Christopher Plummer, il sorriso dietro l’ambiguità
Christopher
Plummer, il sorriso dietro l’ambiguità
CHRISTOPHER
PLUMMER, Lo
strano mondo di Daisy Clover
Probabilmente
qualcuno ricorderà l’episodio de I
Robinson in
cui il figlio maschio della celebre famiglia televisiva deve
svolgere, insieme al suo migliore amico, un compito in cui si deve
analizzare il Giulio
Cesare.
Privi d’entusiasmo, i coetanei s’apprestano a farlo, senonché di
lì a poco i padroni di casa ricevono la visita di due professori:
uno di essi, la cinquantottenne guest
star Christopher
Plummer, due anni prima di Robin Williams trasforma l’incontro in
una rilettura improvvisata e vivace di Shakespeare, declamandone a
viva voce alcuni tra i passaggi più memorabili, coinvolgendo gli
ospiti e catturando l’entusiasmo dei ragazzi; e dulcis
in fundo,
serbando l’identico aplomb,
recita una fiaba scritta dalla piccolina di famiglia. Un modesto
esempio, tra i numerosi a disposizione, per comprendere come
lo status d’un
interprete dal fisico algido, volto in apparenza altezzoso eppure
iconico per parti da villain,
si presti a giocose situazioni mantenendo la medesima
professionalità. Qualcosa che il canadese Plummer, spentosi a
novantun anni dopo quattordici lustri di carriera, reitera davanti al
pubblico dell’Academy nel ricevere la statuetta come attore non
protagonista per Beginners,
scherzando sulla propria età e su quella dell’onorificenza. Benché
riduttivo quanto inevitabile sia associarne l’effigie a quella del
Georg von Trapp di Tutti
insieme appassionatamente,
ciò ribadisce la necessità dello spettatore d’identificarlo in un
ruolo edificante senza tener molto conto delle raffinatezze, sovente
ambigue, ciniche e in più d’una circostanza negative, di cui
quello sguardo si serve in altri lavori. Per di più, nell’osannata
pellicola di Robert Wise, offrendo la precedenza al sorriso
della fabula quale
univoco toccasana alle insidie della Storia (ed è obbligatorio
ricordare almeno il suo Kipling testimone di picaresche ribalderie
ne L’uomo
che volle farsi re):
tanto che nel tragico Remember è
lui a incarnare un nazista che si crede (in buona fede) un
superstite della Shoah in cerca di vendetta, chiudendo un cerchio che
non può lasciare spazio allo humour. E interessa poco, in fondo, che
le sporadiche partecipazioni nel registro brillante, quando
richieste, non scattino a dovere (il suo Sir Charles Lytton, infatti,
nel terzo capitolo de La
Pantera Rosa,
perde ai punti con quello di David Niven): dietro i lineamenti del
ghigno beffardo e canagliesco, s’intuisce però l’ironia d’una
compostezza propria solo dei giganti del palco, sapido contorno per
panni da complementare coprotagonista. Né andrebbe trascurato che in
una dimenticata commedia britannica, Lucky
Break,
si chiede a Plummer di parodiarsi impersonando un allocco direttore
carcerario appassionato di teatro, la cui scalcinata pièce su
Orazio Nelson da lui scritta innesca la pianificazione di un’evasione
di massa. Proprio nei tête-à-tête con
solidi antagonisti, tuttora l’operazione gatto-topo rimane
stuzzicante: le movenze del killer-vittima Harry Reikle ne L’amico
sconosciuto – “partner
silenzioso”, secondo il titolo originale, all’occorrenza
camuffato da imbellettata madama o da Babbo Natale – conducono il
personaggio verso un coup
de théâtre che
ribalta la potenziale vittoria, suscitando un barlume di simpatia per
lui più che per il furbo (e infido) impiegato di banca Elliott
Gould. Il resto – parafrasando il debutto dell’attore sul grande
schermo – appartiene al fascino
del palcoscenico:
un florido bagaglio prestato a produzioni assortite che vanno dallo
storico al bellico, dal biopic al
thriller, e annovera tivù e doppiaggio, rientrando nel comparto in
cui la mise-en-scène cinematografica
si misura, giocoforza, con la preparazione teatrale, talora a scapito
dei risultati ma senza scalfirne l’ineccepibilità (chi scrive
acclude pure il Capitano di The
New World).
Chi criticasse la maniera nel tycoon Raymond
Swan, “il principe delle tenebre” – o, tempo dopo, le
mefistofeliche personificazioni di Leland Goines e Arthur Case,
concludendo magari come la felina equivocità carezzi l’etichetta –
deve fare un passo indietro di fronte a Tutti
i soldi del mondo:
film discusso e non riuscito, ma obbligatoria visione per il disegno
che un Plummer sempre impeccabile, e ormai novantenne, conferisce
all’avido e crudele magnate Jean Paul Getty (per il quale
inizialmente era stato scritturato Kevin Spacey); tanto che le scene
che fotografano quest’ultimo, girate poche settimane prima
dell’uscita, confermano come a volte un esito controverso non
faccia rimpiangere la scelta. Segno che, dai vegliardi onusti di
professionalità e carisma, mai si smette d’imparare: soprattutto
in questi ultimi giorni, in cui nomi di cartello quali Cloris
Leachman, Hal Holbrook, Giuseppe Rotunno o Jean-Claude Carrière
volano via assieme a Christopher Plummer, lasciando la Settima Arte
indubbiamente più povera.
Francesco
Saverio Marzaduri
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