MANK, the other side of the legend

Mank, the other side of the legend 


I dissensi che carta stampata e social network hanno riservato, a pochi giorni dall’uscita, a Mank, undicesimo lungometraggio di finzione firmato David Fincher, rivelano come il pur abusato sottobosco hollywoodiano mostri ancora di voler (e poter) dire di sé, senza venir meno al sempiterno principio di reinventarne l’effigie – arcinota, peraltro – badando a non perdere un briciolo del senso di “magico” impartito dalla fabbrica di sogni. Sortilegio che si dispiega già in apertura, con gli opening credits che sfilano in verticale su uno sfondo di candide nuvole, come in uno dei tipici titoli del periodo classico del ventennio Trenta-Quaranta – complice lo splendido bianco e nero di Erik Messerschmidt. La “poetica della nostalgia”, in pieno mutamento cinematografico negli anni a seguire, avrebbe provveduto a riadottare e riabilitare quel sense of wonder rendendone possibile la replica, talora rischiando la maniera (pressoché esaustivi, qui, nitore figurativo e art déco: da costumi luccicanti sui corpi femminili dell’epoca a un make-up teso ad esaltare eccessi divistici). Nell’abbondante gioco antinomico che interseca tre paradigmi narrativi scelti all’uopo (leggenda-realtà, storia-mito, pubblico-privato), e che nel caso specifico assurge ad assioma, il tiro si fa sin troppo ardito, s’è vero che uno dei temi affrontati concerne la gestazione di un’opera monumentale, con inevitabile richiamo mitopoietico al suo titanico autore. 
Chi tocca muore, suol dirsi: sicché qualsiasi osservazione si possa fare nella restituzione scenica di Welles – esibito nell’incipit sfocato o di profilo, e poi, ad esempio nell’ultimo confronto col protagonista, in primo piano – comporta un punto di vista soggettivo che mette a dura prova l’attesa dello spettatore cinéphile, irritato dal disegno d’un giovanissimo ma nevrotico despota, paranoico e bizzoso. Ma si tratta anche in questo caso d’antinomia, ché la rispettiva scelta di campo rispecchia il preambolo della Mecca in celluloide secondo gli usuali standard, peraltro senza smentirli: salvo che in finale di partita l’opinione del pubblico, fingendo d’esser smentito dall’artificio, non si discosta troppo dalla posizione del personaggio al centro versus datori di lavoro, tycoon, magnati dell’industria, divette biondo platino. Tutto già visto, verrebbe facile dire. E si sbaglierebbe: proprio una battuta del film provvede, furbescamente, a metter le mani avanti (“Non si può cogliere l’intera vita di un uomo in sole due ore, il massimo che puoi sperare è dare l’impressione d’averlo fatto”). Ecco dunque come la sola connessione plausibile col capolavoro di Welles risieda nell’analogo intento di emulazione dell’oggetto esaminato, attraverso una struttura a incastri dove la visione si fa bilaterale: il ritratto di Herman J. Mankiewicz si contrappone all’officina della quale è al servizio (ancorché tra i servitori più geniali), lungo due ore e dodici d’un quadro a due facce e una sola medaglia. 
