Il re è morto, lunga vita al re!
Il
re è morto, lunga vita al re!
“E tu, cos’hai trovato?”
“Io? L’illuminazione.”
SEAN CONNERY e HARRISON FORD, Indiana Jones e l’ultima crociata
Fu
trentadue anni fa che la seconda rete televisiva nazionale ne prese
ufficialmente atto: Non solo Bond si chiamava
infatti la rassegna, incompleta ma sufficientemente rappresentativa,
che Rai 2 dedicò a Sean Connery, riconoscendo che i suoi meriti
andavano oltre la figura, sia pur da lui resa iconica, dell’Agente
007. Il titolo della rassegna suonava azzeccato ai limiti
dell’aforisma, trattandosi d’un interprete ancora noto, ai tempi,
perlopiù per tale ruolo, e ritrovatosi nel milieu della
celluloide dopo un’umile gavetta tra esperienze giovanili nella
Royal Navy e i lavori più disparati, culminate nella partecipazione
al concorso di Mister Universo che lo classificò al terzo posto.
Fisico prestante, la cui precocissima calvizie non costituì un
problema, contribuendo anzi a incrementarne lo charme magnetico
e l’inossidabile carisma che lo avrebbero accompagnato durante la
carriera, facendone un interprete anche più memorabile nei ruoli
della maturità. Come il whisky, scozzese al pari di lui, esalta le
proprie qualità col trascorrere del tempo, così (Thomas) Sean
Connery non dovette attendere molto prima di rivelare la stoffa
attoriale – che non sarebbe onesto definire “insospettata” –
dietro lo smoking e la pistola, in quel potenziale manichino che
avrebbe potuto imprigionarlo. Ian Fleming in persona, d’altronde,
non era del tutto convinto che il suo volto fosse il più adatto alla
propria creatura. Il resto è storia, così come il mito, e la
leggenda la vince sulla realtà. Eppure, nonostante il ritiro dalle
scene risalga a diciassette anni prima (l’ultimo film, La
leggenda degli uomini straordinari, è indegno del suo talento,
nonostante ricopra il ruolo di Allan Quatermain), viene il magone a
pensare che Connery ci abbia salutati per sempre, immaginandolo
sorridente e sornione, fiero di ostentare la scritta “Scotland
Forever” tatuata sull’avambraccio, cosa che avvenne a beneficio
di telecamere durante un evento calcistico. La sua scomparsa, resa
inevitabile dalla malattia che l’aveva colpito senza impedirgli di
celebrare la novantesima primavera a fine agosto, reca il nostalgico
sentore del racconto d’avventura giunto all’epilogo, in cui
audacia e spavalderia, ironia e tenacia – strumenti irrinunciabili
per resistere all’invincibile spettro – non molto possono nella
lotta contro le regole del tempo. E se malinconia e sorriso vanno di
pari passo con l’amore e la morte, la realtà predomina sul
fiabesco consegnando all’immortalità l’eroico status di
chi non necessiterebbe di arzigogoli, né di pomposità, per accedere
nell’Olimpo. A rifletterci, quasi tutte le prove migliori di
Connery sono accomunate da una patina di consistenza quasi cartacea,
in cui l’artificio narrativo, picaresco e appassionato, si colora
di elegiache sfumature e il Tempo, (in)contrastato sovrano, assurge
a fil rouge come un diegetico, negativo fattore.
