradita perfino a chi non lo ammira, è perché sotto una patina irritante o ciarliera si nasconde un fior di cantante, entrato di forza nelle più riposte tenerezze dell’immaginario collettivo. Che risponde all’appello perché Celentano è un artista – quanto (in)consapevole? – così “fuori tempo”, così senza tempo. Che alla fin fine, come il miglior scacchista professionista, supera la partita d’una vita. Conclude Gino Castaldo: 

Se tutti perdonano tutto al Celentano dei monologhi è perché sotto sotto lo amano come cantante. E ai cantanti si concede molto, perché li si ritiene capaci di regalarci momenti preziosi, perché sono artisti e gli artisti sono per definizione sinceri, a differenza dei politici e degli opinion leader. Dice cose su cui non siamo d’accordo? Pazienza, è il suo modo di pensare. Tanto poi attacca Azzurro, e su questo siamo tutti d’accordo.”4 

Francesco Saverio Marzaduri 


1 FITTANTE, Aldo: Questa è la storia... – Celentano nella musica, nel cinema e in televisione. Milano, Il Castoro, 1997. Pagg. 71-72. 
2 FITTANTE: Sottovalutation. Contenuto in: “Duel”, n. 18, ottobre 1994. Pag. 71. 
3 SERRA, Michele: Tanto nessuno è come lui. Contenuto in: “La Repubblica”, 02/11/1997. Pag. 31. 
4 CASTALDO, Gino: Ma la musica trionfa sullinvettiva. Contenuto in: “La Repubblica”, 22/10/1999. Pag. 50.

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