La narrazione è un unico grande cerchio – sancisce ancora Mank – è come una girella alla cannella, non una linea dritta che punta all’uscita più vicina”. Non è strano che i flashback di cui Fincher dissemina la docu-fiction, il ricordo di Herman, siano un punto di vista in comune col giudizio dell’osservatore, che implica riconsiderare lo script di Quarto potere, cui l’uomo lavora costretto a letto per sessanta giorni a seguito di un incidente, come una duplice sfida: alla sfera finto-dorata del System e a sé stessi. Persino i due mondi agli antipodi, rispettivi sfondi del Prima e del Poi, parlano della tempra del personaggio, del suo modus operandi, di una personale battaglia tra contraddizioni e prese di posizione. Da un lato gli uffici degli studios (con tanto di cartello esposto “Geni al lavoro”), in cui Mank si diverte a scommettere, e a perdere, con colleghi del calibro di Ben Hecht, Charles MacArthur, S. J. Perelman, George S. Kaufman e un Charles Lederer agli inizi; dall’altro l’aridità dello sperduto ranch nel Mojave in cui il Nostro è recluso, dominato da una realtà agli antipodi dove una segretaria-dattilografa inglese (il cui coniuge è dato per disperso in guerra) e una governante-infermiera tedesca sfuggita alla persecuzione nazista giungono quale ripensamento agli egoismi e capricci dello sceneggiatore. E al pari della riserva di whisky che si esaurisce via via, esplicativa è la scelta delle didascalie dattilografate come in un copione, utili a scandire i salti temporali – espediente metalinguistico efficace nel bisticcio tra parola scritta e immagine discorsiva – che in più circostanze rimettono in discussione l’atteggiamento di Herman, nella misura in cui il flashback gli si offre quale inaspettato lampo di genialità nella stesura del progetto (per ammissione dello stesso Fincher, “Welles era convinto genuinamente che isolamento e anonimato giovassero a Mank, liberandolo da tutte le pressioni che si portava appresso e consentendogli una maggiore introspezione”). Non per nulla, l’opera si concentra sulla figura dello scrittore, cuore rivelatore d’un milieu che non può farne a meno, più che sul produttore o sul regista: in tal senso le diciture fungono non (sol)tanto da marchio di fabbrica, ma da indelebile impronta personale. 
Ma il film di Fincher, che va oltre la mera patina del biopic, è fondamentalmente un film basato sulle differenze. La più importante delle quali concerne, manco a dirlo, il profilo del protagonista: sedicente democratico, non perde occasione per sfottere Hollywood in tutto il suo conglomerato (da Louis B. Mayer a Irving Thalberg, da David O. Selznick al magnate dell’editoria William R. Hearst), che da par suo gli stipendia vizi e alcol conoscendone la spigolosità. Autodistruttivo ma lucidissimo, lui medesimo di chiara estrazione ebraica, incapace nella vita di qualsiasi barlume di misura e tuttavia dotato di sensibilità e arguzia, indicatori imprescindibili verso la propria view esistenziale. A prestarne le sembianze, un imbolsito Gary Oldman di vent’anni più anziano della parte, ma – come il Churchill che un biennio prima gli fruttò la statuetta – alle prese con una nuova ora (più) buia di cui gli affetti personali, la moglie Sara o il futuro importante cineasta Joseph – quest’ultimo introdotto nel climax della Mecca – rischiano di far le spese. Prerogativa di entrambi, Herman e Joe, è di non far gioco di squadra: salvo che il capitolo del secondo abbraccia una Hollywood non meno geniale e innovativa, né meno sfarzosa, destinata molto dopo a farsi incalzare dalle produzioni low budget. A causa di questa discrepante debolezza, Mank pare in un primo momento arrendersi dopo aver scommesso, sempre perdendo, sul risultato che vuole Upton Sinclair governatore anziché il favorito Frank F. Merriam (sul cui affiche elettorale lo sceneggiatore sfrega un fiammifero per accendersi la sigaretta), poco dopo aver difeso Sinclair asserendo che nel socialismo si condivide la ricchezza e nel comunismo la povertà. Sempre a difesa di tale posizione, convinto di riuscire, cerca di sventare il suicidio d’un collega malato, firma per fasulli cinegiornali di propaganda dietro la promessa di diventare regista. 