In questo senso, il datato Zardoz illustra un
ulteriore cripto-agente contro un bandito del tempo, riportando
l’esistenza all’usuale dimensione. Ma è proprio il tempo a
donare alla star la magica, naturale regalità che in più occasioni
gli consente di ricoprire ruoli storici (pensiamo al famigerato Mulay
Aḥmad al-Raysūnī) o ruoli maestosi – si chiamino essi Daniel
Dravot, Agamennone, Riccardo Cuor di Leone o Artù – col medesimo
portamento degli indomabili al centro di imprese ribalde, o in lotta
contro i cattivi di turno (ed ecco sfilare Robin Hood in persona,
ancorché vecchio; e Duke Anderson, Edward Pierce, William O’Niel;
e Alan Caldwell, l’immortale Ramírez, Marko Ramius,
e il Jimmy Malone che gli fa ottenere l’Oscar). La stessa
partecipazione nel terzo capitolo della saga di Indiana Jones, nei
panni del padre di questi, appartiene a un doveroso passaggio di
consegna tra rispettivi miti e generazioni. La scelta di assegnargli
la parte d’un Sherlock Holmes in saio, d’irresistibile aplomb,
in un’abbazia benedettina in Piemonte rientra nel gustoso novero
delle figure cartacee per cui far il tifo. E ancora, col medesimo
portamento da simpatica canaglia, Connery in primis smonta
la collisione tra verità e mendacia in una bislacca operazione
fantapolitica: il sottostimato Obiettivo mortale, dove
il cronista televisivo da lui impersonato dimostra – come declama
il titolo originale – che “sbagliato è giusto” (ribadito
dall’estremo gesto di togliersi il parrucchino in diretta, prima di
paracadutarsi). Burlesco, in sottrazione o meno, lo è sempre stato
(chi non ricorda lo spot d’una compagnia assicurativa in cui
nessuno lo riconosce e finisce in manette?), divertendosi a beffare
il personaggio che gli diede la notorietà – gli ultimi due 007
sono girati a dodici anni di distanza – accettando disinvolto i
segni dell’età senza ricorrere, a dispetto d’illustri colleghi,
alla chirurgia plastica. E senza intaccare registri drammatici,
da Cinque giorni una estate (il miglior film sulla
montagna) a La casa Russia o al corale Scherzi
del cuore, in cui il rimpianto non sfiora mai il patetismo.
Persino in una commedia dolce-amara, il non riuscito Sono
affari di famiglia, il tragico piomba in una sfera
apparentemente ilare riconducendo differenze d’età (e soggettive
preferenze) sul binario di caratteri e psicologie. E solo apparente è
la durezza, in realtà ostinata volontà salvifica da imporre, se
necessario, con la forza, quella che lo muove nei panni di marito
innamorato e desiderante in Marnie. Contando anche
l’apporto come produttore, la sterminata filmografia di Connery
contempla lavori di minor pregio, partecipazioni collettive e
televisive, prodotti meramente commerciali o alimentari: tra le
ultime prestazioni, svetta solo il William Forrester offertogli da
Gus Van Sant, uno scrittore d’origine scozzese ritiratosi a vita
privata come lui medesimo farà di lì a poco. Benché abbia
ricoperto vesti, sia pure strette, di villain (La
donna di paglia o il parodistico The Avengers –
Agenti speciali), memorabili restano due parti antitetiche per
Sidney Lumet, che, al pari di Paul Newman, ne disse come il miglior
attore con cui avesse lavorato: l’idealista Joe Roberts, avverso a
ottusi regolamenti, discipline e soprusi, e il violento Johnson,
sbirro di falsariga dürrenmattiana alle prese con un caso di
pedofilia che via via si tramuta in psicodramma esistenziale. Il
fervente impegno politico per l’indipendenza del paese natio non è
affatto un mistero (tanto da presentarsi alla regina Elisabetta in
kilt), ma l’ulteriore aspetto d’un divo per caso, la cui
dipartita, nonostante teneri sorrisi a celare la mestizia, è accolta
dall’incredulità nell’apprendere che un grande amico ci lascia.
Non avendolo fatto per l’ultima candela, colgo ora l’occasione di
pensare che la sua morte non necessiti di cinematografiche elegie,
mentre scocca sofferente l’ultima freccia, precipitando da un ponte
o trascinandosi sanguinante sul pavimento dopo un agguato mafioso.
Altresì, che il suo ultimo insegnamento, a mo’ d’imperitura eco,
sia di non perdere la testa. “Diavolo, si deve pur morire di
qualcosa!”
Francesco Saverio Marzaduri
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