E benché sprezzante quanto basta da immaginare King Kong alto dieci piani e Mary Pickford vergine a quarant’anni, Mank è e rimane un lacchè, sia pur di lusso, combattuto tra il pensiero e il dovere, servo di due padroni come Arlecchino, condannato a impersonare il ruolo di scimmia su un organetto o in una gabbia (ne sono un monito le scimmiette dietro le sbarre della magione kitsch di Hearst, mentre lo screenplayer sfila insieme all’amante di questi, Marion Davies). In pari misura Mayer e Hearst sono servitori l’un l’altro, prova ne sia il discorso del primo alle maestranze della MGM ridotte a obbedire (con Shirley Temple ad applaudire tra esse), la cui valutazione del cinema non incarna emozioni ma solo denaro, mentre il protagonista si compiace definirsi “un Mosè non così a buon mercato”. Se egualmente i magnati dell’industria si beano di credersi padroni del mondo, senza (confessarsi di) essere vittime di un’univoca prigione, Mank, dalle quattro mura d’una stanza in subbuglio tra montagne di scartoffie, riesce a vedere la luce nella composizione d’una lastra nitidissima: un pamphlet sotto l’illusoria facciata, atta a radunare tutto e tutti indistintamente, restituendo gli sguardi della presunta fiaba quali simulacri, patetici e squallidi, ignari di un’imminente scomparsa dietro l’aurea superficie. Bigger than life, ecco Quarto potere quale antitesi finto-reale d’un entourage che seppellisce la realtà sotto la finzione. “Anche se in fondo Mayer ha ragione quando dice che il ricordo e l’emozione di un’immagine non si possono possedere. La magia forse sta proprio nella loro inafferrabilità” – scrive Lorenzo Rossi – “e con Mank Fincher mantiene intatta questa ambiguità dell’immagine ponendola al centro della rappresentazione e facendone la propria Rosebud. Perché come lo slittino di Kane è anch’essa qualcosa che pur disvelata, risolta e portata in primo piano, mantiene intatto tutto il suo mistero”. 
Anello di congiunzione, la disastrosa cena in cui un Mank ubriaco fradicio rigetta – non solo allegoricamente – il proprio pensiero verso i dittatori del System, utilizzando Don Chisciotte a mo’ di metafora, fa il paio con la schermaglia verbale che ha con Welles. La geniale penna e il geniale enfant prodige della radio si ritrovano a loro volta prigionieri discordi d’un esecrato organigramma, oltreché della boccia di vetro con l’innevata fattoria all’interno: ulteriore artificio volto a perpetuare l’eterna dicotomia nella paternità dello script, riscrivendo Storia e mito secondo vedute soggettive all’interno d’un prodotto destinato al piccolo schermo, osando l’inosabile nell’impiego di un progetto delicato e azzardato. S’aggiunga che la sceneggiatura, nel tentativo di somigliare a una pellicola dimenticata (quanto Mank medesimo), reca la firma di Fincher senior, giornalista in pensione che spese gli ultimi anni per dedicarsi alla scrittura cinematografica. La posizione dell’autore, altro dualismo, opta per le memorie dell’eroe immortalato; le scatole cinesi proseguono, secondo l’enigmatica magia che la Settima Arte rende possibile. Come la riplasmazione della Storia dietro la teoria (Tarantino docet), o del più obsoleto vezzo onirico di marca felliniana (annoverante perfino le melodie di Trent Reznor e Atticus Ross). Dato l’archetipo wellesiano, anche qui il trenta per cento è reale e tutto il resto inventato: così pure il discorso conclusivo in cui Mank, conseguita l’unica statuetta dell’opera cui ha collaborato – e che forse ha generato – ringrazia al microfono dalla sua abitazione “lieto di accettare questo premio in assenza del signor Welles, perché la sceneggiatura è stata scritta in assenza del signor Welles”. 
Deformazioni e grandangoli, sfocature e sfaldature (il segmento della sconfitta di Sinclair pensato come in un titolo targato MGM) comprovano l’ineccepibilità d’un congegno a orologeria, ma anche un’insincerità di fondo che non azzera un’impressione di studiata freddezza, affettata e compiaciuta. Si respira la lezione dei fratelli Coen (da Barton Fink – È successo a Hollywood L’uomo che non c’era), senza disporre dell’identica mordace ironia. E se “il film fallisce il primario intento di raccontare la vicenda di un personaggio imperfetto”, stigmatizza Paul Schrader, “onde convincere lo spettatore che questo meriti due ore del proprio tempo”, sarebbe più corretto parafrasare lo stesso Mank quando si paragona a un topo alle prese con una trappola costruita da chi vi lavora, e rimodellata dall’interno – cioè dal topo – proprio tappando i buchi che ne permetterebbero la fuga. 

Francesco Saverio Marzaduri 

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